I 10 MIGLIORI
ALBUM GLAM METAL
CAPITOLO 6: “LOOK
WHAT THE CAT DRAGGED IN” (02/08/1986)
Ve lo dico subito: a me i Poison
non esaltano più di tanto. Il perché è presto detto: troppo semplici, troppo
ruffiani, troppo orecchiabili, troppo alla ricerca del facile appeal, poco originali, debitori come
sono delle grandi band dell’East Coast degli anni settanta (Kiss e Aerosmith in
primis), nonché dei gruppi di punta hard rock/glam della West Coast della prima
metà anni ottanta (Quiet Riot e Motley Crue su tutti).
Attenzione: non che questi
quattro pazzoidi della Pennsylvania non avessero una loro personalità ma, a mio
modesto avviso, hanno pagato troppo il fatto di aver esordito, col qui presente
“Look what the cat dragged in”, “solo” nel 1986, cioè quando ormai come abbiamo visto il movimento
glam era lanciato ed erano usciti già molti album importantissimi che avevano marcato
a fuoco la Scena (ricordiamo che, ad esempio, l’album d’esordio dei Motley
Crue, “Too fast for love”, è già del 1981).
E non fu un caso quindi che il gruppo
nascesse, quando ancora si chiamava Paris, come cover band di tutti quei gruppi succitati. In particolare i Motley Crue
saranno sempre un punto di riferimento decisivo per Bret Michaels e compagnia,
omaggiandola a più riprese sia, come detto, agli albori della carriera, sia con
la scelta della copertina di questo loro primo disco che ricalca palesemente
quella di "Shout at the devil" (le similitudini e i collegamenti tra le due
band, e in particolare tra Tommy Lee e Michaels, continuerebbero anche nelle
rispettive camere da letto, con co-protagonista Pamela Anderson e i filmati
hard fatti-in-casa…ma lasciamo stare questo aspetto pruriginoso che è meglio...).
E tecnicamente poi? Michaels,
diciamocelo, è un cantante mediocre, dall’estensione limitata, che nel corso
della sua carriera ha seguito diverse strade, compresa quella solista, cambiando
look a più riprese a seconda di come girava il vento del trend: dall'abbigliamento glam degli esordi, appunto, a quello country negli anni ‘90, fino ad arrivare al vomitevole
abbigliamento piratesco in stile
Johnny Depp – Capitan Sparrow così in voga anche nel mondo metal nell’ultima
decade; C.C. DeVille poi è un buon chitarrista, certo, con una discreta tecnica
e qualche buona intuizione, ma nulla più. E la sezione ritmica si limitava a
fare il suo senza mai emergere…
Ma, allora, perché i Poison nella
nostra lista?? La risposta è in realtà semplice: al di là dei gusti personali,
l’umile recensore non può che inchinarsi a quello che i Poison hanno
rappresentato nella Storia del Glam, al loro ruolo ricoperto all’interno della
Scena, e, da ultimo ma non meno importante, al successo commerciale riscontrato.
Cosa pensereste se in una retrospettiva sul Thrash non fossero presenti gli
Exodus? O se in una sul Death non ci fossero i Morbid Angel? Beh, il discorso è
lo stesso per il Glam e i Poison. Addirittura per certi versi i Poison dei
primi due platters SONO il Glam! Andate a rileggervi quei minimi comun
denominatori del genere che avevamo individuato nella seconda parte dell’Anteprima: i
Poison li hanno impressi tutti, nessuno escluso, nel loro DNA, resi manifesti
alla massima potenza nella loro forma se vogliamo più pura e incontaminata,
sia nel songwriting che nel contenuto lirico; una forma spogliata quasi
interamente da altre influenze, punk o heavy che siano.
Ed ecco spiegato il perché, se si
parla di glam/hair metal, il nome Poison sarà il primo, o uno dei primi, che qualsiasi
appassionato del genere vi tirerà fuori. Se a questi fans chiederete canzoni
distintive dell’intera Scena vi includeranno certamente parecchie estrapolate da
LWTCDI o dal successivo “Open up and say..aaah!” (1988); e se gli chiederete
una playlist delle migliori "ballatone da glamster", uno dei primi brani che
verrà citato sarà di certo “I wont’ forget you” o “Every rose has its thorn” (quante
volte le ho strimpellate nella mia cameretta con la chitarra scimmiottando il
cantato di Bret!!).
Insomma, non includere i Poison
sarebbe stato un delitto nonchè un segnale d’ignoranza. Loro sono la band dei
parties selvaggi, del sesso espresso in modo volgare, smaccato, grottesco; sono
il gruppo degli spandex e dei capelli
ipercotonati, del trucco eccessivo, delle pose provocatoriamente ammiccanti,
dell’ambiguità androgina, del ribellismo
che non si prende mai troppo sul serio, dei video kitsch con le donnine semi-nude (quello di “Look what the cat
dragged in” è tanto insulso da risultare divertente, avente per protagonista
una playmate in lingerie che sembra appena uscita da una copertina di Play Boy
e che si spoglia sculettando davanti a un’enorme testa di gatto di carta pesta!!).
E sono poi la band dei live infuocati, avvincenti, trascinanti. I quattro
infatti non saranno dei mostri di tecnica e inventiva ma sul palco sanno il
fatto loro, come intrattenere e gasare il pubblico e il riscontro dei kids
americani dell’epoca fu difatti enorme.
Tutto questo insomma è LWTCDI,
una sorta di interminabile party selvaggio a base di sesso e musica rock, che
ci accoglie con il celebre arpeggio di “Cry tough”, opener track che risulterà uno dei brani meglio riusciti del lotto,
e dove DeVille mette in mostra la sua migliore qualità alle sei corde: quella
di mettere al servizio della melodia easy-listening un riffing basato essenzialmente su power chords semplici ma di grande presa.
“I want action” poi è un manifesto programmatico con un chorus tanto banale quanto
esemplificativo dell’atteggiamento dei Nostri (I want action tonight / satisfaction all night…un testo da
decerebrati, lo so…). Già alla terza traccia troviamo una ballatona teens-oriented (passatemi il neologismo), “I won’t forget you” che però, cribbio, è…bella, commovente e funziona a
meraviglia!
I Poison non mancano di sfoggiare
anche il loro lato più hard confezionando “Play dirty”, una canzone ruvida,
trainante, maschia, in cui DeVille si lancia in un assolo mozzafiato. Davvero
un ottimo pezzo, seguito a ruota dalla title track dove si racconta di una
notte di fuoco passata in motel con…più ragazze contemporaneamente (e la
mattina alzarsi per andare a lavoro è mooolto dura!). Un inno alla
trasgressione urlata nel ritornello Oh my
god look what the cat dragged in / livin’
my life, sin after sin (praticamente un altro testo che manco un bambino
dell’asilo…).
L’immancabile eredità dei New York Dolls sull’intero movimento si palesa in modo marcato poi in altre due
riuscitissime canzoni dalle reminiscenze punkettare: “Talk dirty to me” e la
conclusiva “Let me go to the show”, quest’ultima una sorta di divertissement metal-punk che ancora una
volta pone al centro il tòpos glamster
(ehm..scusate, oggi sono in vena di ridicole neo-locuzioni…) della ribellione
ai genitori, con un testo divertentissimo in cui il figliolo-traviato-dal-rock
scappa di casa calandosi da un albero che dà sulla sua cameretta, ruba le
chiavi della macchina della sua mammina per lanciarsi ad un concerto rock (immaginiamo
degli stessi Poison!). E infine menzione speciale per “#1 Bad boy” che presenta
un groove da urlo che non vi potrà
lasciare indifferenti andando a piazzarsi come top-song dell’album.
Un disco quindi che, pur non
essendo un capolavoro e nonostante presenti un paio di passaggi a
vuoto (“Want some need some”; “Blame it on you”), funziona alla grande nei suoi 34 minuti
scarsi, divertendo parecchio. E' proprio divertimento la parola d’ordine della band, ribadita in continuazione e in maniera scanzonata, fino a
codificare di lì a poco questo concetto nel titolo di una dello loro canzoni più
famose, quella “Nothin’ but a good time” che fece da traino due anni più tardi, assieme alla già
menzionata “Every rose has its thorn”, ad “Open up and say…aaah!”; un platter questo che
ebbe un riscontro abnorme e che vendette solo negli USA oltre 5 mln di copie.
Ma personalmente, dopo ripetuti ascolti, gli preferisco decisamente LWTCDI
perché è più spontaneo, fresco, dinamico (d’altronde venne registrato in appena
12 giorni…) e meno laccato e patinato del suo successore, che alla lunga annoia
di più e dimostra anche meno inventiva.
Però, al di là delle leggere differenze, questi due dischi dei Poison sono da intendere sia musicalmente che
concettualmente come una creatura sola perchè esprimono una sorta di
riepilogazione definitiva dei canoni glam così come si erano andati a
esplicitare in tutta la prima metà degli anni ottanta. Un Glam quindi nella sua
forma più “classica”, sicuramente derivativa e semplicistica, ma altrettanto
importante rispetto ai capisaldi elencati nei nostri primi 5 capitoli.
Ed è per questo che andremo a
esaminare nelle restanti 4 parti della nostra Rassegna espressioni di glam che
necessariamente saranno qualcosa di diverso, di più vario, di più collaterale.
Insomma, delle forme espressive che,
se da un lato manterranno determinati punti di contatto con quanto finora visto
ed ascoltato, dall’altro se ne distaccheranno per elementi musicalmente e
artisticamente distintivi, dando vita a (sotto) generi altrettanto importanti.