"Dividi
et impera" consigliava Machiavelli nel suo più celebre trattato. E
così sembra agire l'industria musicale: isolare la parte di pubblico più
debole e attaccarla con tutte le forze, con tutti i mezzi a sua disposizione. E per
mezzi a disposizione intendo: il dispiegamento massivo di personaggi attraenti
dal look studiato nel dettaglio, un "contorno" di gossip che niente ha a che fare
con la musica, l’ideologia del (presunto) "vincente della società materialista" (limousine,
piscine, gioielli ecc.) con immancabili sfondoni sessisti (belle donne a go go),
impiego di ogni sorta di media (TV, radio, rete, riviste scandalistiche, club
ecc.) e, last but not the least, canzoni spudoratamente studiate a
tavolino per piacere ad un particolare target di pubblico definito
ed analizzato tramite accurate ricerche di mercato.
Continua
così la nostra opera di demolizione del pop!
Di
solito si parte dalla scelta del “personaggio” e tutto il resto viene
costruito intorno, musica compresa. Se i risultati non sono quelli sperati, non
ci sono problemi: la scientificità che sta dietro a certi meccanismi
minimizza i rischi, rendendoli tollerabili ed ammortizzabili grazie agli esiti
di molte altre operazioni portate avanti in parallelo.
Difficile,
ad ogni modo, trovare un vero flop nel pop, perché all'inizio,
come in una qualsiasi fase di start-up aziendale, gli investimenti sono
finemente calcolati, come pure le eventuali perdite in caso di insuccesso.
Anche un blando ritorno in termini di vendite è messo in conto, ma ciò non può
mai costituire una reale perdita per l'impresa, la quale è cinica e “senza
cuore”: basti pensare all'album solista, pronto ma mai pubblicato, della ex Spice
Girl Victoria (oggi) Beckham, progetto bloccato sul nascere
perché il singolo apripista (sondaggi alla mano) non aveva portato i risultati
sperati.
Sarà
dunque chiaro a tutti come il meccanismo sia spietato ed abbia poco a che fare
con la musica, ma solo con calcoli di natura economica: tutte accortezze che
fanno sì che non vi saranno mai tracolli disastrosi per colpa di una singola mossa sbagliata. E questo, si diceva, grazie a quell'approccio scientifico e metodico che sta dietro al
tutto e che è finalizzato a confezionare un prodotto che piaccia al grande pubblico
(e non è difficile se si conoscono i gusti delle persone grazie alle indagini
di mercato e poi si ricorre al lavaggio del cervello grazie
all'impiego massivo dei media).
Il
pop, del resto, non cerca oggi star immortali, non si prodiga ad eleggere i successori di Michael Jackson o di Madonna.
L'industria del pop si muove più cinicamente e con obiettivi di breve-medio
termine, come tutte le multinazionali. Nuovi artisti nascono come funghi, e pazienza se dureranno il tempo di
una stagione: il profitto ci sarà comunque stato. E se poi scappa fuori la
nuova big thing, ben venga: a tal punto, trovato il giusto incastro fra
personaggio e gusti del mercato (mi vengono in mente una Lady Gaga o una
Beyoncé - il Dio del Metallo abbia misericordia di me che ho avuto
l'impudenza di sporcare le sacre pagine di questo blog con tali nomi),
si procederà con un percorso forse più raffinato, ma non diverso negli intenti:
fare denaro. Il trucco starà nell’individuare un riuscito mix di gossip,
impegno (sì perché ad un certo punto questi “artisti”, dopo aver cantato
di amore e pompini, si faranno inspiegabilmente paladini di qualche diritto
umano, uno qualsiasi) ed una presunta crescita umana ed autoriale (sì
perché ad un certo punto questi “artisti”, dopo aver cantato di amore e
pompini, diverranno all'improvviso autori maturi, con delle esigenze artistiche
da esprimere ed un vissuto alle spalle drammatico che impone generalmente un percorso
di rinascita - il pop è sempre ottimista: si divorzia, ci si ammala, ci si
droga, ma poi si trova sempre la forza per rialzare la testa...).
Da
un punto di vista musicale, il lavoro dell'autore dei brani (intendendo
con questo termine l'equipe di tecnici specializzati che, dietro alle
quinte, ha il compito di comporre la musica) è relativamente semplice. E
probabilmente sarebbe anche divertente se non ci fosse lo stress che
mette la compagnia se poi il prodotto non vende. Gente probabilmente pagata a
cottimo per delimitare l'ideale melting pot di sonorità da dare in pasto
alle masse. Questi tizi, che spesso sono competenti ed hanno una vasta cultura
musicale, possono spaziare come meglio intendono nel mare vasto dei generi
musicali, anche se poi alla fine si va più o meno a parare nelle zone
rassicuranti dell’hip-hop, dell’R&B, del reggae e della
disco-music anni settanta/ottanta/novanta. Di tanto in tanto si è
ricorsi al rock, ma sono stati tentativi sporadici ed in generale volti a dare
sfumature insolite alla solita melassa incolore.
Questi
elementi vanno poi giustamente dosati e condensati in spazi ristretti che più o
meno vanno dai tre ai quattro minuti, il tutto modellato rigorosamente dentro
al formato canzone (strofa/ritornello). Le basi sono generalmente
elettroniche e il più delle volte ricavate rimodellando e banalizzando metriche
jazz, funky e techno (se nella faccenda sono implicati DJ
di grido), ma senza mai oscurare il flavour melodico del brano.
Le melodie,
spesso elementari e dall'andamento circolare, vengono adagiate sui beat
elettronici e scorrono senza colpo ferire con l'intento di evidenziare il
canto: vocalist anche dotate (parlo al femminile perché per quanto
riguarda questo aspetto le appartenenti al gentil sesso sono più brave degli uomini,
che invece sono soliti “chiacchierare”, provenendo per lo più dal regno
dell'hip-hop) vengono accuratamente istruite. Ed esse eseguono come le foche
di Gardaland: viene loro indicato tutto, il tipo di registro da adottare
(sofferente se il tuo uomo ti ha lasciato, incazzato se quel bastardo ti
tradisce, galvanizzato se è sabato sera e stai per uscire con le amiche ecc.),
come cantare quella determinata strofa (in modo sensuale, sbarazzino, drammatico
ecc.), persino quanto aprire una vocale e che tipo di slang utilizzare (fior di docenti si rendono disponibili per raggiungere la dizione più congeniale).
Negli
ultimi tempi il ritornello si è fatto minimale e sembra evolversi meccanicamente,
come se fosse determinato in base a dei algoritmi: non vi è personalità, sentimento, calore, urgenza (in pratica il "sale dell'arte") lungo questi solchi, ma solo fredde e geometriche linee melodiche tracciate con spirito matematico per intrattenere almeno per un istante. Generalmente il ritornello si compone di
quattro versi che si susseguono con piccole variazioni che si alternano in uno
schema ABAC, dove il quarto verso è il più lungo e ha il compito di chiudere la
quartina prima che essa di ripeta nuovamente. Fra le altre cose vedo
consolidarsi un insopportabile utilizzo del vocoder (sdoganato anni fa dalla
pessima Cher di “Believe”), mente l'intervento del rapper
di turno in mezzo al brano è oramai uno standard a cui non sembra
possibile rinunciare.
È al
livello di arrangiamenti che il pop mostra il suo lato più seducente, in
quanto essi sono spesso molto elaborati e finemente curati. Ma del resto
all'industria discografica non mancano né i compositori, né i musicisti diplomati al conservatorio, né le
orchestre, né i mezzi per poter confezionare in maniera impeccabile anche la
peggiore nefandezza musicale (come in tutte le cose, laddove manca la sostanza,
viene in soccorso la forma).
Il
problema è la qualità delle soluzioni, che all'orecchio allenato
appariranno come i festoni della sagra della banalità:
l'armamentario a disposizione del musicista pop è una serie di passaggi già
sperimentati che vanno a comporre un patetico e prevedibile mosaico in cui
tutto è artificiale e costruito secondo calcoli ben precisi (il break, la
rullata al punto giusto, la ripartenza incalzante ecc.). Fra il “già sentito” e
l'innovazione, il pop scommette inevitabilmente sul primo, perché non ha senso
rischiare se è possibile battere la via più semplice e sicura. Tutta la storia
recente del pop si svolge in "difesa", perché chi "allena"
punta su un sicuro "catenaccio", considerato che ci si rivolge ad un
pubblico poco esigente, che si accontenta di poco e che in ogni caso è
facilmente influenzabile, suggestionabile con trovate anche di poco conto (si sa,
no?, che tira di più un pelo di...). Gli stessi ritornelli sono volutamente dei
deja-vu, con la doppia bassezza di puntare, da un lato, su soluzioni già
collaudate (perché rischiare, si diceva, con qualche armonia anomala?), e
richiamare, dall'altro, hit di successo del passato (al fine di farsi
trainare dall'effetto nostalgia, che rimane sempre una sicurezza).
A
dare sostegno a tutte queste nostre affermazioni riportiamo un esempio
concreto. C'è infatti una canzone che più di tutte sto odiando in questi
giorni: una schifezza che pensavo fosse “frutto” di un qualsiasi insulso
"artista" come ce ne sono tanti (troppi) oggi, inventato a primavera per essere già dimenticato in autunno. Il brano in questione è invece di una band molto famosa e duratura:
i Coldplay.
Nessuno
si scandalizza, perché qui nessuno ha mai creduto nei Coldplay, anche quando,
qualche anno fa, tutti (TV, radio, giornali) volevano indurci a pensare che
essi fossero la nuova rivelazione del rock. A me non sono mai piaciuti, e
nemmeno all'apice del loro successo di critica, con la loro melensa proposta di
rock sentimentale ed orecchiabile a base di U2 e Radiohead, hanno
saputo attirare seriamente la mia attenzione. Tuttavia c'è da dire che fino a
"Viva la Vida or Death and All his Friends" (vabbe', lasciamo
perdere il titolo!) del 2008, seppur già fenomeno commerciale, avevano saputo
mantenere una certa credibilità. Dopo, come un cancro vorace ed inarrestabile,
il successo e la fama hanno ultimato la loro opera corruttrice, trasformando la
band inglese in una mera macchina per soldi al servizio dell'industria
discografica.
Il
brano a cui mi riferivo prima, "Hymn for the Weekend" (che fra
l'altro vede la significativa presenza di una pantera del pop come Beyoncé), ne
è la più vivida e triste dimostrazione: esso incarna tutti i mali che abbiamo
prima elencato (dalle soluzioni stilistiche più banali e scontate di questa
terra, al ritornello insulso che sembra fatto solo per essere memorizzato e
canticchiato a partire dal secondo ascolto, passando per la totale assenza di personalità ed originalità), ma con un aggravante non indifferente:
è fatto da una band rock, o meglio, da una band che nasceva come tale.
La
metamorfosi si è dunque compiuta: il rock è completamente scomparso, non ve ne è più
traccia. Tutto ruota oramai intorno al bel faccino da “ragazzo della porta
accanto” di Chris Martin, il quale pretenderebbe anche di portare avanti
la parte dell'artista impegnato (i Coldplay si sono nel tempo schierati in
difesa di una miriade di diritti umani, aderendo alle iniziative più disparate)
ed al tempo stesso dell'uomo tormentato (dopo il doloroso divorzio con l'ex
moglie Gwyneth Paltrow e il relativo periodo di mestizia, pare che
l'ultimo album, "A Head Full of Dreams" dell’anno scorso, sia
quello che va a rappresentare l'inevitabile risalita dagli "abissi del
dolore" - c'è sempre una luce in fondo al tunnel del pop...). Ma nei fatti
il Nostro non si rivela altro che l'ennesimo fantoccio del music system,
perché non si può essere altro che dei fantocci per prestare la faccia e la
voce ad un obbrobrio musicale di tal fattispecie.
Non
invito i nostri lettori all'ascolto perché non voglio loro del male, ma la
canzone è veramente una delle peggiori che abbia mai ascoltato in vita mia. La
cosa più grave, però, è che gruppi come i Coldplay rappresentano oggi l'arma
più subdola ed insidiosa dell'industria musicale, che, vorace ed insaziabile,
cerca di abbracciare fasce più ampie di mercato. Con il singolone
ripetuto allo sfinimento si agguanta il solito citrullo, che non è di gusti
difficili o grandi pretese: egli vive in un eterno presente, quello in cui il
prodotto è lanciato e promosso; costui non è interessato a chi sia un artista
prima o dopo quel fatidico momento, egli è solamente attirato dal motivetto
orecchiabile, che al massimo viene utilizzato come nuova soneria per il proprio
cellulare.
Sfruttare
però la reputazione, ma anche le qualità, di una band che non nasce come il
risultato di "ragionamenti maturati attorno ad un tavolo", riesce in
qualche maniera ad attirare l'attenzione di un ascoltatore che pretenderebbe
avere gusti più sofisticati, che magari è interessato a ricostruire la storia
di una band ed anche ad affezionarcisi. E poi, con tutto il male che possiamo
volere ai Coldplay, essi non sono una Rihanna e dunque partendo avvantaggiati, sapranno sempre
confezionare un album pop un poco sopra la media, vuoi per la ballata introspettiva,
vuoi per l'incalzante pezzo da lanciare sulle piste da ballo che sanno scrivere anche i bimbi di cinque anni.
Quello
che ci dà amarezza, più di ogni altra cosa, è che tutto ciò esiste. Rinchiusi
nel feudo armato del metallo, siamo ancora a disquisire di quanto si siano
sputtanati i Metallica con “Load” e “Reload”, o quanto sia
ridicola la bella Tarja a fare le cover delle canzoni di Natale,
ma non ci rendiamo veramente conto di quello in cui la musica può trasformarsi
per il vil denaro. Per quanto il metal possa essere tentato da "sirene
commerciali", esso porterà sempre con sé una certa misura di passione
e di preparazione tecnica: aspetti che lo collocano anni luce lontano
dalle nefandezze che l'industria musicale può produrre in materia pop.
L'odio,
del resto, non serve a molto: siamo troppo deboli per sovvertire questo stato
di cose. Ma non siamo deboli innanzi ai quei vermi del music business, che guardiamo fieri e sprezzanti dall'alto in basso (ad essi, al massimo, auguriamo
una partita di cocaina tagliata male, ma tagliata male per davvero!); semmai
siamo deboli perché infinitamente inferiori in numero alla quantità di cerebrolesi
che risiedono su questo mondo e che fanno sì che il pop, nella sua forma più vuota
e mistificatrice, continui ad esistere. Che il cerume che hanno nelle orecchie,
e probabilmente nel cervello, possa penetrare entro le vie respiratorie e
soffocarli nel dolore, mentre nell'aere aleggia l'ultimo singolo dei
Coldplay...