Il
thrash è morto? Ad un primo
sguardo la risposta potrebbe essere affermativa, ma il dubbio che non
sia proprio così ci viene imbattendoci sempre più frequentemente in release che
vengono etichettate come thrash metal.
Un
esempio su tutti potrebbe essere "Alliance of Thieves",
debutto degli australiani Meshiaak, sorta di super-gruppo capitanato da Danny
Tomb (ex frontman della thrash metal band 4Arm) con le
partecipazioni “speciali” di Dean Wells (virtuoso chitarrista dei
progressivi Teramaze) e di Jon Dette (veterano dietro alle pelli,
oggi in forza negli Slayer).
Insomma,
gli ingredienti ci sono tutti per prenderli come campione per testare lo
stato di salute del thrash: non il thrash consunto delle vecchie glorie degli
anni ottanta, che negli ultimi tempi stanno tornando sui propri passi dopo anni
di silenzio o di disonorevole servizio; non il thrash penoso di quelle banducole
che mettono ancora oggi i mostriciattoli in copertina e si rifanno a stilemi
ormai vecchi di trent'anni. Vediamo invece se il thrash, nella sua accezione
più nobile e gloriosa, vive ed è sempre fra di noi.
Mi riconosco
fra quelli che ritengono il thrash una delle più importanti
rivoluzioni del metal. Attraverso questi nuovi stilemi, grazie alla forte
influenza del punk, ci si scollegava ulteriormente dall'hard-rock, per
spostarsi verso un qualcosa che in effetti era davvero nuovo (riffing
innovativo, costruzioni ritmiche del tutto inedite, vocalità efferate che spalancavano le porte su nuove modalità di espressione) e che avrebbe
costituito un ABC su cui costruire nuovi percorsi stilistici.
Poi,
come è ormai noto, l'avvento del grunge ha sconvolto l'intero scenario,
spazzando via una serie di generi storici, fra cui proprio il thrash. Nell'anno
di grazia 1991 possiamo simbolicamente decretare la morte clinica del
thrash. Ciò non vuol dire che dopo non sono stati rilasciati buoni album: "Countdown
to Extinction" dei Megadeth è del 1992, "Grin"
dei Coroner del 1993, giusto per fare due esempi. Del resto anche dopo
il decesso unghie e capelli continuano a crescere. Ma è nel 1991 che esce il Black
Album: un'opera che, piaccia o meno, costituisce culturalmente uno
spartiacque fra un "prima" ed un "dopo".
La
domanda che dunque ci poniamo è: come ha fatto ad entrare in crisi un genere
che è stato capace di coniare un linguaggio completamente nuovo e di
influenzare le frange del metal più disparate? Pensiamo, per esempio, a
come il thrash fu benevolmente adottato dall'industrial metal, con i Ministry
in prima fila: quei Ministri che dall'elettronica degli esordi avevano progressivamente inglobato nel loro sound elementi metal, fino a fare delle chitarre un uso a dir poco slayerano.
A guardare
bene, la crisi del genere ha coinciso con una inspiegabile crisi dei
suoi esponenti più importanti: una sorta di insidiosa epidemia che ha infettato
un po' tutti i grandi gruppi dediti al genere, arrecando ad essi mali con
sintomi diversi, ma egualmente letali.
Che
fine fecero per esempio i Big Four? I Metallica si
abbandonarono ad un percorso degenere che li avrebbe condotti ad obbrobri come
"Load" e "Reload", che con il thrash non
avevano praticante più niente a che fare. I Megadeth fecero una fine
forse peggiore nell’analogo tentativo di macchiare il loro thrash spigoloso con
sonorità alternative e radio-friendly. Gli Anthrax, dal canto
loro, tentarono qualche onesta sperimentazione in direzione rap (si vedano i
brani nati dal sodalizio con i concittadini Public Enemy) per poi virare
verso un grunge à la Alice in Chains con "Sound of White
Noise" (complice l'ingresso in formazione di un cantante come John Bush, lontano anni luce dai
"classicismi" di Belladonna). Solo gli Slayer, dei
quattro, mantennero una coerenza (semmai fecero un passo indietro verso il punk
e l'hardcore da cui erano stati influenzati in gioventù), ma certo non si può
dire che dopo "Season in the Abyss" la produzione dei Nostri
sia stata una sequela di capolavori. Altre eminenze del thrash seguirono più o
meno lo stesso cammino: c'è chi si impantanò in una palude di incertezze (Testament,
Annihilator, Destruction), chi si barricò dietro ad un caparbio
immobilismo (Sodom e tutte le band minori), chi tentò senza successo
altre vie (Kreator) e chi infine si sciolse nel silenzio (Exodus,
Death Angel, Coroner).
Come
abbiamo avuto modo di ricordare nella nostra analisi sui Grip Inc., tuttavia,
non è corretto parlare di morte del thrash: furono solo le sue forme classiche
a pagare il dazio degli sconvolgimenti culturali del periodo, perché in realtà
esso sopravvisse grazie ad un fisiologico ricambio generazionale, passando la
staffetta nelle capaci e nerborute mani di gente come Pantera, Sepultura e Machine Head.
Lavori quali "Vulgar Display of Power" (1992: ecco perché
avevamo individuato nel 1991 la fine di un'era!) e "Chaos A.D."
(1993) divennero i nuovi standard: riff quadrati, ritmiche
pompanti, repentini cambi di tempo, voce urlata al limite del growl e
soprattutto tanta tanta immediatezza: pezzi mediamente brevi, strutture
semplici, ritornelli di facile presa e melodia ridotta ai minimi termini.
Forse
il mondo si era stancato di partiture complicate, di strutture farraginose,
dell'assolo virtuoso, delle suite strumentali e preferiva semmai saltare, pogare,
gridare: lo chiameranno "groove metal" e da lì si arriverà in
un sol balzo al nu-metal, che eliminerà tutti gli orpelli giudicati inutili
(assolo in primis) e che si baserà esclusivamente su impatto fisico e nevrosi
post-adolescenziali (da qui il grande successo fra i più giovani).
Fine
della festa? Non proprio: c'è chi utilizzò il medium del thrash per
continuare a cavalcare un certo tipo di complessità, sebbene questa nuova complessità
fosse di natura diversa da quella degli anni ottanta.
Sempre
come ricordato nel nostro articolo sui Grip Inc., fra gli altri si imposero i Fear
Factory, i quali all'epoca suonavano come la "versione
cibernetica" dei Sepultura. Il linguaggio era il medesimo, ma la grinta e
la rabbia dei fratelli Cavalera venivano geometrizzate, incanalate in pattern
disumani, ove il riff reiterato e costante di Dino Cazares, il
canto versatile di Burton C. Bell e gli sprazzi di elettronica
digitale erano il mix di elementi che valsero il successo degli
americani ("Demanufacture", 1996, è il manifesto di questo
stato di cose). Non solo un exploit estemporaneo, ma una nuova formula
che rimise in piedi il thrash in una armatura futurista ed avveniristica, con
tematiche sci-fi da affrontare ed un sound laccato che sapeva
veramente di novità.
Questo
accadeva dal lato Sepultura, mentre dal lato Pantera, all’interno della loro
vasta progenie (Machine Head in testa), emergevano coloro che del thrash
avrebbero fatto un uso ancora più creativo e rivoluzionario: i Meshuggah.
Se per i Fear Factory ancora si può parlare di “vecchio thrash riverniciato a
nuovo”, nel caso degli svedesi si può parlare di un genere nuovo vero e proprio,
costruito con pazienza certosina attraverso opere seminali come "Destroy
Erase Improve" (1995, un titolo un programma), "Chaosphere"
(1998) e "Nothing" (2002): lo chiameranno djent (se non
ci credete andate a leggervi la nostra classifica sui migliori dieci album
djent). Che poi, il djent, non utilizza altro che la medesima grammatica
del thrash smontata e rimontata con perizia e dedizione progressiva: un sezionamento
isterico ed alienante che diviene da un lato metafora delle nevrosi della
contemporaneità e dall'altro colta ricerca sonora. Chiamatelo come vi pare, ma
la matrice rimane prepotentemente thrash e forse oggi queste sonorità hanno un
altro nome solo perché negli ultimi tempi c'è questa moda di dare nomi nuovi a
tutto (un po' come quando ad un certo punto s'iniziò a parlare di wine
bar).
A
caratterizzare la seconda metà degli anni novanta c'è infine il caso Nevermore,
che si crearono un varco in un periodo in cui stava fiorendo il power metal,
che in un contesto totalmente sconvolto dalle rivoluzioni di inizio decade, fu senz’altro
un fenomeno reazionario. Suonano thrash? Suonano power? La questione è
annosa e ci toglie il sonno: nascevano dalle ceneri dei Sanctuary, che erano
stati scoperti da Dave Mustaine (già questo può darci delle indicazioni
al riguardo) e che suonavano un metal oscuro infestato dalla voce lamentosa di Warrel
Dane. Poi però seppero spostarsi su lidi più estremi (ad un certo punto il loro
chitarrista Pat O’ Brien passerà nelle file dei Cannibal Corpse,
ed anche questo spiega molto…), tanto che per riffing e velocità possono
essere tranquillamente tirati dentro al calderone del thrash. E che
bell'esempio di thrash sarebbero album come "The Policy of Truth"
(1996), "Dreaming Neon Black" (1999) e "Dead Heart in
a Dead World" (2000) con la complessità che si portano dietro. Ma c'è
troppa melodia negli album dei Nevermore, troppe ballate nella loro carriera e
Dane, infine, è un cantante troppo dotato: i suoi acuti priestiani, le
sue sofferte interpretazioni à la Tate allontanano
inesorabilmente i Nevermore dal thrash. Un ibrido che a fatica possiamo
serenamente etichettare con questo appellativo.
Idem
per quanto riguarda gli Iced Earth, che si caratterizzano sicuramente
per le ritmiche rocciose di Shaffer e per il canto rauco di Barlow:
in album come "Burnt Offerings" (1995), "The Dark Saga"
(1996) e "Something Wicked This Way Come" (1999) i Metallica
vengono spesso in mente, ma anche i Judas Priest e gli Iron Maiden,
cosicché, nel mix di influenze, va a finire che prevale la componente
power-classic. Ed è proprio a quell'ambito che essi vengono più di frequente
associati.
Possiamo
dunque concludere che con lo scadere degli anni novanta il thrash sopravviveva
come linguaggio, miscelato ad altri universi sonori. E dopo? Che succederà?