Non
c'è compito più arduo per un musicista che quello di dover dare alla luce il successore
a quel capolavoro che gli ha conferito successo immediato, notorietà,
fama ed un posto garantito nella storia della musica. E' come trovarsi in un
vicolo cieco: se fai qualcosa di diverso probabilmente scontenterai chi si
aspettava un altro capolavoro sulla linea del precedente; se fai un album
fotocopia come minimo ti dicono che ti sei seduto sugli allori. Un album,
figuriamoci una carriera…
Da
questo punto di vista a Kurt Cobain è andata pure bene, visto che si è
tolto il pensiero togliendosi la vita. Se con "Nevermind"
(1991) "cambiò il mondo", con "In Utero" (1993)
riuscì a fare l'album che voleva, nonostante il fiato sul collo di pubblico,
critica e casa discografica, nonostante si trovasse allora sul tetto del mondo,
innalzato ad idolo generazionale, con tutte le pressioni che ne conseguono.
Non
è un segreto che Cobain avesse in parte ripudiato quel "Nevermind"
che lo rese un Mito, in quanto visto come un prodotto troppo commerciale
e che per giunta non lo rispecchiava completamente come artista. Eppure non si
potrà negare che l'album sia particolarmente riuscito, inanellando una serie di
classici (almeno la metà dei brani posti in scaletta) che rimarranno scolpiti
negli annali del rock: melodie azzeccate, riff e ritornelli memorabili,
una interpretazione perfettamente bilanciata fra nevrosi e comunicabilità.
Cobain dica quello che gli pare, ma "Nevermind" rimane il suo
capolavoro, perché un'ispirazione così non la si troverà altrove nella sua
scarna discografia.
"In
Utero", tuttavia, ha i suoi innegabili pregi, in quanto lavoro coraggioso
e decisamente riuscito anch'esso: sotto l'ala protettiva del grande Steve
Albini, Cobain si riappropriò delle sue radici indie ed underground,
sfornando brani dai ritornelli trascurabili e dalle forti distorsioni e
dissonanze, flirtando con il noise rock, ma soprattutto dando libero sfogo alle
proprie paranoie. Secondo la critica, questa era il capolavoro autoriale
di Cobain, ma per molti fan fu una vera delusione. E per un certo verso
lo fu per davvero, visto che non ci trovammo canzoni all'altezza di "Smells
like Teen Spirit", "Come as You Are" o "Lithium".
Questo
era solo un esempio di come grandi lavori possano essere oscurati da quelle
opere emblematiche che brillarono di un successo clamoroso di pubblico e
critica. Guardando al metal, mi vengono in mente due band che hanno vissuto una
situazione simile, senza, fortunatamente, vivere il medesimo tragico epilogo
che ha riguardato Cobain, distrutto dal dilemma di dover essere o apparire.
Queste band sono Pantera e Dream Theater, che abbiamo indicato,
per motivi diversi e per certi aspetti opposti, fra le più importanti ed
influenti degli anni novanta, e che non a caso abbiamo inserito rispettivamente
fra coloro che sconvolsero il metal (i Pantera) e coloro che, in un
era di sconvolgimenti, tentarono un approccio più costruttivo (i Dream
Theater). Entrambe le partite si sono giocate in contemporanea, primo tempo nel
1992 e ripresa nel 1994.
Capitolo
Pantera: stiamo parlando di "Vulgar Display of Power" e
"Far Beyond Driven". Chi ha vissuto quell'epoca si può
benissimo ricordare come l'uscita di "Far Beyond Driven" fosse
preceduta da aspettative altissime. Il fatto è che con quel nuovo album gli
elementi di successo di "Vulgar Display of Power" vennero in parte
messi da parte, trasfigurati in un medium più complesso e violento che faceva
di "Far Beyond Driven" un prodotto assai più difficilmente digeribile
del suo predecessore, che invece si era imposto per immediatezza e, se
vogliamo, orecchiabilità. Onore ai quattro Cowboys from hell che, invece
di ammorbidirsi e cedere alle logiche del mercato, decisero di rincarare la
dose, flirtare persino con il death metal, con lo sludge, tralasciare le
melodie e farsi portatori di un sound sporco, compresso e privo di
compromessi.
Il Mito
dei Pantera era già così potente che le recensioni ne incensavano ancora le
gesta: si apprezzava il coraggio, la violenza, l'intransigenza, ma nel cuore
continuava ad albergare "Vulgar Display of Power", che aveva una
verve, una freschezza, una carica innovativa che lo avrebbe reso, già nel
corso degli anni novanta, uno degli album più seminali dell'intera storia del
metal. Il fatto è che nel nuovo lavoro i brani erano meno anthemici, i
ritornelli meno memorabili, i riff meno incisivi e persino il groove
(la vera "invenzione" dei Pantera) cedeva spazio alla velocità o, di
contro, a fangosi rallentamenti.
In
conclusione piaceva l'attitudine, ma brani come "I'm Broken" e
"5 Minutes Alone" non potevano rivaleggiare con le vecchie
"Mouth of War", "Walk", "Fucking
Hostile" o "This Love". In "Far Beyond
Driven" non c'era nemmeno l'"immancabile ballata" dei Pantera
(una bella tradizione inaugurata con "Cemetary Gates" in
"Cowboys from Hell"), sebbene la cover di "Planet
Caravan" dei Black Sabbath, fra quieta psichedelia e polvere
sudista, al termine di questo putiferio ci stesse come il cacio sui maccheroni.
Insomma,
a denti stretti e senza proclamarlo ad alta voce, si rimase un po' delusi da
"Far Beyond Driven", che nei fatti era il miglior album possibile che
i Pantera potessero allora sfornare. E che da un punto di vista concettuale era
persino superiore e più maturo del più spontaneo ed impulsivo "Vulgar Display
of Power". Questa è la dimostrazione che il Mito, una convinzione
radicata nella sfera più profonda del cuore dei fan, è un qualcosa di
veramente difficile da abbattere.
Stesso
destino toccò ai Dream Theater con "Awake", sebbene il
terzo full-lenght licenziato dagli americani non si possa definire
proprio una delusione. Eppure i commenti al vetriolo di certi fanatici
dell'epoca li ricordo. E se tu in buona fede pensavi che questi detrattori
fossero dei retrivi dalle orecchie di velluto e che il loro disappunto
originasse dal groove modernista e dal riff pesantissimo di
"The Mirror" (già, a proposito, nel frattempo il mondo si era panterizzato...),
loro ti dicevano che no, che non era quel pezzo il problema, ma il fatto è che
si era perso qualcosa rispetto ad "Images and Words", qualcosa
che un comune mortale non può capire, tipo la plettrata in contropelo di
Petrucci, che difettava in classe e personalità. I Dream Theater si
erano appiattiti e il fatto che Moore avesse abbandonato la formazione
prima ancora dell'uscita dell'album rinforzava i sospetti e rinvigoriva le tesi
di costoro.
Che
dire a mente fredda: "Awake" è un album formalmente impeccabile,
pieno di novità, ma senza quell'armonia, quell'ispirazione, quella luce
interiore che animava le composizioni di "Images and Words", come
se i Dream Theater avessero già principiato ad avviarsi verso un modo di
suonare più ragionato, se non addirittura manieristico, consapevoli di essere i
garanti di una formula inedita (e gradita!) nel metal a base di prog e
virtuosismo esasperato. E non è un caso che l'album, pur caratterizzato da una
media qualitativa altissima, non consegni ai posteri brani memorabili (perché
"Lie" e "Scarred", per quanto immancabilmente
riproposte dal vivo ancora oggi, non lo sono, per lo meno in confronto a
gioielli come "Pull Me Under", "Take the Time",
“Metropolis - part 1" o "Learning to Live").
Ma
dal punto di vista delle intenzioni, come i Pantera, i Dream Theater non
sbagliarono nulla: modernizzarono il loro sound (operando una drastica
riduzione dei momenti più mielosi e degli "episodi pop" che a molti
non andavano giù), amplificarono i loro punti di forza, aggiunsero complessità,
collegarono brani diversi con temi ricorrenti, intrisero il tutto di una patina
di inedita inquietudine e sofferto intimismo, incupirono l'atmosfera generale
e, per andare sul sicuro, allungarono il brodo e buttarono in copertina tante
allegorie che non si trovavano in un dipinto del Seicento.
Come
nel caso dei Pantera, tuttavia, Petrucci e compagni dovettero affrontare loro
stessi, il fantasma di un album inarrivabile che non solo aveva goduto
di una ispirazione irripetibile, ma che aveva delineato nuovi standard
nel concepire e suonare il metal.
Innanzi
ad una sfida di tale portata, a mio parere entrambi vinsero, sebbene il
mio cuore mi porti a preferire i due capolavori del 1992. Ma come si sa il
cuore spesso non è il miglior critico musicale. Oppure lo è e sa vedere dove
l'intelletto non arriva perché distratto da futili ragioni. "Far Beyond Driven"
ed "Awake", considerato anche lo svantaggio iniziale (prima le due
band avevano poco da perdere e tutto da guadagnare; dopo l'esatto contrario),
sono persino superiori ai loro predecessori, per ricerca e capacità di trovare
un "post" credibile ad una carriera sì lanciata ma anche ferma ad un
bivio. "Vulgar Display of Power" ed "Images and Words"
erano invece animati dal sacro fuoco dell'ispirazione che quando trova il
giusto contenitore dà origine a prodigi.
Giudicare
quale sia il migliore non è facile, perché bisogna valutarli in un ostico
terreno dove si consuma la sempiterna lotta fra ragione e sentimento: e
voi da che parte state?