"Parlare di Musica è come ballare di architettura" Frank Zappa

27 apr 2017

12 MESI DI METAL - "APRIL ETHEREAL" (OPETH)



Ma dove sono andate quelle piogge d’Aprile / io qui le aspetto come uno schiaffo improvviso / come un gesto, un urlo, un umore sottile / fino ad esserne intriso…

Se associo la musica al mese di aprile, le prime parole, con relative note, che mi vengono in mente sono queste, tratte da “Le piogge di Aprile”, canzone minore di uno dei (tanti) capolavori di Francesco Guccini (“Madame Bovary”-  1987).

Ma subito dopo, in seconda battuta, c’è lei, “April ethereal” degli Opeth.

Parliamo di un brano importante, l’opening track (se si esclude il prologo di un minuto) di un disco, "My arms, your hearse" che, ho la sensazione, sia considerato poco all’interno della vasta discografia dei campioni svedesi. Così come avevamo visto il mese scorso per “Killers” degli Iron, anche qua siamo davanti a un platter posizionato in modo assai scomodo. E cioè stretto nella morsa di “Morningrise” (1996) e “Still life” (1999). Difficile emergere e poi essere ricordato negli anni, no?, avendo termini di paragone, prima e dopo, dischi di tale livello (cioè di un livello “oltre” la normale valutazione che si riserva ai comuni dischi).

Tempo fa, il nostro Mementomori giustamente scriveva: in un percorso ideale, uno inizialmente tira su una band, prova in cantina e si allena suonando cover di band famose; poi esce il primo album, che però è ancora acerbo; successivamente esce il secondo che migliora certi aspetti e a volte è un capolavoro. E poi che si fa?

Ecco, applichiamo agli Opeth questo discorso, con la specifica che il primo disco, “Orchid” era già un quasi-capolavoro, e il secondo lo ero tutto intero. Una situazione assimilabile anche ai primi due album degli altri fuoriclasse che giravano in Svezia in quegli anni: In Flames (“Lunar Strain” – “The Jester race”) e Dark Tranquillity (“Skydancer” – “The Gallery”).
Dicevamo: e poi che si fa?
Se non ti chiami “Opeth”, “In Flames” o “Dark Tranquillity” hai tendenzialmente due vie: o cambi genere (ma nella maggior parte dei casi si rischia il flop artistico) oppure ti limiti a perfezionare con qualche ritocco la formula vincente (se non addirittura creare un disco fotocopia del precedente).
Se invece ti chiami come i signori di cui sopra, rispondi al e poi che si fa? in maniera "semplice semplice"…come terzo album componi un altro capolavoro! Lo fecero coi “terzi album” sia gli In Flames (“Whoracle”) che i D.T. (“The mind’s I”). E, ça va sans dire, gli Opeth.

Dopo la pubblicazione di “Morningrise”, per gli svedesi le premesse per affrontare il nuovo lavoro in studio non furono delle migliori: persero infatti in una botta sola il virtuoso bassista Johan DeFarfalla e il batterista Anders Nordin. Ma, come si suol dire, non tutti i mali vengono per nuocere, e se al basso si cimenterà lo stesso Akerfeldt, alla batteria venne inserito quell’assoluto fenomeno che accompagnerà la band per tanti anni a venire, cioè Martin Lopez. Andando, con questo innesto, a guadagnarci decisamente rispetto al passato. Ma il punto rimaneva lo stesso: come evolvere senza sputtanarsi? La risposta fu appunto “My arms, your hearse”.

E’ inutile…lo si coglie subito dalle prime note quando siamo di fronte a dischi della madonna. Lo avverti immediatamente. E i 59” di “Prologue”, con il suo rumore di pioggia e poi le note di pianoforte sospese nell’aria ad introdurre il riff spaccaossa di “April ethereal” non mentono: avverti già che siamo di fronte a un gran disco.

Il riff iniziale, si diceva: opethiano che più opethiano non si può, caldo&gelido, tagliente&avvolgente al contempo, sul quale dopo pochi secondi, il growl profondo di Akerfeldt, riconoscibile tra mille, parte declamando le prime strofe di quella che si presenterà come una sorta di storia d’amore oscura, tragica, onirica, dai contorni non definiti.

Ma rimaniamo sulla musica: primo cambio di ritmo, si va su una sorta di bridge più compassato prima di tornare a quello iniziale, sempre con la furiosa doppia cassa di Lopez e tutti gli strumenti a creare un wall of sound dall’impatto travolgente.
Ero io / che spuntavo attraverso lo specchio / oltre l’abbraccio di Cristo / come il volto segreto all’interno dell’arazzo / come l’uccello rapace oltre la vetta / lei fu falciata dal dolore …da brividi.

Alla fine della seconda strofa, altro cambio: arpeggio suadente che introduce una parte death/doom cadenzata, growling di Mikael che sembra scaturire dagli inferi (“She face me in awe!!!”) alla fine del quale si aprirà una sezione caratterizzata dalle due asce che si intrecciano e il drummin' di Lopez ancora a supportare il tutto con energia ed estro (ma quanto cazzo è bravo Martin??!!).

Non c’è pausa: finita una sezione si riparte in modo sostenuto e il singer continua a confonderci con parole criptiche ma di grande effetto poetico (Lei sta di fronte a me con timore / un simbolo di color ebano / Incarnata in un debole vapore / Vagando attraverso il fuoco di Aprile). Come detto versi (in cui peraltro compare per l’unica volta la parola “aprile”) ermetici, più funzionali a rendere delle sensazioni che a spiegare o a descrivere un racconto.

E poi: voce in clean e parte ariosa e melodica, squarciata ancora dal growl prima di un assolo di stampo classico. Siamo al minuto 4’ e 40” e già sono state gettate nella mischia un quantitativo di idee con le quali una band di medio livello (se arriva ad avercele tutte queste idee) ci fa almeno tre full lenght

Gran quantitativo di idee che continua nella seconda metà del brano, tra leggiadre melodie e squarci violenti: il gioco di chiaro-scuri, vero trademark della band sin dal primo album, che non stanca mai andando a formare un progressive-death che, nonostante la varietà e sinuosità continue, non soffre minimamente di dispersione, risultando compatto, coinvolgente dalla prima all’ultima nota e, soprattutto, fottutamente metal. Un metal ricco, pieno di idee, complesso ma non snob.

Infine, al minuto 6 e 45”, gli ultimi versi struggenti del racconto: 
La poggia mi stava salutando, e quando la notte arrivò / la foresta chiuse i suoi rami su di me / qualcosa passò di lì e io finii in un sogno / lei, ridendo e piangendo allo stesso tempo, (mi disse) portami via / Non so come o perché, e mai saprò QUANDO!

La canzone va in fading con un arpeggio prima di lasciare spazio al secondo masterpiece dell’abum, la sensazionale “When” (e anche questa ricchissima canzone meriterebbe trattazione a sé).

Sono uno scarsissimo esegeta quindi non saprei dirvi cosa c’entri tutto questo ambaradan con il mese di Aprile. Ma la cosa del resto non ci interessa. Ci interessa il fatto che Akerfeldt, con “April ethereal” (così come con tutto “My arms, your hearse”) ci ha donato ancora della grande Musica…

A cura di Morningrise