Ma dove sono andate quelle piogge
d’Aprile / io qui le aspetto come uno schiaffo improvviso / come un gesto, un
urlo, un umore sottile / fino ad esserne intriso…
Se associo la musica al mese di
aprile, le prime parole, con relative note, che mi vengono in mente sono
queste, tratte da “Le piogge di Aprile”, canzone minore di uno dei (tanti)
capolavori di Francesco Guccini (“Madame Bovary”- 1987).
Ma subito dopo, in seconda
battuta, c’è lei, “April ethereal”
degli Opeth.
Parliamo di un brano importante,
l’opening track (se si esclude il prologo di un minuto) di un disco, "My arms, your hearse" che, ho la
sensazione, sia considerato poco all’interno della vasta discografia dei
campioni svedesi. Così come avevamo visto il mese scorso per “Killers” degli
Iron, anche qua siamo davanti a un platter posizionato in modo assai scomodo. E
cioè stretto nella morsa di “Morningrise”
(1996) e “Still life” (1999).
Difficile emergere e poi essere ricordato negli anni, no?, avendo termini di
paragone, prima e dopo, dischi di tale livello (cioè di un livello “oltre” la
normale valutazione che si riserva ai comuni dischi).
Tempo fa, il nostro Mementomori
giustamente scriveva: in un percorso ideale, uno inizialmente tira su una band,
prova in cantina e si allena suonando cover di band famose; poi esce il primo
album, che però è ancora acerbo; successivamente esce il secondo che migliora
certi aspetti e a volte è un capolavoro. E poi che si fa?
Ecco, applichiamo agli Opeth questo discorso, con la specifica che il primo disco, “Orchid” era
già un quasi-capolavoro, e il secondo lo ero tutto intero. Una situazione assimilabile
anche ai primi due album degli altri fuoriclasse che giravano in Svezia in
quegli anni: In Flames (“Lunar Strain” – “The Jester race”) e Dark Tranquillity
(“Skydancer” – “The Gallery”).
Dicevamo: e poi che si fa?
Se non ti chiami “Opeth”, “In
Flames” o “Dark Tranquillity” hai tendenzialmente due vie: o cambi genere (ma nella maggior
parte dei casi si rischia il flop artistico) oppure ti limiti a perfezionare
con qualche ritocco la formula vincente (se non addirittura creare un
disco fotocopia del precedente).
Se invece ti
chiami come i signori di cui sopra, rispondi al e poi che si fa? in maniera "semplice semplice"…come terzo album componi un altro capolavoro! Lo fecero coi “terzi album” sia
gli In Flames (“Whoracle”) che i D.T. (“The mind’s I”). E, ça va sans dire, gli Opeth.
Dopo la pubblicazione di
“Morningrise”, per gli svedesi le premesse per affrontare il nuovo
lavoro in studio non furono delle migliori: persero infatti in una botta sola
il virtuoso bassista Johan DeFarfalla e il batterista Anders Nordin. Ma, come
si suol dire, non tutti i mali vengono per nuocere, e se al basso si cimenterà
lo stesso Akerfeldt, alla batteria venne inserito quell’assoluto fenomeno che
accompagnerà la band per tanti anni a venire, cioè Martin Lopez. Andando, con questo innesto, a guadagnarci
decisamente rispetto al passato. Ma il punto rimaneva lo stesso:
come evolvere senza sputtanarsi? La risposta fu appunto “My arms, your hearse”.
E’ inutile…lo si coglie subito
dalle prime note quando siamo di fronte a dischi della madonna. Lo avverti
immediatamente. E i 59” di “Prologue”, con il suo rumore di pioggia e poi le
note di pianoforte sospese nell’aria ad introdurre il riff spaccaossa di “April
ethereal” non mentono: avverti già che siamo di fronte a un gran disco.
Il riff iniziale, si diceva:
opethiano che più opethiano non si può, caldo&gelido, tagliente&avvolgente
al contempo, sul quale dopo pochi secondi, il growl profondo di Akerfeldt, riconoscibile
tra mille, parte declamando le prime strofe di quella che si presenterà come
una sorta di storia d’amore oscura, tragica, onirica, dai contorni non definiti.
Ma rimaniamo sulla musica: primo
cambio di ritmo, si va su una sorta di bridge più compassato prima di
tornare a quello iniziale, sempre con la furiosa doppia cassa di Lopez e
tutti gli strumenti a creare un wall of sound dall’impatto travolgente.
Ero io / che spuntavo attraverso
lo specchio / oltre l’abbraccio di Cristo / come il volto segreto all’interno
dell’arazzo / come l’uccello rapace oltre la vetta / lei fu falciata dal dolore
…da brividi.
Alla fine della seconda strofa,
altro cambio: arpeggio suadente che introduce una parte death/doom cadenzata,
growling di Mikael che sembra scaturire dagli inferi (“She face me in awe!!!”)
alla fine del quale si aprirà una sezione caratterizzata dalle due asce che si
intrecciano e il drummin' di Lopez ancora a supportare il tutto con energia ed
estro (ma quanto cazzo è bravo Martin??!!).
Non c’è pausa: finita una sezione
si riparte in modo sostenuto e il singer continua a confonderci con parole criptiche
ma di grande effetto poetico (Lei sta di fronte a me con timore / un simbolo di
color ebano / Incarnata in un debole vapore / Vagando attraverso il fuoco di
Aprile). Come detto versi (in cui peraltro
compare per l’unica volta la parola “aprile”) ermetici, più funzionali a rendere delle sensazioni che a spiegare o a
descrivere un racconto.
E poi: voce in clean e parte
ariosa e melodica, squarciata ancora dal growl prima di un assolo di stampo
classico. Siamo al minuto 4’ e 40” e già sono state gettate nella mischia un
quantitativo di idee con le quali una band di medio livello (se arriva ad avercele tutte queste idee) ci fa almeno tre
full lenght…
Gran quantitativo di idee che continua nella
seconda metà del brano, tra leggiadre melodie e squarci violenti: il gioco di
chiaro-scuri, vero trademark della band sin dal primo album, che non stanca mai
andando a formare un progressive-death che, nonostante la varietà e sinuosità
continue, non soffre minimamente di dispersione, risultando compatto,
coinvolgente dalla prima all’ultima nota e, soprattutto, fottutamente metal. Un
metal ricco, pieno di idee, complesso ma non snob.
Infine, al minuto 6 e 45”, gli ultimi
versi struggenti del racconto:
La poggia mi stava salutando, e quando la notte
arrivò / la foresta chiuse i suoi rami su di me / qualcosa passò di lì e io finii
in un sogno / lei, ridendo e piangendo allo
stesso tempo, (mi disse) portami via / Non so come o perché, e mai saprò
QUANDO!
La canzone va in fading con un
arpeggio prima di lasciare spazio al secondo masterpiece dell’abum, la
sensazionale “When” (e anche questa ricchissima canzone meriterebbe trattazione
a sé).
Sono uno scarsissimo esegeta
quindi non saprei dirvi cosa c’entri tutto questo ambaradan con il mese di Aprile.
Ma la cosa del resto non ci interessa. Ci interessa il fatto che Akerfeldt, con
“April ethereal” (così come con tutto “My arms, your hearse”) ci ha donato
ancora della grande Musica…
A cura di Morningrise