Premetto che la mia indignazione nasce dall’ascolto di “Eonian”, ultima fatica discografica dei Dimmu Borgir. Criticare i Dimmu Borgir oggi è come sparare sulla croce rossa, ma io non lo farò. Primo, perché i Dimmu non mi sono mai piaciuti, quindi non gioca per me l’effetto delusione. Secondo, perché a tratti questo “Eonian” l’ho persino apprezzato: nelle parti in cui emerge la Norvegia, laddove rispuntano fuori le chitarre ronzanti, quando ripartono mid-tempo azzeccati, in occasione di qualche guizzo black’n’roll che mi ha ricordato gli ultimi Satyricon (ed è tutto dire…).
Pagliacciate a parte, a farmi
innervosire più di ogni altra cosa sono stati i contributi dell’orchestra e del coro: soluzioni, armonicamente parlando, di una banalità
sconcertante, che annacquano, anzi affogano, le poche idee buone dei norvegesi.
Siamo onesti: il problema nell’ultimo album dei Dimmu Borgir non è certo l’orchestra
in sé, ma la scarsa ispirazione della band (o quello che rimane di essa). Tuttavia per me questa è stata l’occasione per realizzare una volta per tutte che la formula
metal + orchestra, vincente sulla carta, nei fatti si rivela il più
delle volte fallimentare.
Voglio escludere da questa
dissertazione quelle realtà che, fin dal principio, sono animate dalla
vocazione di integrare metal e musica classica. E’ il caso della ottima Trans-Siberian Orchestra, progetto
scaturito dalle menti di Paul O’Neill e Jon Oliva proprio per dare sfogo alle pulsioni
sinfoniche che non potevano essere espresse in seno ai Savatage: fra barocchismi assortiti, rivisitazioni di canzoni di
Natale e del repertorio di Beethoven, la Nostra, più che un’orchestra vera è
propria, è un ensemble di musicisti
di svariata provenienza che intende gettare un ponte fra i due mondi avvalendosi di componenti
mutuate sia dalla musica classica che dagli universi del rock e del metal (se non del musical...). Un altro caso a parte è la simpatica operazione "Vivaldi: The Meeting" (del 1990), patrocinata dal direttore d'orchestra Lorenzo Arruga, accompagnato per l'occasione niente meno che da sua maestà Dave Lombardo: non altro che un album di musica classica tout court (per questo indicato più ai cultori del genere che al metallaro medio) con l'ex batterista degli Slayer a folleggiare dietro a pelli e piatti. Un ulteriore fenomeno che non vorremo trattare è quello degli Apocalyptica,
che non sono proprio un’orchestra, ma un quartetto di archi nato più o meno con
le ambizioni di una cover band e che
solo successivamente ha vissuto uno sviluppo in direzione symphonic metal. Che gli esiti piacciano o
meno, si parla di musicisti con un background classico che si sono prestati
alla causa del metal. Noi invece vogliamo percorrere la corsia opposta: andare
a vedere come se la son cavata i bufali
del metal fra timpani, viole, violini, violoncelli e flauti traversi…
L’album con l’orchestra (che sia registrato in studio o dal vivo) è
da sempre nel rock una ambizione che, sotto sotto, nutre ogni artista. Potersi
avvalere del contributo dell’orchestra è sia un obiettivo artistico che un traguardo importante nella propria carriera, visto che disporre del budget per permetterselo è la prova incontrovertibile di una conclamata affermazione nel mercato discografico.
Sul fronte dei live
i risultati sono stati per lo più deludenti, sia come proposta di materiale inedito
che come celebrazione in pompa magna di un repertorio pre-esistente.
Partiamo dalla preistoria, anno
1969: “Concerto for Group and Orchestra”.
Sul palco c’erano i Deep Purple (ragazzi che dal vivo in quegli anni non
scherzavano) e la Royal Philarmonic
Orchestra (una delle più prestigiose in terra d’Albione). Gli arrangiamenti
furono curati da Jon Lord, uno che indubbiamente
conosceva il proprio mestiere. Dunque un capolavoro
assoluto? Macché, esso rimarrà un episodio minore (e per lo più trascurato)
nella sfavillante discografia dei Purple. Questo perché, nonostante il talento dei musicisti,
la loro professionalità e i mezzi a disposizione, non si riuscì a superare le
difficoltà oggettive che si presentono nell’integrare due forme di musica così
diverse (difficoltà oggettive perché, per esempio, i tempi espressivi degli archi mal si
sposano con il linguaggio della chitarra elettrica o con le ritmiche di un brano
rock).
Diversi anni dopo ci avrebbe
provato anche un certo signore di nome Yngwie Malmsteen,
uno che di musica classica se ne intende. Correva l’anno 1998 e lo svedese,
spalleggiato dall’Orchestra Filarmonica
di Praga, rilasciava il live-album
“Concerto Suite for Electric Guitar and
Orchestra in E Flat Minor, Opus 1”, ma anche in questo caso il risultato
non fu esaltante: i virtuosismi del chitarrista tolti dal formato canzone perdevano
irrimediabilmente mordente ed incisività. Quelle stesse scale barocche che avevano illuminato il canzoniere metal di Yngwie, disperse fra le
partiture classiche di una orchestra, divenivano uno sfoggio di tecnica che non
poteva in nessuna maniera competere con la genialità dei compositori classici, nemmeno quelli
più sfarzosi. Il risultato fu un lavoro nella sostanza noioso che metteva in luce più i
difetti che i pregi del chitarrista svedese.
Ma
se hanno fallito gli immensi Deep Purple e persino un musicista dal forte
background classico come Malmsteen, come avrebbero potuto cavarsela altri con
minore preparazione?
Nel 1999 ci provarono anche i Metallica, che in quel periodo godevano
della massima popolarità grazie alle nefandezze di “Load” e “Reload”.
Proprio quando pareva che i Four Horsemen
non sapessero più cosa inventarsi, ecco che dal cilindro spuntò fuori “S&M”, album dal vivo registrato con
la San Francisco Symphony Orchestra,
sotto la direzione niente meno che di Michael
Kamen (mago delle colonne sonore, nonché compositore in vista nel music business con una lista di collaborazioni da paura
sul curriculum). Quindi? Quindi
niente: nemmeno in questo caso i risultati furono esaltanti, con l’orchestra in
affanno ad inseguire il dinamismo (squisitamente metal) dei classici dei
Metallica. Ovvio, il gioco può giusto funzionare con una “Nothing Else Matters” (per la quale,
fra l’altro, lo stesso Kamen aveva curato gli arrangiamenti su disco), ma con
brani come “Master of Puppets” la
sovrapposizione dell’orchestra diviene quasi urticante.
Approdiamo, in modo ben poco
scientifico, al nuovo millennio (anno 2015 per l’esattezza) con “Live at Opera (with Norwegian National
Opera Chorus)” dei Satyricon.
Qui non c’è l’orchestra, ma un coro di una trentina di elementi chiamato ad
infarcire il repertorio della premiata ditta Satyr/Frost. In questo caso l’esito non dispiace, ma è anche vero
che gli interventi del coro fungono solo da contorno, andando a sottolineare solo
determinati passaggi, né più né meno come avrebbero fatto delle tastiere (e
nemmeno utilizzate in modo invasivo) o delle basi campionate. Viene inoltre da
sorridere a vedere tutti questi tenori, baritoni, soprani e mezzi soprani
costretti ad eseguire trame melodiche di una semplicità disarmante. C’è da
piangere, invece, ad immaginarsi certi compositori che, ingaggiati dalle case discografiche, scrivono in mezzo pomeriggio, o al cesso mentre defecano,
partiture da quattro soldi per delle band che sicuramente in cuor loro disprezzano.
Visto che di composizione si
parla, passiamo allo studio di registrazione. Non voglio stare a raccontarvi la
storia del symphonic metal, storia
che più o meno conoscerete, visto che il genere oggi è più in voga che mai grazie a nomi come Nightwish ed Epica. Ma per capire come sia nel tempo
degenerata la situazione è necessario rammentare che questo filone prese avvio
grazie a certe geniali sperimentazioni dei Celtic
Frost nel corso degli anni ottanta. “To
Mega Therion” (1985) vedeva la presenza della cantante operistica Claudia-Maria Mokri e di Wolf Bender al corno francese: prime
timide ma importanti iniezioni di “musica classica” nel caos furibondo del
proto-black ideato da Fisher e compagni, tutt’altro che pervaso da virtuosismi
di ogni tipo. Due anni dopo, in “Into the
Pandemonium” gli elvetici rincararono la dose con un’orchestra vera e
propria che, ancora impiegata con senso della misura, andava per davvero ad
apportare un valore aggiunto all'opera, concentrandosi in modo efficace solo in certi
brani e dunque conferendo ulteriore fascino ad un sound che sapeva essere già di per sé atmosferico.
Queste intuizioni sarebbero
state riprese e sviluppate dai Therion
che, con album come “Theli” (1996) e
“Vovin” (1998) avrebbero elevato
l’utilizzo di orchestra e cori a cifra stilistica, tanto che il leader Christofer Johnsson decise di cedere il microfono in modo
definitivo ad una schiera nutrita di coristi. La formula, rivoluzionaria
all’inizio, avrebbe presto mostrato la corda per via della monotonia apportata
da linee melodiche ed arrangiamenti assai semplici e spesso molto simili fra
loro. Un artista metal, del resto, per quanto di ampie vedute e supportato da professionisti del settore,
manterrà sempre una visione limitata, o meglio, una sensibilità lontana da
quella della musica classica. La musica classica ha infatti le sue dinamiche e
soffre in modo vistoso se viene costretta a muoversi nei pattern di chi ragiona in termini di riff, melodie ricorsive e ritornelli anthemici.
Questo sarà il problema di
molte altre realtà degli ambienti gothic, laddove l’apporto dell’orchestra sarà
nei fatti pressoché ininfluente, e persino deleterio se non supportato da un
valido songwriting. Esempi a caso.
Gli Haggard si imposero
nell’immaginario collettivo con una formazione che è arrivata a contare fino ad
una ventina di elementi: evidentemente questo è stato solo un modo per
distinguersi dai molti competitor,
visto che nella loro musica (scritta dal leader Asis Nassericon che ha sempre pensato ed agito da metallaro) le parti
orchestrali avrebbero potuto benissimo essere gestite con delle tastiere. I Cradle of Filth, dopo aver corteggiato a
distanza la musica classica per diversi album, con “Damnation and the Day” decisero di rompere gli indugi ricorrendo ai
servigi della Budapest Film Orchestra
and Choir: investimento che, nella sostanza, di poco alzò il tasso di
“sinfonismo” già garantito, fin dagli esordi, dall’operato degli svariati
tastieristi che via via si sono avvicendati nell’organico. Anni dopo (per
l’esattezza nel 2012) i Vampiri d’Albione
ci avrebbero riprovato con il “best of”
“Midnight in the Labyrinth” (un
obbrobrio sconclusionato di orchestrazioni e rantoli assortiti), pressoché la
stessa impresa che un anno prima avevano tentato i My Dying Bride con “Evinta”
(collage orchestrale/operistico di
temi “celebri” della Sposa Morente) e
gli Anathema con “Falling Deeper” (rivisitazione
acustico/orchestrale del repertorio degli esordi): in tutti e tre i casi (un
pelino meglio andò ai fratelli Cavanagh,
con il vantaggio che da anni si erano allontanati dal metal) anche i fan più accaniti dovettero prendere atto
che quei brani che in versione metal funzionavano così bene, ri-arrangiati con
la sola orchestra divenivano d’incanto soporiferi e fondamentalmente
inconsistenti. L’orchestra, ahimè, ha avuto in determinate circostanze un
effetto persino controproducente, finendo per rovinare gruppi molto validi, come
per esempio è accaduto con i Lacrimosa di
Tilo Wolff, le cui composizioni hanno
iniziato a peccare di una artificiosa pomposità appena si è ricorsi ad una
orchestra: gradualmente gli album divennero da gradevoli a prolissi, fino a rasentare l'asfissia per noia (alzi la mano chi in "Fassade" ha trovato coinvolgenti i
dieci minuti della title-track).
Insomma, finché si è trattato
di incrociare due chitarre ed una tastiera, una voce maschile ed una femminile,
il metal si è mostrato vincente e ricco di risorse.
Altra cosa è però scrivere musica per una orchestra intera. Nonostante questa strada fin da principio si fosse rivelata ostica, le manie di
grandezza nel metal non avrebbero ceduto al buon senso ed anzi sarebbero divenute a un
trend inarrestabile. Soprattutto nel
power metal, con band come Rhapsody of
Fire e Nightwish, la
fascinazione per le colonne sonore di film fantasy
o d’avventura avrebbe finito per prevalere sulla volontà di
scrivere buoni pezzi: quei pezzi che Helloween
e Gamma Ray, per esempio, scrivevano
ed eseguivano senza tante sciccherie.
Contrariamente a quanto
accaduto nel metal estremo, in questi casi alla regia abbiamo potuto contare su musicisti con
una preparazione classica come Alex
Staropoli e Tuomas Holopainen
(più tardi avremmo visto come avrebbe rincarato la dose il Turilli solista – che oggi si definisce più un compositore che un
chitarrista...). Gli esiti sono stati sicuramente migliori, ma non è detto che essi
siano stati all’altezza dei mezzi impiegati. Lunghe porzioni strumentali e grassi
strati di sinfonismi caratterizzeranno molte produzioni degli anni recenti, ma,
a leggere le recensioni sulle riviste di settore, diviene chiaro come per molti
il succo di queste opere così grandiose stia ancora nei rimasugli di umile heavy
metal sopravvissuto: piacciono ancora, quando funzionano, le belle speed-song di una volta, impelagate ahimè
nel blob spersonalizzante di universi sinfonici che sembrano invero suscitare fra
gli ascoltatori più sbadigli che esaltazione. Innanzi a cotanto dispiegamento di forze,
torna alla mente, quasi con nostalgia, “Lingua
Mortis” di quei sozzoni dei Rage,
che nel 1996, incredibilmente avanti con i tempi, forse sfornavano uno dei
migliori esempi di metal con orchestra (cinque brani, poco più di quaranta
minuti di musica, povere stelle...).
L’idea dell’orchestra, in
definitiva, continua a piacere, ma nei fatti questi famigerati album con orchestra sembrano annoiare la
maggior parte dei metalhead. Quanto a
me, queste collaborazioni con orchestre e cori le trovo persino urticanti,
perché a volte riescono persino ad appesantire songwriting
brillanti (mi vengono in mente certi passaggi ridondanti nelle metal-opere degli Ayreon, altrimenti illuminate dal talento incontestabile di Anthony Lucassen), e con regolarità finiscono per
affossare, invece che salvarle, produzioni fiacche da un punto di vista dell’ispirazione. Come è il caso dei succitati Dimmu
Borgir, ai quali consiglio caldamente di andarsi ad ascoltare gli album
solisti di Ihsahn, che sa essere terribilmente
magniloquente con la sola forza della sua creatività…
…e senza bisogno di un’orchestra...