"Parlare di Musica è come ballare di architettura" Frank Zappa

20 lug 2018

IL CORO DI DOLORE DI JON OLIVA



Il dolore di Jon Oliva ha assunto proporzioni fuori controllo. Jon Oliva ad un certo punto, come in molti sanno, non si trova più a suo agio dentro i Savatage, e apre dei progetti paralleli, rimanendo comunque anche ad operare nei Savatage, lasciando come una ferita aperta. Allo stesso tempo ne apre altre, e senza mai chiuderle.

Una rapida scorsa ai testi dei JOP, e si ha l'impressione che trattino di esistenza, di morale, di varia umanità come si dice. Eppure serpeggia la sensazione che Jon si stia lamentando ad alta voce. Un
lamento che inizia in maniera maestosa e tragica, ma che poi finisce per assumere i connotati di uno “sbomballamento” (alla romana), tanto è insistito e condito da una malcelata vena polemica contro il mondo.

Innanzitutto, una caratteristica comune ai lavori di Jon è quella che segue. Più nei testi (già ai tempi di "Streets") si parla di incomprensione, di solitudine morale, di perdite e di delusioni, di distanze incolmabili, più questi sentimenti sono rappresentati coralmente, come se Jon volesse costringere la natura e il mondo a partecipare al suo dolore, a calci in culo. Mentre il classico “coro” della tragedia prende parte per rinforzare e commentare le vicende attraverso un occhio esterno che partecipa, il coro di Oliva è una eco dell'assenza di partecipazione del mondo.

Questo artista, almeno fino a "Streets", ha un dialogo paritetico con il mondo. Lo scopre, lo racconta, anche attraverso il dolore. Dopo accade qualcosa. Se posso anche cogliere gli aspetti più grotteschi di questa trasformazione è perché personalmente, ai tempi, io ho sofferto per quest'uomo. Negli anni '90 cominciò ad avere bisogno di progetti diversi dai Savatage per dire quello che, sostanzialmente, avrebbe potuto dire anche con i Savatage. E che continuò a dire anche con i Savatage. Solo che aveva bisogno di dirlo due volte, tre volte. E – se si può individuare una differenza programmatica tra gruppo madre e altri progetti-, fuori dai Savatage poteva dirlo in maniera paradossalmente più corale. Perché il coro che cercava era un'espansione di sé, in assenza di reale compagnia al suo dolore.

La radice del dolore di Jon può essere facilmente fatta risalire alla perdita del fratello, eppure i segni di una esondazione compositiva si vedono fin da prima. Si è detto che la storia di "Streets", del musicista che si sta per distruggere da solo, e invece ritrova la fede e la voglia di vivere solo dopo aver toccato il fondo, rispecchiasse proprio i problemi di Oliva in quel periodo. Se così è, il finale felice di "Streets" coincide invece con una rinascita problematica di Jon, che nel disco successivo rimane nelle retrovie. Nella vita vera, quando si tocca il fondo si rimane ammaccati per un po', come minimo. E quel Dio che Jon invoca e ringrazia in "Streets", se non lo lascia morire, lo salva per poi metterlo di fronte ad un altro dolore, la morte del fratello Criss. Egli risorge, anche con fatica perché non è Gesù, per poi stringere tra le dita una manciata di pioggia ("Handful of rain").
Il dolore non fu quindi solo e soltanto quello della perdita del fratello, ma è un discorso più complesso che aveva radici in sentimenti ed esperienze pre-esistenti, e che al momento della morte di Criss Oliva, forse, entrò in una fase senza ritorno. Un debito di dolore ormai insanabile da qualsiasi grazia divina.

E' da quel momento che il rapporto tra Jon e il cielo si tinge di un colore livoroso. Prima quasi devoto, quasi invaso da uno stupore positivo per la ripresa della vita, Jon comincia a farsi torvo. Sempre magniloquente, sempre struggente, sempre sorridente contro la tempesta, ma rancoroso nei confronti del cielo. Da quel momento in poi, come simboleggiato bene dalla polifonia di “Chance” (da "Handful of rain"), Jon vuole ripetere fino allo sfinimento la storia del suo dolore, bussare con quella recriminazione alle porte del cielo, bussare e bussare finché qualcuno gli apra. Per chiedergli scusa, finalmente. Jon diventa lo stalker del Cielo, degli Angeli e di chiunque stia lassù a dirigere il tutto con la sua Volontà, chiamatelo come volete. E Oliva compie questa impresa titanicamente, perché in sostanza è da solo, anche se moltiplica le proprie forze e il proprio impatto facendo eco a se stesso.

I Jon Oliva's Pain divengono il punto di arrivo di questo percorso. Una sorta di accampamento spirituale, di teatro sempre aperto in cui, sipario giù o sipario giù, il dolore di Jon Oliva è sempre sul palco. Il legame con Criss è evidente, e i primi dischi lo citano (il titolo del primo, e le composizioni del secondo), ma soprattutto un che di “non-detto” che serpeggia per le composizioni. I dischi di Jon non parlano sempre del fratello, e quasi mai del suo personale dolore, eppure si ha come l'impressione che stia sempre alludendo a quello, con rabbia. Più Jon si allontana da quell'evento, più sembra che non ne voglia parlare, e più a pelle sembra invece che stia proprio parlando di quello.

Il disco “dedica” al fratello, non a caso, si chiude con un brano in cui Jon ripropone anche spezzoni di canzoni passate, come a dire “ecco dove dovevamo arrivare, a che io mi salvassi dalla rovina per trovarmi a cantare la tua morte”. E da lì in poi basta, il cielo non ha meritato più una sola parola esplicita su questo. Da lì in poi ha parlato il coro dei Jon Oliva's Pain, una sorta di lettera anonima, ma firmata poi all'ultimo col nome, in cui si rinfaccia al mondo, agli uomini, al cielo la verità sul dolore ingiusto.

A cura del Dottore