"Parlare di Musica è come ballare di architettura" Frank Zappa

21 ago 2018

"LIVE IN DEUTSCHLAND 2002" (SAVIOUR MACHINE) - RIFLESSIONI SU UNA BAND CHE NON ESISTE PIU'




Paese di Owen, Baden Württemberg, 3500 anime nel sud della Germania.
A distanza di 7 anni esatti (era il 25 marzo 1995), Eric Clayton riporta in scena nello stesso luogo i Saviour Machine.

Se escludiamo l’introvabile collezione “Rarities/Revelation” del 2006 (oltre 5 ore di materiale mai rilasciato e stampato in sole 500 e rotte copie) e il fantomatico “Legend III.II”, su cui già avevamo dissertato, questa è l’ultima testimonianza della band americana.

Oggi vi ritorniamo perché ai SM continuiamo a voler bene e, periodicamente, andiamo a riascoltare la loro discografia.

Memori proprio di quel bellissimo “Live in Deutschland 1995”, forte di una scaletta invincibile, composta dai classici dei primi due capolavori (il debut omonimo e “Saviour Machine II”, rispettivamente del 1993 e del 1994), ci approcciamo a questo live con una duplice consapevolezza: quella di assistere a un qualcosa di unico, un concerto sui generis, a metà tra rito religioso e spettacolo teatrale, ammantati dalla musica composta da Erica Clayton; ma anche quella di sapere bene che ormai i SM non sono più una band ma una creatura a immagine e somiglianza del suo deus ex machina.

E infatti, le aspettative vengono confermate dalla visione del concerto che pesca solo e soltanto dalla saga di Legend, inserendola visivamente in un’ambientazione molto suggestiva. L’armamentario scenografico è effettivamente notevole, semplice ma potente nel trasmettere emozioni forti. Palco sormontato da lunghe e pesanti catene che si incrociano, parossistici giochi di luce (spesso a tinte rosse…), paramenti chiesastici, ceri accesi…attenzione, qua non siamo di fronte a pacchianità e kitchaggini assortite. Qui è tutto sentito, è tutto parte di un progetto e di un modus operandi che nasce da uno studio e da riflessioni profonde filosofico-esistenziali. Non vi svelerò come Eric, durante l’interpretazione dei brani, utilizzerà tutto questo. Starà agli interessati scoprirlo, ma sappiate che nulla è lasciato al caso.

Passando alla musica: abbandonato ormai dal fratello Jeff (sostituito egregiamente dal session svedese Carl Johan Grimmark) ma coadiuvato dai due fedelissimi della prima ora, Charles Cooper al basso e Nathan Van Hala alle tastiere, e avvalendosi di un five-pieces d’archi e 7 coristi, Eric porta in scena il suo grande “figlio”, quell’opera magna per cui ha lavorato per una vita (la saga di Legend, appunto). Si gioca molto sui crescendo emozionali (vedasi l’incredibile accoppiata “The invasion of israel” – “World War III”); crescendo nei quali ha un ruolo fondamentale la batteria di Thomas Weinesjö, che dona al sound una marzialità diffusa e continua.

Ma la musica da sola non rende l’idea: i risvolti religiosi (nell’ottima “The promise”, ad esempio, non ci verrà risparmiato l’elenco di tutte le tribù d’Israele) e politici sono continui e Eric non usa mezzi termini per veicolare i suoi messaggi. Vedremo così una bandiera dell’ONU campeggiare in mezzo al palco e sulla quale il Nostro dipingerà la scritta simbolo del suo fallimento istituzionale (“no order”), per poi, durante la marzialissima “The beast” (quasi 10’ di incedere percussionistico), darle fuoco…Nemmeno mancherà il riferimento al conflitto in Medio Oriente: Clayton intinge le bandiere israeliana e palestinese in una brocca piena di liquido rosso per poi tenerle alte e appenderle alle suddette catene che scendono dall’alto. E si potrebbe continuare con gli esempi…

In tutto questo, gli altri membri della band, da un punto di vista scenico, sembrano essere lì come appendici dello spettacolo di Eric, monoespressivi, fermi come delle statue di cera. Ma ciò che colpisce ancor di più è l’atteggiamento del pubblico, completamente ammaliato dal rito che si produce in scena. I volti sono a metà tra l’estatico e l’inespressivo. Tantissime facce occhialute da nerd seguono i movimenti sciamanici di Eric e l’effetto che si produce in questi momenti è molto emozionale (da vedere l’accoppiata “Four trumpets” + “The locust”); momenti che troveranno una loro catarsi eruttiva solo nelle conclusive “Legend I.I” – The Lamb” e nell’encore “American babylon”, 20 minuti totali di un’intensità pazzesca.

Un live quindi che esprime tutta la grandezza e al contempo i limiti di un progetto del genere, totalmente autoreferenziale. Se fino a “Saviour Machine II”, la band riusciva ad esprimere un sound vario, sfaccettato, dark e progressivo, da quel fatidico 1997 e l’uscita del primo tomo di “Legend” i SM sono divenuti una creatura personale di Eric, piegando la magniloquenza del loro sound al concept che il Nostro ha sviluppato. Portando il tutto a livelli inimmaginabili sia da un punto di vista del concepimento che della realizzazione. 
Soprattutto a partire da “Legend II” (1998) sfido il fan più indefesso della band a distinguere, come anche in questo live, i brani l'uno dall’altro senza avere sott’occhio la tracklist. Impossibile...
Questo perchè i Legend sono un unico, immenso mosaico, di fatto con la stessa colonna sonora, un mid-tempo dark/doom progressivo; e questo live corrispettivo è conseguentemente una sorta di unica canzone della durata di 130’ (sic!).

Uno show per Eric estenuante. Così come per noi spettatori che, per l'infinita stima che riponiamo in lui, ce lo siamo sciroppato dall'inizio alla fine...

A cura di Morningrise

(vedi live)