"Parlare di Musica è come ballare di architettura" Frank Zappa

1 ott 2018

VIAGGIO NEL METAL ASIATICO: BRUTALITA' EDUCATA E UTOPIE DEL LAOS



Dite la verità: ve l'eravate scordato il Laos, eh? 

Strizzato in mezzo all'Indocina, è un paese che ricorre qualche volta nei film come base operativa degli Americani nella guerra del Vietnam. Apprendiamo notizie fondamentali da Wikipedia, tipo che la sua estensione è quasi come quella della Romania (questi paragoni insulsi da sempre infestano i libri di geografia): perché allora non caratterizzare i paesi su altri piani, ad esempio considerando la famosa mappa di densità di metal-band, che ogni antropologo dovrebbe conoscere? 

Apprendiamo da un sito di informazioni turistiche che i laotiani sono gente pacata, parlano quasi sottovoce e, se dobbiamo ad esempio discuterci, non è il caso di alzare la voce: lo troverebbero molto aggressivo. Si dice che siano “persone molto tranquille e disponibili, non gradiscono litigare”. Come tutti gli appassionati di brutal death, del resto, che qui possono contare su ben quattro gruppi, ovvero l'80% del metal disponibile. 

Quattro gruppi e una padella: tale è il rumore delle percussioni laotiane, brutali ma non amanti del litigio, e quindi "a mezza voce". Il rumore, per intenderci, è lo stesso del segnale acustico delle piccole stazioni, quelle in cui un doppio altoparlante segnala, senza annuncio vocale, se sta arrivando un treno da destra o da sinistra (tin-tin-tin-tin….). La voce e la chitarra, nel loro insieme, riproducono abbastanza fedelmente il rumore del treno che arriva e poi frena. Un brutal ferroviario, quindi: accattivante il giusto, ma che offre titoli enigmatici come “impalato da dentro” (come si può tecnicamente realizzare?). 

Il brutal laotiano non brillerà per tecnica, ma l'approccio è genuino: lo dimostrano titoli quali “Slurping Rotten Anus” dei Dissevered. Scherzi a parte, c'è anche un vena sociale, con il consueto doppio binario del brutal, tra compiacimento anatomo-patologico e metafora materialistica della rabbia sociale. Che poi è la poetica brutal: quando il mondo si smonta, si decompone, deflagra, va in brandelli, ecco che la verità si palesa, ossia i meccanismi, le impalcature, la banalità delle architetture sociali volte allo sfruttamento e alla mortificazione dell'individuo. I Dissevered, in particolare, hanno il pallino della metafora neuro-patologica, tipo “scariche sinaptiche di sofferenza”, oppure “cancellazione neuronale”, ma alla fine sempre padellate sono. 

La padella dei Dissevered fa scuola, o forse è proprio la stessa, perché i membri di questi tre/quattro gruppi brutal sono i soliti, che sciolgono e fondano gruppi brutal in maniera seriale. Rotkin, Buddhlust, Sapanakith

Pur ritrovandoci nella culla del brutal death, con grande sorpresa ci imbattiamo in un gruppo di hair metal: gli Exile, idoli delle adolescenti della capitale Vientiane e dell'Ontario, dove si sono spostati. Con un piglio da street rocker navigati, i Nostri sono la risposta laotiana agli Scorpions. La dose di chitarrismo è decente, la voce regge tra timbriche à la Halford ed  à la Meine, meno debitrice della tradizione USA. In alcuni passaggi purtroppo i testi in lingua madre producono, ai nostri orecchi occidentali, l'effetto "filastrocca per bambini con la febbre a trentotto". Ma sono momenti passeggeri: i ragazzi ci sanno fare ed alla fine della fiera risultano molto più rocciosi di tanti gruppi metalcore.

Avranno fatto fortuna? A giudicare dal sito, no: il sito infatti non esiste più. Secondo me era la strategia di marketing. Come dice Laopress “i membri degli Exile adotteranno uno stile musicale che sarà invero godibile per tutti i gruppi e per tutte le fasce di età di laotiani in ogni parte del mondo.” Un'utopia visionaria, quella della Laopress, secondo la quale tutti i laotiani sparsi nel mondo, di qualunque età, un giorno si riconoscano con orgoglio negli Exile. Nella biografia i Nostri rimarcano di essere addirittura stati trasmessi alla tv thailandese, che in Indocina è una tacca sotto la beatificazione. Il problema è che nell'Ontario questa notizia non se la cacherà nessuno. 

Dulcis in fundo, i Dictator provano a fare del buon vecchio thrash metal, dal sapore anthraxiano. Copertina fumettosa, tipo quelle di Repka, e logo con la classica simmetria speculare della prima e dell'ultima lettera in stile Metallica. Il messaggio di tutti questi gruppi orientali, come anche di quelli africani, all'Occidente è il seguente: non è che il thrash sia ormai un genere superato, è che non lo sapete più suonare! A differenza degli Exile, i Dictator volano bassi e pubblicano il cd in sole sessantasei copie a neanche otto euro sul sito della Depressive Illusions Records. Da non confondere con i Dictator cileni (so che già eravate perplessi per questa omonimia), anch'essi thrash metal, con logo non dissimile. In ogni caso, anche se vi sbagliate, l'acquisto dell'album di una o dell'altra band sarà sempre una scelta migliore di acquistare l'ultimo degli Anthrax o dei Testament... 

Lasciamo il Laos vedendoci i Dictator dal vivo, che in una foto ci danno un'atroce anticipazione del metal thailandese: un tizio di spalle ha la maglietta con il logo di una delle band di spicco, i “Macaroni”... 

A cura del Dottore