Allora, io lavoro a Hammersmith. E a dieci minuti da dove lavoro c’è l’Eventim Apollo, quello di “No Sleep 'til Hammersmith”, tanto per intenderci. Ogni giorno ci passo davanti ed ogni volta il mio sguardo si volge verso l'insegna del locale su cui campeggia il nome dell’artista di turno. Di nome ne sfilano tanti (ultimo quello di Slash, mercoledì scorso), uno ogni giorno, ma questa volta non potevo tornare a casa voltando le spalle alla scritta Blue Oyster Cult.
Cioè: i Blue Oyster Cult - storia della musica - suonano ad un passo da dove lavori, è venerdì sera e non ci vai? Per questo sono qui a presenziare a nome di tutti voi, in rispetto di tutti voi che non potete essere con me. Come avrei potuto non farlo?
Devo ammettere però che una sorta di sacrificio c’è stato: perché a me hanno rotto i coglioni questi concerti di vecchi per vecchi. In queste situazioni ci si sente come allo ospizio: lo avevo capito con gli Uriah Heep, ne ho la conferma oggi con i Blue Oyster Cult, i quali offrono pro e contro rispetto a Box e soci. Siamo sempre alla sagra della prostata ingrossata, ci mancherebbe altro, ma il Culto dell’Ostrica Blu sembra attirare qualche personaggio pittoresco in più (e paradossalmente più metallari che in altri concerti più metallari). Ma anche tanto disagio, e non c’è cosa che mi dà più angoscia dei vecchi ex capelloni con tre cappelli in capo, dei ventri enormi dei rocker di sessant'anni, delle donne detta terza età che ballano in modo scoordinato (ce n’è una che indossa addirittura una maglietta dei Ghost: perché???). Ci mancano solo flebo e cateteri. Beviamoci su, del resto sono serate come queste che fanno fatturare i bar nei locali. E in fondo è pur sempre piacevole vedere cariatidi inglesi con lo sguardo spento che si muovono cauti con due punte di birra in mano.
Quando faccio il mio ingresso, il gruppo spalla sta suonando e in tutta onestà spero non per molto altro tempo ancora. The Temperance Moment è un monicker che poteva far presagire cose interessanti, ma con grande delusione mi trovo di fronte ad un banale revival di rock settantiano. Cosa che di per sé non sarebbe un male, se i Nostri non avessero quel sapore di "revival anni settanta fatto negli anni novanta", con spiacevoli rimandi agli Aerosmith più starnazzanti. Archiviamo il tutto sotto la voce inutilità e procediamo oltre.
Non mi definisco un fan dei Blue Oyster Cult, che ho sempre trovato “strani”. E' come se di loro apprezzassi più il “contorno” che la portata principale. Li trovo insipidi per minuti, poi, un secondo prima di toglierli dallo stereo, arriva il guizzo: un riff assurdo, un assolo di synth, un dettaglio interessante, il brano che finisce in un modo, quello successivo che inizia in un altro, ed ecco che l’attenzione si riaccende! Poi i testi criptici, l’immaginario fantastico/fantascientifico, qualche brano superlativo and the Legend goes on… Ma ad essere sincero non muoio mai dalla voglia di ascoltarli.
Soluzioni avveniristiche zavorrate dagli stilemi vetusti del rock'n'roll, musicisti che guardavano al futuro con un linguaggio passatista, l'accesso a dimensioni aliene al passo di boogie boogie.
Non sono mai riuscito ad inquadrar bene i Blue Oyster Cult e questo è un altro motivo per cui sono qui stasera: saggiarne il succo autentico. I concerti, in genere, riescono a chiarire certi dubbi, ma non è il caso dei Blue Oyster Cult, che rimangono inafferrabili anche a fine esibizione.
Però una cosa l’ho capita: Buck Dharma mi piace di più rispetto ad Eric Bloom (i due leader della band, nonché gli unici membri superstiti della formazione storica). Con la sua chitarra "mozzata" Dharma fa cose fantastiche e lo riscopro superlativo guitar-hero, aiutato dagli ottimi suoni offerti dall’Eventim Apollo. Dharma è anche terribilmente focalizzato sulla musica, un personaggio un po’ più schivo rispetto a Bloom, il quale invece spesso guadagna la scena come main vocalist, dividendosi fra chitarra e sintetizzatori. La voce nasale di Bloom è a tratti urticante, soprattutto durante i lunghi discorsi rivolti al pubblico, e ci ricorda come poco siano carismatici i Blue Oyster Cult. E come sia poco eclatante la loro musica, fatta di particolari, preziosismi, sfumature.
Non sono mai riuscito ad inquadrar bene i Blue Oyster Cult e questo è un altro motivo per cui sono qui stasera: saggiarne il succo autentico. I concerti, in genere, riescono a chiarire certi dubbi, ma non è il caso dei Blue Oyster Cult, che rimangono inafferrabili anche a fine esibizione.
Però una cosa l’ho capita: Buck Dharma mi piace di più rispetto ad Eric Bloom (i due leader della band, nonché gli unici membri superstiti della formazione storica). Con la sua chitarra "mozzata" Dharma fa cose fantastiche e lo riscopro superlativo guitar-hero, aiutato dagli ottimi suoni offerti dall’Eventim Apollo. Dharma è anche terribilmente focalizzato sulla musica, un personaggio un po’ più schivo rispetto a Bloom, il quale invece spesso guadagna la scena come main vocalist, dividendosi fra chitarra e sintetizzatori. La voce nasale di Bloom è a tratti urticante, soprattutto durante i lunghi discorsi rivolti al pubblico, e ci ricorda come poco siano carismatici i Blue Oyster Cult. E come sia poco eclatante la loro musica, fatta di particolari, preziosismi, sfumature.
Paradossalmente i tre “nuovi” membri riescono a farsi notare più degli stessi Bloom e Dharma, che più che dei rocker, stanziano sul palco come due distinti signori ad un ricevimento: camicie attillate, occhialini da sole e movimenti ridotti al minimo. Il bassista Danny Miranda (comunque in line up dagli anni novanta) sfodera persino un copricapo che costituirà l’espediente scenico di maggiore effetto della serata. Applausi inoltre per il drumming preciso e dinamico di Jules Radino (non dev’essere un cazzo semplice comandare ritmicamente le complesse composizioni dell’Ostrica Blu) e soprattutto per Richie Castellano, in genere seduto dietro alla tastiere, ma in grado di ritagliarsi momenti di grande protagonismo anche alle sei corde.
Insomma, i musicisti ci sono, e ci sono anche i brani che vanno a ripercorrere i primi dieci anni di storia della band (salvo un episodio estratto dal più recente "Heaven Forbid", anno 1998), con un occhio di riguardo per l’omonimo debutto e “Tiranny and Mutation”.
Trascorsa l’introduzione atmosferica, si attacca con un uno-due del calibro di “Dr. Music”/”Before the Kiss, a Redcap". Bloom promette subito qualche variazione rispetto alla scaletta delle date precedenti: eccezioni che si concretizzeranno con una serrata esecuzione di “Career of Evil” e poi, in seguito, con una graditissima “Harvest Moon”, dal flavour melodico eccezionale. A proposito di refrain leggendari (e ve ne saranno a palate stasera), ecco che si materializza quello di “Burnin’ for You”, forse un po’ ruffiano, ma decisamente irresistibile (e caro a noi tutti metallari, in quanto ricorda non poco la coppia di asce maideniane Dave Murray/Adrian Smith).
Ma è in occasione della parte finale del concerto che le gioie più grandi si concentreranno in una sequenza micidiale di brani: la strumentale “Buck’s Boogie” è un turbine di riff cavalcanti ed assoli al cardiopalma, dove ovviamente le capacità di Dharma ci vengono sbattute in faccia ad ogni piè sospinto. La visionaria “Then Came the Last Days of May” giunge a sedare gli animi, cullandoci con le sue carezzevoli melodie ed un incredibile assolo-fiume nel finale, questa volta da parte di un Castellano in stato di grazia. E poi arriva Lei, forse il brano migliore dei Blue Oyster Cult (fatta eccezione della splendida “Astronomy”, che i Nostri si ostinano a non voler suonare più dal vivo), ossia “Flaming Elephants”, con il suo riffone maestoso, un Bloom finalmente convincente dietro al microfono e l'assolo di synth/pianoforte da lacrime.
Con questo trittico uno potrebbe andarsene a casa soddisfatto, ma ecco che arrivano i carichi da novanta della anthemica “Godzilla” (canzone che non mi ha mai fatto impazzire, ma che dal vivo è in grado di scuotere il locale dalle fondamenta) e “(Don’t Fear) The Reaper”, massimo successo commerciale per la band, anch’essa accompagnato dal battito di mani e dai cori di un pubblico veramente esaltato (le dentiere volavano).
Dopo una breve pausa è tempo di bis, con un altro trittico da knockout tecnico: “Joan Crawford” e i classicissimi “Hot Rails of Hell” e “Cities on Flames with Rock and Roll”, con i loro riff micidiali ed uno spirito hard rock che dal vivo ha finito per imporsi su quell'approccio prog, quelle sfumature sghembe che abbiamo sempre apprezzato su disco.
Vecchi leoni con bastoni, schiene ricurve ed un gran ghigno dipinto sul viso zoppicano verso l’uscita. Quanto a me, percorro la via verso casa con la certezza di aver assistito ad un grande show, ma pure con la consapevolezza di non essere riuscito, nemmeno questa volta, ad afferrare l'essenza profonda del Culto dell’Ostrica Blu!