"Parlare di Musica è come ballare di architettura" Frank Zappa

28 feb 2019

I MIGLIORI ALBUM BREVI DEL METAL


A volte la lunghezza conta” si diceva nell’introduzione alla nostra rassegna sui migliori brani lunghi del metal. Ma a volte no!, potremmo aggiungere oggi, visto che ci confronteremo con i migliori album brevi del metal. Sì, album (non EP!) che, nonostante l’esigua durata, si sono dimostrati non solo ricchi, ricchissimi di contenuti, ma persino seminali e capaci di cambiare il corso della storia della musica pesante. 

In un'era in cui ci ritroviamo letteralmente inondati da pubblicazioni di dimensioni pantagrueliche, riteniamo salutare riscoprire una manciata di album che sanno dire molto in poco tempo. Ma quando un album può essere considerato breve? Presa per buona la regola non detta secondo cui almeno quaranta minuti un album ha da durare, abbiamo deciso di abbassare l’asticella fino a trentacinque minuti di durata, inteso come limite massimo sotto cui muoversi. E pazienza se per rigore metodologico abbiamo dovuto tagliare fuori masterpiece del calibro di “Overkill” dei Motorhead, “Battle Hymns” dei Manowar e British Steel” dei Judas Priest, rispettivamente dalla durata di 35:15, 35:48 e 36:10! 

Spiace anche escludere titoli come "Under the Sign of the Black Mark" dei Bathory (35:55), cruciale per l'evoluzione del black metal,  “Wolverine Blues” degli Entombed (35:25), che nel suo piccolo ha dato il la al death’n’roll, o “Battles in the North” degli Immortal (35:20), caposaldo del black metal tutto. Ma la logica che ha animato la nostra selezione ci ha portato a non avere pietà per nessuno. Vediamo dunque chi è riuscito ad accaparrarsi un posto nella nostra top-ten! Badate bene, però, che gli album sono semplicemente disposti in ordine di durata, ossia dal più “lungo” al più breve. Considerata l'elevata qualità media dei nomi selezionati, non ci è sembrato infatti opportuno stilare una vera e propria classifica... 

“Master of Reality”, Black Sabbath (34:29) 
Basterebbe già la presenza di un brano leggendario come “Children of the Grave” per rendere questo un album epocale. Ma oltre a quella che potremmo definire la cavalcata metal per eccellenza (con già i semi della musica estrema dentro), c’è molto altro: i riff pastosi di “Sweat Leaf” ed “After Forever” (che condurranno allo stoner più fumoso) e poi l'heavy metal pesante ed oscuro di episodi come “Lord of this World” e “Into the Void”, con in mezzo quel gioiello di leggiadra malinconia che risponde al nome di “Solitude”. Una sequenza mozzafiato di titoli che spiega a tutti noi come è possibile fare la storia della musica in soli trentaquattro minuti! 

Bergtatt - Et Eeventyr i 5 Capitler”, Ulver (34:17) 
Il black metal si presta bene al formato dell’album breve e opere come “Panzer Division Marduk” (30:02), “Under the Sign of Hell” dei Gorgoroth (32:53) e “Blizzard Beasts” degli Immortal (addirittura 28:58!) ne sono la dimostrazione. Ma noi abbiamo voluto premiare un album che non si limita a correre a cento all’ora, ma che anzi intende procedere con passo misurato ed elegante, gettando i semi di quello che poi, anni dopo, sarebbe stato chiamato post-black metal. Fra folk acustico e brividi elettrici, splendidi intrecci vocali e melodie struggenti rigorosamente made in Norway, in nemmeno trentacinque minuti gli esordienti Ulver, con uno strepitoso Garm dietro al microfono, esprimono emozioni indicibili con la classe dei migliori. Opera a dir poco meravigliosa. 

“Slaughter of the Soul”, At the Gates (34:08) 
Con qualche secondo in meno gli At The Gates raggiungono un risultato altrettante strabiliante. Sound granitico, velocità, ma senza mai perdere di vista la melodia (e con qualche preziosismo di chitarra gentilmente concesso dal maestro Andy LaRoque, qui anche in veste di produttore), gli svedesi firmano il loro “Reign in Blood”, dando di traverso una bella spinta al Gothenburgh sound, altresì detto melodic-death metal. Seminali. 

“Human”, Death (34:06) 
Inchiniamoci ancora una volta al divino Chuck Schuldiner. Con questo “dischetto” del 1991 la band apriva ufficialmente la sua fase della maturità e dopo aver letteralmente inventato il death metal, con “Human” (forte anche di testi profondi ed una iconografia che voltava le spalle al classico immaginario horror/splatter) veniva sdoganata la variante "technical" del death metal, impresa resa possibile non solo dal songrwriting eccezionale del geniale Schuldiner, ma anche dalla presenza di comprimari come Steve DiGiorgio (basso), Paul Masvidal e Sean Reinart (rispettivamente alla chitarra ed alla batteria, entrambi fondatori dei Cynic, altro ensemble extraordinaire). 

“Spheres”, Pestilence (33:17) 
Si parlava di technical death metal ed ecco che appena due anni dopo gli olandesi Pestilence si affacciano sul mercato discografico con la loro opera più sperimentale: “Spheres” esprime un death metal spaziale che sa flirtare con jazz ed addirittura con la fusion, condensando virtuosismi ed innovazioni strabilianti in soli trentatre minuti ed una manciata di secondi (non saranno da meno i colleghi Atheist, che menzioniamo per lavori come “Piece of Time” (32:10) ed “Unquestionable Presence” (32:25), e i già citati Cynic, il cui capolavorissimoFocus” si assesta sui 35:57, rimanendo per davvero poco fuori dalla contesa). 

“Scum”, Napalm Death (33:01) 
Dura trentatre minuti, ma poteva anche durare la metà e rendere esattamente alla stessa maniera. Il dato agghiacciante è che gli esordienti Napalm Death ficcano in poco più di mezzora ben ventotto pezzi, che in verità sarebbe meglio definire in termini di schegge sonore di violenza inaudita dalla durata media del minuto e poco più. Eppure, da quello che parrebbe essere solo uno scherzo di cattivo gusto da parte di brillanti liceali, origina il grindcore, genere nuovo di zecca volto ad estremizzare ulteriormente punk/hardcore e elevando a standard la scrittura di brani veloci quanto brevi (emblematico “You Suffer”, traccia lunga un solo secondo!). 

“Killing is my Business...and the Business is Good!”, Megadeth (31:10) 
E’ tempo di thrash metal e se anche questo non è l’album più apprezzato dei Megadeth, riascoltarlo oggi con orecchie prive di pregiudizi può dare le sue soddisfazioni. Del resto era l’esordio discografico di Dave Mustaine che, scacciato dai Metallica, volle confezionare qualcosa di ancora più veloce, selvaggio e tecnico del materiale rilasciato dagli odiati rivali. E se la produzione non è il massimo (ma non è necessariamente un male, anzi, essa conferisce un fascinoso sapore artigianale al prodotto), i brani ci sono eccome, tutti animati dalla rabbia biliosa di MegaDave. Da rivalutare. 

“Hail to England”, Manowar (30:14) 
I Manowar si accaparrano un posto d'onore in questa top-ten, non per capacità di sintesi, ma per sciatteria, dato che, in linea con le loro rozze produzioni iniziali, si accontentano di registrare una manciata di brani diretti e privi di fronzoli. Ma che brani, ragazzi! “Blood of My Enemy” e “Kill with Power” finiscono di diritto nella lista dei classici della band (e di conseguenza dell’intero heavy metal), mentre a sbilanciare tutto troviamo i nove minuti della semi-balladBridge of Death”, con tanto di apertura arpeggiata, a chiudere l’album all’insegna di toni che oseremmo definire intimistici. Con "Hail to England" l'epic metal ci consegnava una sua pietra miliare.  

“Legion”, Deicide (28:55) 
Giunti al secondo album, i Deicide confezionano quello che è da ritenere il loro capolavoro formale: un monolite nero di death metal blasfemo e violentissimo che, nel suo chirurgico sforzo di eliminare il superfluo, sa rinunciare a quegli scampoli di (ehm...) melodia che ancora sopravvivevano nel brillante esordio. L'elevata tecnica e la produzione professionale fanno sì che la brutalità non deragli mai verso la confusione, ma anzi il sound si fa preciso, tonico, massiccio, e per questo fa ancora più male. Sulla scia dei maestri Slayer, anche Glen Benton e compagni danno vita al loro personale “Reign in Blood”, adottandone lo stesso modus operandi, ossia asservire la tecnica alla violenza!

“Reign in Blood”, Slayer (28:52) 
A proposito di “Reign in Blood”, eccoci finalmente all’album metal breve per eccellenza: non esiste infatti nel metal un'opera più ricca di contenuti in relazione alla esigua durata. Non solo qui troviamo brani incredibili che ancora oggi presenziano con onore nelle scalette delle esibizioni dal vivo della band (“Angel of Death”, “Post Mortem”, “Raining Blood”), ma rinveniamo un vero e proprio nuovo linguaggio che verrà, non a caso, adottato dall’intero universo del metal estremo. La lezione degli Slayer è stata semplice ma non scontata: vedere la violenza non come uno sfogo fine a se stesso, ma come un risultato da raggiungere con metodo e tecnica esecutiva (e il drumming innovativo di Dave Lombardo non è stato sicuramente un fattore secondario). Sì, come già l’abbiamo definito, siamo al cospetto dell’anno zero del metal estremo: un big bang che non arriva ai ventinove minuti di durata!