Al tempo della guerra in Iraq la Giordania era un paese “amico” (non si sa di chi, ma amico). C'era questo Re Hussein che sorrideva sempre, elegante, distinto, che pareva dire: ragazzi, ho una bella moglie, soldi, devo garantire la sopravvivenza al mio popolo, e ho una scena metal da avviare; io non voglio compromettere il destino del mio paese con guerre inutili.
In effetti ebbe ragione,
vista la buona rappresentanza di band costruita negli anni. Ciò
accade nonostante un clima, non di marca prettamente religiosa,
piuttosto ostile nei riguardi del metal. Le scuse sono che sia una
moda estera, che contenga modalità espressive non idonee alla
cultura giordana, e in ultimo naturalmente che sia una musica che
connota, o raccoglie, la peggio gioventù.
Analogamente a quanto
accade in Egitto, i Giordani sembrano invece utilizzare, almeno in
parte, musiche come il metal per esaltare la propria appartenenza
culturale, cioè per rappresentare la propria bandiera nel panorama
mondiale. Sarà poi vero che essi espungono “un certo Islam”, non
l'Islam, dalla loro visione dell'identità giordana e umana, ma certo
non inneggiano a modelli occidentali. “Jordanian Heart” degli
Esodic è un po' il manifesto di questa nuova gioventù giordana.
Neanche di esterofilia si
può tacciare la scena metal giordana, perché mancano proprio i
generi di più facile presa commerciale. Fa teoricamente eccezione il
Nu-metal dai temi filo-palestinesi per i Chaos of Nazareth (bel nome
però, ai blacksters era sfuggito), ma stilisticamente questo gruppo
ha il pregio di sovrapporre ai ritmi sincopati o groovy delle linee
circolari tipicamente arabe, che rendono il tutto più snello e
serpentiforme.
Ai prossimi colloqui di
pace tra Israeliani e Palestinesi proporrei come tappeto musicale il
depressive black dei Forgive Me. Cadenza funerea dal sapore crudo,
con piatti che sembrano parlare, i nostri implodono lentamente e con
sofferenza indicibile, naturalmente, mentre sul video scorrono le
immagini di lotte etniche in Gerusalemme. Un bel messaggio che da
solo fa capire quanto siano ben spesi tutti gli stipendi dei vari
diplomatici, delegati, ambasciatori di pace, e amenità varie. Di
sicuro effetto sono le immagini classiche di lanci di pietre,
militari che brutalizzano civili, accostate al mood depressive black,
privo di speranza e finanche di rabbia tesa al cambiamento. Una
intifada che dall'essere evento storico in una contingenza politica,
diventa grido di dolore contro il mondo tanto inaccettabile quanto
inattaccabile.
Approfittando della
demoralizzazione, Lord Azmo ci sussurra frasi misteriose su una nenia
atmosferica, concludendo ben poco se non ricordarci che d'Autunno
cadono le foglie, si ghiaccia tutto, le donne ahimè già in
Primavera ti avevano tradito, e quindi si prospetta un Inverno di
merda. “Torn roses” è stavolta il titolo che fa da cornice a
questa ennesima tela bianca della produzione atmosferica
transnazionale. Ma la tortura non finisce qui. I Tears of Regret ci
propinano atmosfere e rumori per quasi un'ora, dolosamente, poiché
volendo sanno anche comporre roba più strutturata.
I Death Diaries ci
sprofondano in una tristezza sentimentale, con “Loveless” (due
sono i brani originali dei DD: Loveless e Lifeless – scegliete
pure), ma noi, che siamo abituati a sopravvivere a ben altro (vedi
Lord Erragal in Iraq) possiamo digerire tutto questo antipasto. Tra
l'altro Lord Azmo (al secolo Azmo Lozmodial) è un personaggio
versatile, il cui nome si ritrova in una serie di gruppi locali
(Chalice of Doom, Death Diaries... e altri dalla composizione
internazionale).
Rifiutare di deprimersi
in Giordania sembrerebbe anche offensivo, data l'abbondanza della
proposta. E allora se proprio devo, scelgo i Chalice of Doom, più
funeral doom, che amano orpellare la mancanza di speranza con un
certo gusto, come quello dell'imbalsamatore di cadaveri.
Da queste profondità si
risorge passando per i territori doom-gothic (Falling Leaves), e
torniamo su generi combattivi. Tutti i paesi, abbiamo imparato, hanno
i loro vichinghi: ce ne sono di Africani e di estremo-orientali, e
quindi anche di Arabi. La Giordania attende il Ragnarok (il giorno
del giudizio) con i suoi vichinghi Bouq, per esempio.
Risaliamo passo passo con
Augury, Atomos, Bilocate e...ci fermiamo a questo punto dalle
parti dei Nathrzeim, la cui proposta musicale ci appare ancora un po'
troppo sabbiosa. Nelle orchestrazioni oltre un certo grado di
complessità, ci vuol poco per risultare dispersivi, digressivi o
confusivi, con il sospetto sempre presente di fare molta scena
atmosferica o d'arrangiamento per nascondere inconsistenza
compositiva di fondo. Che in questo caso invece non si può imputare,
ma si sentirebbe il bisogno di qualcosa di più scarno, più
apprezzabile nella sua ossatura portante, con meno panna di
condimento insomma. Si legge nella recensione “gli elementi
sinfonici sono tutti scritti ed eseguiti dal sintetizzatore, ma
suonano realistici ed estremamente professionali, come se fossero
eseguiti da una vera orchestra”: ecco, no.
Il gruppo propone anche,
crediamo, un concept teologico con titolo quali La Grandezza del
Tradimento, Posseduto dalla Salvezza, La malattia della
divinità interiore, ma soprattutto il grande titolo che inneggia
ad una sorta di mistica positivista: “Il futuro del relativismo
carnale” (The future of malicious flesh).
La Giordania non manca di
stupire nel suo rapporto con il metal più datato. Gli Ajdath in
particolare irrompono con quello che a un disattento osservatore può
sembrare solo death, ma che in realtà cerca a ritroso lo stile
difficile e funambolico dello speed-thrash, o thrash-death, quel
genere in cui si picchiava più degli altri e si andava anche più
veloci, ma senza un amalgama così fluida e orchestrale. Parlo degli
Ajdath, per esempio, che arrotano dei riff classici quando non
divengono un po' indistinti in un mixaggio egualitario.
In ambito death
propriamente detto, si conta qualche nome canonico, come i Darkcide,
o i Tyrant Throne, che tentano di dare un nuovo all'amore per la
storia in chiave death: “la riesumazione dei nostri antenati
decomposti” ha prodotto un aumento vertiginoso delle iscrizioni
alla facoltà di Archeologia dell'Università di Amman.
I Soulbleed cianciano di
cellule geneticamente depravate e cromosomi corrotti, mentre
scorrono sul fondo immagini di malattie. Una bella teoria del
complotto genetico-farmaceutico si profila quindi mentre, sul piano
musicale, si apprezza un gusto del brano death dall'incedere
“cingolato”, pacatamente tritaossa, nello stile dei Bolt Thrower.
Chiuderei con una
minaccia, i Symphovania. Seppur ancora in erba sul piano della
produzione, ci ricordano come in termini di metal melodico l'Arabia
possa davvero far male. L'asse Marocco-Svezia è il confine
Occidentale di un senso della melodia che verso oriente trova uno
spazio vitale virtualmente infinito.
Diciamo quindi che ancora una volta le accuse al metal rappresentano l'espressione di una sostanziale ignoranza musicale, in cui probabilmente non c'è capacità di distinguere tra i sottogeneri, né di accorgersi che in certa misura il metal diviene veicolo artistico per celebrare tradizioni, appartenenza e amor di patria. Per quanto riguarda l'esterofilia, più che di longitudine è questione di latitudine, più di Scandinavia che di USA.
Diciamo quindi che ancora una volta le accuse al metal rappresentano l'espressione di una sostanziale ignoranza musicale, in cui probabilmente non c'è capacità di distinguere tra i sottogeneri, né di accorgersi che in certa misura il metal diviene veicolo artistico per celebrare tradizioni, appartenenza e amor di patria. Per quanto riguarda l'esterofilia, più che di longitudine è questione di latitudine, più di Scandinavia che di USA.
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