"Parlare di Musica è come ballare di architettura" Frank Zappa

3 mar 2019

DIECI ALBUM METAL (+ UNO) DA PORTARE SULL'ISOLA DESERTA...


Post numero 1000!

E tanto per aggiungere gloria alla gloria, il nostro millesimo post ricade proprio in occasione del quarto compleanno di Metal Mirror, che vide la luce il 3 marzo 2015.

Novecentonovantanove post dopo, eccoci ancora qua a parlare di metal. Considerato il traguardo raggiunto, potremmo anche concederci pompose auto-celebrazioni, ma invece decidiamo di celebrare ancora una volta lui: il Metal. E lo facciamo con una lista di dieci titoli (più uno) che ci piacerebbe portare sulla famigerata isola deserta.


Ma cosa rappresenta veramente l’isola deserta? E che caratteristiche devono avere i dieci album che dovremmo portarci dietro? 

Cioè, sono semplicemente i nostri preferiti, quelli a cui siamo più intimamente legati, quelli che più di tutti ci rappresentano? Oppure, più semplicemente, dieci capolavori da approfondire nel silenzio, nella pace, nell’intimità di un’isola deserta intesa come luogo per eccellenza lontano dal caos e dai pensieri, dalle afflizioni che ci logorano nella quotidianità? 

Scordatevi anzitutto palme, noci di cocco e spiagge caraibiche: per noi l’isola deserta è un luogo di fine vita in cui trascorrere il lento crepuscolo della nostra esistenza. L’immagine che abbiamo in mente è quella de “L’isola dei morti” di Arnold Böcklin, ma, se la cosa vi inquieta, diciamo semplicemente che quest’isola è solo un luogo metafisico dove poter ascoltare buona musica con calma. E gli album da noi selezionati non sono i migliori di sempre del metal (per questo non ci imbatteremo in un “Master of Puppets”, “Reign in Blood” o “Rust in Peace”). La nostra è stata semmai una scelta d’istinto: album che abbiamo voglia di ascoltare spesso, che con il trascorrere degli anni sono sopravvissuti nel nostro cuore oltre le increspature delle mode e dei personali innamoramenti. Vediamoli dunque...

Arcturus: “The Sham Mirrors”
Non ce la sentivamo di stare in una isola deserta ascoltando black metal: magari ci mette di cattivo umore e farsela pigliare bene, lontani da tutto, diventa poi difficile. Ma noialtri che ci siamo formati musicalmente mentre nell’Inner Circle le chiese bruciavano, le cervella saltavano e le stilettate fioccavano, non ce la sentivamo di voltare le spalle a tutto quel mondo artistico (e non solo). Per questo in valigia abbiamo messo un pezzetto di Norvegia: la batteria di Hellhammer, la voce di Garm, persino il grido da gallinaccio strozzato di Ihshan degli Emperor (che, in qualità di ospite, presta la sua ugola strinata in un brano). Chissà, forse gli Arcturus del loro album meno eclatante, ma così pieno di soluzioni e passaggi vincenti che non ci stanca veramente mai!

Ayreon: “The Human Equation
Tempo, tempo, pace, silenzio ed ancora tempo: la situazione ideale per sdraiarsi, inforcare un paio di cuffie e, ad occhi chiusi, non perdersi un singolo dettaglio di questo bellissimo doppio-album, animato da una storia avvincente ed un mosaico di suoni che riserva, ad ogni ascolto, nuove sfumature. Con Lucassen ci si sente meno soli, non fosse altro che per la moltitudine di ospiti (incluso Eric Clayton, qualora vi mancassero i Saviour Machine...) con cui ci circonda ogni volta.

Blind Guardian: “Nightfall in Middle-Earth
Forse in questa isola ci sarà anche qualche vista suggestiva che ispiri in noi voglia di saghe fantastiche. Una fuga nella fuga sulle ali della fantasia, con la raucedine di Hansi Kursh a portarci nei mondi leggendari tratteggiati dalla penna di J. R. R. Tolkien.

Death: “The Sound of Perseverance”
Perché non si può fare a meno di Chuck Schuldiner! Si è detto che abbiamo riempito la valigia in fretta e furia mossi dal sentimento del momento, ma ci vogliono anche dei punti fermi. E Chuck Schuldiner, con la sua voce digrignante, i suoi versi taglienti, i suoi virtuosismi di chitarra e la sua scrittura sempre ispirata, lo è indubbiamente. E poi, come non sentirsi emotivamente affini? Ahimè, anche Chuck era nella sua “isola deserta” mentre scriveva le pagine di questo suo sofferto diario, e la sua presenza diviene niente meno che un imperativo categorico per tutti noi.

Dream Theater: “Awake”
Scegliamo all'ultimo minuto Petrucci & soci, preferendoli ai colleghi Fates Warning, che ci mettono un po' di ansia. I Dream Theater, invece, assicurano verve e quantità. Non che in questo loro terzo full-lenght non vi sia qualità (anzi), ma nell’isola deserta c’è rischio di annoiarsi. Ok il mare, il cielo, i gabbiani, ma poi basta: per questo i settantacinque densi minuti di “Awake” aiutano a riempire quel vuoto che ci può assalire, senza però rinunciare a quello slancio intimistico che circostanze del genere richiedono, con la calda voce di James LaBrie ad accarezzarci le tempie e le ultime spennellate di introspezione da parte di Kevin Moore.

Mercyful Fate: “Don't Break the Oath”
Si è detto che non volevamo portarci dietro il black metal per non sovraccaricarci di negatività, ma una secchiata nera da parte della Vecchia Scuola ce la siamo voluta permettere. E poi dai, Zio Diamond non è mai ospite sgradito: anche nei momenti di maggiore sconforto il suo falsetto orripilante è un vero toccasana per lo spirito!

Neurosis: “The Eye of Every Storm”
La furia degli elementi, un sole accecante che ferisce gli occhi all’orizzonte: ci voleva qualcosa di viscerale, apocalittico da ascoltare interamente nudi (in senso più o meno metaforico), a contatto con la natura, cazzo nella sabbia. E nelle chitarre slabbrate del nuovo cantautorato di Steve Von Till e Scott Kelly ritroviamo contatto intimo con la natura, non perdendo la nostra umanità. Scusate se è poco.

Opeth: “Still Life” 
Certo, l’ego di Akerfeldt può essere ingombrante in un posto solitario, ma in fondo gli album degli Opeth ci mettono sempre a nostro agio, soprattutto questo gioiello incastonato fra un passato di efficacia creatività e un raffinato futuro di mestiere. Magie acustiche si alternano a momenti più arcigni ad altri più meditati, coprendo uno spettro ampio di sensazioni, che poi è quello di cui più abbiamo bisogno in un’isola deserta.

Slayer: “South of Heaven”
Perché non si può fare a meno di Araya! Del suo berciare inverecondo, e del tocco di Lombardo, delle galoppate chitarristiche di Hanneman e King: come lasciare a casa tutto questo? E dunque mettiamo in valigia anche gli Slayer, ma lo facciamo con dolcezza, optando per il loro album più orecchiabile, "South of Heaven". Perché  in fondo ci sentiamo assai fragili in queste spiagge e sappiamo quanto possano far male gli Slayer...

Therion: “Gothic Kabbalah”
E poi l’inutilità dei tardi Therionquantità che mette sicurezza, tanti colori e persino un taglio retro che rasserena. Ci si sente a casa con Christofer Johnsson, con le sue opere pacchiane che sanno brillare di una magia tutta loro: una magia che non deriva solo dai testi di taglio occultista, ma da un amore a tutto tondo per l’heavy metal.

Ed in più...

Devin Townsend Project: “Ghost”
Già, perché si parlava di dischi metal e “Ghost” proprio metal non è. “Pazzo Devin” sfodera con questo album il suo lato più dolce e misurato, ma ispirato come sempre, tanto che l’opera avrebbe potuto figurare con onore nella nostra classifica degli album non-metal fatti da artisti metal. E cullati da queste ballate acustiche, sospese fra cantautorato ed ambient, con qualche spruzzo di acqua che si rifrange sugli scogli a fare atmosfera, troviamo finalmente noi stessi in questa cazzo di isola!