Ecchec…me ne accorgo solo ora! 4
anni e mezzo di Blog, 1000 e rotti articoli e non uno straccio di riga per i
Sieges Even!
Chiediamo venia ai lettori e
cerchiamo di correre ai ripari con una delle nostre Retrospettive (altrimenti
dette Guide rapide per chi va di fretta).
Se molti (alcuni?) di voi
conoscono la band bavarese solo come “la ex band dei fratelli Holzwarth”, beh,
sappia che i Nostri sono stati davvero dei grandi, meritando di comparire,
seppur come band “gregaria”, negli annali del Metal.
Non è semplice farne una Retrospettiva perché, nel corso della loro vita (che copre circa un quarto di
secolo) i SE hanno avuto diverse vite, diverse incarnazioni e, soprattutto,
diversi inquadramenti stilistici.
A grandi linee, la loro carriera
può essere suddivisa in tre fasi: la prima va dalla nascita e la pubblicazione
dei primi demo fino alla fuoriuscita dal gruppo del loro deus ex machina, il virtuoso
chitarrista Markus Steffen (1982 – 1991); la seconda copre il periodo 1991-97
in cui la line-up vide l’ingresso di un nuovo cantante e un nuovo chitarrista.
E infine la terza fase è quella più conosciuta, con il rientro in formazione di
Steffen e dell’ottimo Arno Menses
dietro al microfono, tra il 1999 e il 2008, anno in cui la band si sciolse definitivamente.
Se i SE sono inquadrati dalla
critica come band progressive, il che di per sé non è sbagliato, è anche vero
che l’etichetta è molto limitante avendo i Nostri avuto una parabola artistica
che ha toccato diversi stilemi. Cercheremo di darvi una panoramica esaustiva di
una band che non merita di stare nell’oblio. Si parte perciò da…
“Life Cycle”
(1988)
I SE partono col botto. 43’ di
progressive thrash che ricordano da vicino le migliori band del neonato
techno-thrash. Da quello d’oltreoceano (Voivod, Death, Metallica, qualcosa dei
Megadeth), a quello europeo, a partire dai loro conterranei Mekong Delta, ma
senza risultare una sbiadita copia di nessuno dei gruppi succitati.
Paragoni scomodi, ok, ma il quartetto di Markus Steffen li regge alla grande
sfornando un sound massiccio, articolato, a tratti abrasivo e/o obliquo; e
comunque sempre personale.
A intervallare il riffing serrato
di Steffen, sopraggiungono aperture melodiche in arpeggiato, su cui poi si
innestano affilatissimi solos. I fratelli Holzwarth ci danno dentro che è un
piacere, una vera macchina da guerra ritmica, freddamente robotica. L’uno-due
iniziale (“Repression and Resistance” e la title track) sono emblematiche della
proposta dei Nostri ma tutto il disco non mostra cedimenti. A partire dalla
successiva, ritmicamente sostenuta, “Apocalyptic Disposition”, l’apice del
disco per chi scrive.
Ve lo diciamo subito: facilmente
potrà non piacervi la voce di Franz
Herde, molto più pulita e acuta rispetto agli standard del genere. Ed è un
peccato perché il singer a tratti rovina in modo evidente brani che,
altrimenti, sarebbero stati clamorosi (si vedano i vorticosi 12’ di “Straggler
from Atlantis”). Ma ad emergere al di là dei difetti è comunque la qualità dei
riff partoriti dalla penna di Steffen che si dimostra una fonte inesauribile di
frasi musicali azzeccatissime. Tanto che si ha la sensazione che "Life Cycle". avrebbe anche
potuto essere un disco strumentale: la resa sarebbe stata la stessa (se non
superiore, come dimostrano i 5’ senza cantato di “The Roads to Iliad”).
Insomma, un album notevolissimo
per essere un disco d’esordio, sicuramente “ostico” e di difficile
assimilazione immediata; tarato dalla voce di Herde (troppo fuori contesto) e
da una freddezza del sound dovuta principalmente ad uno sbilanciamento della
tecnica nei confronti del “cuore”. Ma, sia ben chiaro, siamo decisamente sopra
la media…
Voto: 7+
Che il medium del thrash andasse
decisamente stretto ai Nostri era ben chiaro, come dimostrerà il successivo…
“Steps” (1990)
Mantenendo la stessa line-up, i SE si ripropongono sul mercato due anni dopo. Che il “tiro” sia
spostato verso l’alto lo dimostra l’opener “Tangerine Windows of Solace”: una
suite divisa in 7 movimenti della durata di oltre 26’. Il sound, lo si evince immediatamente, è cambiato: gli stilemi thrash sono ridotti all’osso e il
songwriting di Steffen si sposta decisamente verso un elegante prog tecnico,
con forti influenze jazzy. Le parti arpeggiate predominano, il sound è
tendenzialmente arioso e rilassato, solo a tratti interrotto da sferzate
thrashy. Anche la prestazione vocale di Herde si adegua rimanendo maggiormente “sotto
le righe”, ma, ahiloro, ugualmente “stonata” rispetto al contesto. La suite è molto
ambiziosa e alquanto ardua da seguire, tanti sono gli umori, le ritmiche e gli
“ambienti” creati. Quando gli ultimi secondi si chiudono con soavi note di
violino…si rimane piuttosto spiazzati e interdetti. I SE dimostrano di sapere
fare di meglio in tempi più stretti, come dimostra l’ottima title track successiva:
4’ in cui, riprendendo le caratteristiche dei precedenti 26’, si va dritti al
sodo, con eleganza e classe. Idem per l’ottima “An Act of Acquiescence”. Nota
di merito a parte per la conclusiva “Anthem Chapter”, divisa i due sezioni in
cui i Nostri giocano con la musica classica, tra un pianoforte pulito e punteggiature
di chitarra, fino allo “scoppio” vero e proprio del brano.
Non sempre si riesce a mantenere
il fuoco della canzone (“Corridors”), non evitando l’”effetto dispersione”. Ma
nel complesso l’album regge, lasciando intravedere enormi potenzialità,
soprattutto grazie alla qualità tecnica dei suoi componenti (i fratelli
Holzwarth sempre mostruosi) e alle numerose idee che vengono gettate come semi
in un terreno ancora non perfettamente arato e pronto ad accoglierli…insomma, i
passi sono stati fatti. In avanti anche se ancora con qualche fisiologico
dietrofront (e soprattutto una certezza: bisogna cacciare Herde dalla band!).
Nota
di merito per la splendida copertina “escheriana”.
Album di transizione…
Voto: 6/7
“A Sense
of Change” (1991)
Con ASoC si corre ai ripari: via
Herde e dentro Jogi Kaiser, cantante
validissimo seppur non eccelso. Il resto della line up rimane uguale. La “prova
del 9 del terzo album” non tradisce, seppur con qualche riserva: il sound è una
naturale evoluzione di “Steps” e quindi: via i residuati thrash e spazio totale alla
vena progressive di Steffen. Il risultato è un album delicato, ispirato,
armonioso. Ma non semplice. Continui cambi di ritmo e di umori, tempi dispari,
inserti jazzati, destrutturazione totale della forma-canzone. E rimandi ai
mostri sacri del Prog settantiano, in primis i Rush. A questo si aggiungano
sperimenti particolari, come l’orchestrale “Change of seasons” o gli 8’
abbondanti di “Dimensions”, in cui Kaiser (buona la sua prova) si lancia in
vocalizzi al limite dello yodel, tra stop&go, parti acustiche e tanto,
tanto altro. Le coordinate musicali rimangono quelle di un rock onnivoro che
non sfocia più nel metal degli esordi. E anzi guarda più alla tradizione
hard-rock. Quello che manca è forse una messa a fuoco che dia coerenza e
coesione al prodotto finale (una song come “Prime”, ad esempio, è totalmente spiazzante, ma
non è la sola).
Insomma, evoluzione e transizione
assieme. Nel segno di idee valide e qualità di scrittura. Promossi ancora ma
con la netta sensazione che siamo lontani dalla creazione del loro vero
capolavoro…
Voto: 7
A cura di Morningrise
(continua...)