Il c.d. “Beauty and the Beast”: in principio
furono i norvegesi. Theatre of Tragedy, Trail of Tears, Tristania, gli ottimi e
poco conosciuti The Sins of Thy Beloved (ve ne consiglio il riuscitissimo “Lake
of sorrow” del ‘98). Me li sparavo tutti a bomba.
In contemporanea, o poco dopo gli
scandinavi, arrivarono in massa gli olandesi: “Enter” dei Within Temptation e
“By time alone” degli Orphanage, entrambi rilasciati dall’etichetta DSFA, li
consumai, letteralmente. E poi gli After Forever. E dai fuoriusciti di quest'ultimi, loro, i più famosi e di maggior successo: gli Epica.
Una cosa in comune, tutti questi
gruppi, norvegesi e olandesi l’avevano: e cioè la tipologia di growling dei loro
singer, delle loro beasts. Profondo, gutturale, monotono. Alla lunga davvero tritacoglioni.
E infatti i più avveduti, a partire proprio da Theatre of Tragedy e Within Temptation, se ne accorsero e
lasciarono, dopo poco tempo dai loro originali debuts, il microfono totalmente in mano alle dolci fanciulle. Scelta lungimirante, sia artisticamente che commercialmente.
Ma gli Epica (così come, ad
esempio, i nostrani Lacuna Coil) no: affianco alla fenomenale Simone Simons
hanno mantenuto alla voce, seppur su quote contenute, anche il buon Mark Jansen
(del resto la band l’ha creata lui…). Andando nello specifico: in queste settimane sto ascoltando a
manetta “The holographic principle”, ultima fatica della band del 2016. Ed è un
album davvero validissimo: ben suonato, ben prodotto, con un packaging
accattivante, ispirato nelle melodie e nelle soluzioni di scrittura. E che,
cosa fondamentale, cresce con il susseguirsi degli ascolti, senza stancare. Ma,
affianco all’eccellente prova della Simons e delle coriste che l’accompagnano
(tra cui la magica Marcela Bovio), si inseriscono quei cazzo di grunts di
Jansen che ci stanno come i cavoli a merenda. Non aggiungono nulla al sound,
non servono a sottolineare passaggi particolarmente violenti dei brani, visto che per quelli ci pensano già le iper-groovose chitarre (djent?) e la batteria lanciata a pale di elicottero, elementi ormai standard delle produzioni metal degli ultimi tre
lustri.
Insomma, Jansen riesce, come una fastidiosa zanzara che ti ronza
attorno proprio mentre magari sei al cinema a goderti un bel film, a insinuartisi nelle meningi mentre ti stai godendo le ottime songs che compongono "The holographic principle", album
che comunque ci sentiamo di consigliare caldamente a tutti gli amanti del
symphonic-gothic. Etichetta che, detto per inciso e buon per loro, sta stretta
ai Nostri che dimostrano di saper incorporare, nella base appunto symph-goth, gli elementi più
svariati: dal death al power; dal prog al folk (ed altro ancora).
Insomma, nel 2020 mi sento di
dire che lo stilema del “beauty and the beast” ormai ha fatto ampiamente il suo
tempo. Lo abbiamo introiettato nel nostro background metallaro; ne ricordiamo gli esempi più fulgidi con gioia e un pizzico di commozione per aver
accompagnato la nostra gioventù; ma adesso, in vecchiaia (musicalmente
parlando…) non fa più per noi. Quindi ben vengano, per il genere in oggetto, le frontwoman sempre più
dotate da Madre Natura e tecnicamente impeccabili, ma i maschietti "growlosi" facciano dell’altro (magari diventando frontman di band in cui il growl ha
ancora il suo significato tecnico-musicale).
Perché il rischio, poi, è quello
di veder nascere ancora oggi, ad oltre 25 anni di distanza dall’uscita di
“Theatre of Tragedy” (e a quasi 30 dai primi timidi esperimenti di female
vocals di Paradise Lost e dei The Gathering pre-Anneke) bands beauty and the
beasts fuori tempo massimo, attirate da fama e successo a-là-Epica, ma senza
averne, ahiloro, la classe…
A cura di Morningrise