"Parlare di Musica è come ballare di architettura" Frank Zappa

23 gen 2020

"THE PHANTOM OF THE OPERA": DA ANDREW LLOYD WEBBER AI NIGHTWISH


Nel tentativo di coprire il più possibile il ventaglio di proposte culturali offerte da Londra, dopo diversi tentennamenti mi sono deciso ad andare a vedere anche un musical: uno solo, uno che valesse per tutti. 

Non mi ha mai attirato il musical e persino quando ero piccolo non potevo sopportare le parti cantate in “Mary Poppins”. Fra tutte le opzioni, “Il Fantasma dell’Opera” mi è sembrata la più passabile: anzitutto è quella più “gotica”, aspetto che va incontro ai miei gusti personali. Poi, avendo in mente qualche trasposizione cinematografica visionata in passato, non avrei incontrato difficoltà nel seguire lo spettacolo in lingua inglese. Infine, “Il Fantasma dell’Opera” è un vero classico e se l’intenzione era di farsi un'idea da vicino di cosa fosse un musical, allora meglio procedere con il più rappresentativo possibile per il genere e togliersi il pensiero senza poi doverci tornare. 

Presentato per la prima volta nel 1986, “The Phantom of the Opera” gode di un successo imperituro che gli ha permesso di presenziare ininterrottamente, serata dopo serata, sold out dopo sold out, nei teatri più prestigiosi del West End londinese come in quelli di Broadway (NYC) fino ai giorni nostri. Non che “popolarità” significhi necessariamente “qualità”, ma essendo per definizione il musical una forma di intrattenimento social-popolare, quale miglior metro di giudizio se non il gradimento del pubblico pagante? 

E poi le musiche sono firmate da quel genio che risponde al nome di Andrew Lloyd Webber, una vera autorità in materia (autore, fra gli altri, di titoli del calibro di "Jesus Christ Superstar" e "Cats"). Non parlerò, tuttavia, dello spettacolo in sé, né dirò se mi è piaciuto o meno, ma vorrei incentrarmi sul brano “The Phantom of the Opera”, che costituisce il tema principale, nonché l’estratto più noto. Anche io lo conoscevo, pur non sapendolo. 

Devo dire che l’irruzione della frase di organo, subito dopo il prologo, con il lampadario gigante che viene issato e fatto dondolare in modo spericolato sulle teste delle prime file del pubblico, è un momento di grande suggestione. Musicalmente parlando, l’impatto è squisitamente pacchiano, quasi da pellicola horror di serie B, con organo funereo, basso incalzante ed accenni ritmici che ricordano proprio i migliori Globlin o il Keith Emerson di “Inferno”. 

Ho trascorso i primi quaranta minuti dello spettacolo a scervellarmi su dove avessi già sentito quel riff. Mi evocava qualche scenario gotico, ma non necessariamente metal. Ho mentalmente passato in rassegna tutte le possibilità plausibili, dagli Emerson, Lake & Palmer ai Van Der Graaf Generator, passando dal Rick Wakeman solista. Alla fine, aiutato dal fatto che quella stessa frase è stata riproposta innumerevoli volte, ci sono arrivato: i Pink Floyd di “Echoes”, anno 1971! Quanto di meno gotico potessi aspettarmi, per questo ci ho messo così tanto a connettere le due cose. 

Appena giunto l’intervallo, subito mi sono fiondato sul telefono e ho avuto la conferma che cercavo: sebbene non vi sia mai stata da parte dei Pink Floyd l’intenzione di fare causa a Webber (forse intimoriti dall'esercito di avvocati al soldo dell'autore inglese), l’associazione fra i due brani è stata colta da molti, incluso Roger Waters, che certo non ha espresso sentimenti concilianti nei confronti dell’operato di Webber. C’è chi minimizza, sostenendo che si tratta semplicemente di una “scala cromatica che sale e scende”, di cui probabilmente esistono esempi sia nella musica popolare che in quella classica. Ma il confronto diretto, ascoltando i due passaggi in stretta successione, è impietoso per il compositore inglese: sono infatti identici! Una coincidenza? In fondo si tratta solo di un passaggio di qualche secondo in una suite di ventitré minuti, e riproposto con il solo organo invece che da un ensemble rock. Ma su quei pochi secondi Webber ci ha costruito il tema portante di uno dei suoi lavori di maggior successo! 

L’idea che si saccheggi il repertorio di una band del calibro dei Pink Floyd (non di un Al Bano o di un Ivan GrazianiMichael Jackson e Phil Collins ne sanno qualcosa…) rende bene l’idea di come, in realtà, musical e rock siano due mondi distanti. Forse, nel suo calcolo, Webber avrà pensato: ma chi mai, di quelli che andranno a vedere il mio musical, si accorgerà di questa somiglianza? Chi di loro riconoscerà quel "polpettone" di quel gruppo di capelloni degli anni settanta? In pratica, come rubare una sequenza di un film di Michelangelo Antonioni di inizio carriera che in pochi hanno visto e metterla in un film di Checco Zalone

Ma questo è folclore, solo un piccolo indizio di cosa può capitare ad uno che conosce un minimo di musica quando si ritrova ad assistere ad un musical. Il fatto è che, al di là di quella frase di organo, anche il brano “The Phantom of the Opera” (peraltro bellissimo - e questo è tutto merito del talento compositivo di Webber, bisogna dargliene atto) non mi suonava completamente nuovo, ricordandomi qualche gruppo di metal sinfonico che sicuramente ne ha fatto una cover e che, in qualche modo, è giunto ai miei orecchi. Anche su questo mi viene incontro il web, che mi segnala, fra le cover più popolari di “The Phantom of the Opera”, quella realizzata dai Nightwish (presente nell’album “Century Child”, del 2002). 

La versione dei finlandesi non si discosta molto dall’originale, eppure suona Nightwish al 100%, tanto che potrebbe essere essa stessa un brano originale della band. Esso aderisce infatti in toto ai cliché stilistici dei Nostri (pomposità orchestrale, romanticismo e melodie tanto epiche quanto struggenti). Si è già detto che non è un male in sé risultare naturali nella riproposizione di un brano altrui. In più, in questo caso, è già un traguardo importante non essere risultati goffi: apprendo infatti, sempre dalla rete, che l’esecuzione del brano non è affatto semplice per i cantanti (è un duetto), a dimostrazione della preparazione tecnica della band, in primis di Tarja Turunen, estremamente a suo agio nelle vesti di una cantante d'opera. 

Il brano, infatti, trova il suo valore aggiunto nella riuscita alternanza fra le voci di Tarja e del bassista Marco Hietala (grezzo ma efficace), laddove sezione ritmica e chitarre appaiono assai didascaliche. Il buon Tuomas Holopainen, alle tastiere, si limita ad azionare il pilota automatico, ma tanto basta per farmi preferire all'originale questa versione, dove la bellezza delle melodie, epurate dai languori di un rock-pop di marca ottantiana, viene valorizzata dal vigore e dalla precisione di una band propriamente metal (e poi, dai!, la nostra Tarja è decisamente meglio, per tecnica ed interpretazione, di una qualsiasi attrice di musical!). 

Con il senno di poi posso affermare di aver avuto fortuna nella scelta di “The Phantom of the Opera” come portale per accedere al mondo dei musical, poiché è quello più dark e sinfonico di tutti, laddove spettacoli più dichiaratamente rock come “Rocky Horror Picture Show” e “Jesus Christ Superstar” sarebbero stati paradossalmente più distanti dalle mie corde. Chissà, se un giorno passerà da queste parti, ci riproverò con “Rock of Ages”, di cui abbiamo anche parlato sul nostro blog, ma sinceramente, per il momento, con i musical mi ritengo soddisfatto.

Del resto ho ancora negli occhi, nelle orecchie e nel cuore, le corografie scomposte e le deflagrazioni drone/black metal di “Sex”, l'ultimo spettacolo dell’artista contemporanea Anne Imhof.

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