"Parlare di Musica è come ballare di architettura" Frank Zappa

9 dic 2020

I MIGLIORI DIECI BRANI DI METAL "MODERNO"


Ci avete coperto di sputi ed insulti perché nella nostra selezione dei migliori dieci brani metal di sempre abbiamo contemplato solo band di impostazione classica, ed allora eccoci qua a farci perdonare con una top-ten nuova di zecca. 

Lo spirito di questa operazione è analogo a quello che ci spinse a scrivere la rassegna de “I dieci album che sconvolsero il Metal”, in risposta a quella su “I dieci migliori album metal di sempre”. Come accadde allora, questa top-ten sarà parimenti dedicata alle specifiche forme di metal che, a partire dalla decade novantiana e il proliferare delle sonorità alternative, avrebbero in qualche modo cambiato per sempre il volto di quel metal "tradizionale" che, coerentemente e senza strappi, si era evoluto dagli anni settanta agli ottanta. 

Un cambio stilistico che ha visto il groove, l’assalto frontale, l’espressione di una certa emotività giovanil-generazionale prendere il sopravvento sui cliché del brano tipico dell’hard rock e del metal ottantiano, caratterizzato da melodie epiche, refrain facilmente memorizzabili e dal ritornello anthemico da cantare in coro tutti assieme. Un cambio di prospettiva che rende più difficile il nostro lavoro di selezione, poiché se la qualità della musica è rimasta elevata, l’idea del brano "iconico" è andata a sbiadirsi. Per questo la nostra ricerca, più che cercare di individuare i migliori brani in assoluto (cosa ovviamente impossibile), ha camminato nella direzione di quelle band emblematiche e di quei loro "successi" che, in qualche modo, potessero più di altri rappresentare l’essenza e gli umori di questa nuova era del metal

Pantera: “Walk” (“Vulgar Display of Power”, 1992) 
Già con il precedente "Cowboys from Hell" i Pantera avevano compiuto un lavoro eccellente, offrendo al mondo un sound fresco ed innovativo che di fatto introduceva gli stilemi cardine del groove metal. E'  tuttavia con "Vulgar Display of Power" che i Nostri avrebbero fatto letteralmente il botto, entrando a gamba tesa nella Storia del Metal. Se un grande merito dei Pantera è stato quello di aver saputo codificare un nuovo linguaggio ed introdurre una inedita attitudine “in your face” nel metal degli anni novanta, è anche doveroso riconoscere che i Nostri, contrariamente a molti loro discepoli, hanno saputo scrivere ottimi brani. "Vulgar Display of Power" ne è ricco, e noi alla fine optiamo per “Walk”, perfetta esemplificazione del Pantera-pensiero: un tostissimo mid-tempo che si fregia di uno dei riff più memorabili che quel genio di Dimebag Darrell abbia saputo sfornare nella sua carriera. Il fratello Vinnie Paul non è da meno e l'impeccabile sezione ritmica, fra ripartenze fulminee e repentini cambi di tempo, farà letteralmente scuola. Dulcis in fundo, l’ugola irriverente di Philip Anselmo, autentico animale da palcoscenico e vero mattatore dei “nuovi Pantera”. Che la nuova era abbia inizio! 

Machine Head: “Davidian” (“Burn My Eyes”, 1994) 
Fra i primi a montare sul carrozzone vincente del groove-metal ci furono senz’altro i Machine Head di Robb Flynn (ex Vio-lence). Pur fortemente debitori della lezione panteriana, i Nostri si distinsero subito per un sound ultra-massiccio che riusciva a superare i maestri sia quanto a potenza che a complessità, con brani mediamente lunghi ed una carica aggressiva che certo guardava in direzione Slayer. “Burn My Eyes” fu il loro insuperato debutto e “Davidian” ne era la degna apertura, perfetto biglietto da visita per presentare al mondo musicisti affiatati ed un front-man carismatico, motore portante del Machine Head sound con la sua isterica chitarra ritmica e la voce rauca che si fermava appena prima del growl. Il primo minuto del brano, con svariati cambi di tempo e la partenza a tappeto della doppia-cassa, è da antologia. Applausi con mani sanguinanti. 

Korn: "Blind" ("Korn", 1994)
Il passo dal groove metal al nu-metal è breve, ed ecco che spuntano fuori i Korn con la loro ricetta inedita a base di groove (tanto groove), riff belli grassi e le contorsioni vocali maniaco-depressive di Jonathan Davis, singer extraordinarie che offre un vasto campionario di lamenti che vanno dal sibilo al growl. I giovani del periodo non resistettero al richiamo di una band che sapeva più di ogni altra rappresentarne il disagio, la rabbia, la disillusione. "Blind" è il primo singolo del primo album e niente sarebbe stato più come prima: i Korn non hanno bisogno del formato canzone per ergere il loro primo inno generazionale, alternando momenti low (fortemente influenzati dal languore delle band grunge, all'epoca imperante) a scoppi improvvisi in cui le chitarre sembrano scippate ai Sepultura, con basso e batteria cazzutissimi a fare da solido tappeto. Protagonista assoluto, inutile dirlo, un Davis bipolare che passa con terrificante disinvoltura da lamenti dimessi alla voce grossa e furiose "rappate", regalandoci di traverso un chorus in crescendo letteralmente da brividi. Rabbia ma anche fragilità: qualcosa nel metal è cambiato...

Sepultura: “Roots Bloody Roots” (“Roots”, 1996) 
I brasiliani già spaccavano il culo alla grande quando i Pantera erano ancora un insipido e sconosciuto gruppicello dedito al glam-metal, e Machine Head e Korn manco esistevano. Tuttavia è innegabile che dopo il successo planetario di “Vulgar Display of Power” il sound dei carioca si sarebbe in un certo senso “panterizzato”: abbandonata la complessità di “Arise”, i Nostri avrebbero optato per un approccio più diretto (e semplificato, avrebbero aggiunto le malelingue), ma senza perdere un grammo della propria identità. Il messaggio anti-establishment si sarebbe rafforzato di pari passo con l'erosione dell'elaborato thrash-death del passato ad opera della componente hardcore, sempre più preponderante. Potremmo pescare un episodio a caso fra “Chaos A.D.” e “Roots” per spiegare la grandezza dei Sepultura: dovendoci accontentare di un solo brano, peschiamo l'emblematica “Roots Bloody Roots”, ove il percorso in direzione groove-metal tocca il suo apice. Sconquassato dai ritmi tribali di Igor Cavalera, vero tratto distintivo dei Nostri, il brano è un imponente mid-tempo che si apre ex abrupto con il ritornello (il mitico (rooooots bloody roooooots) che verrà ripreso spesso alla stregua di un mantra che ti entra in testa e non esce più. Il processo di semplificazione strutturale è al suo acme, ma i Nostri sanno compensare con un bel riff portante, l’urlo imperioso del sempre carismatico Max Cavalera e gli assoli dissonanti di Andreas Kisser, altro marchio di fabbrica di una band che lascerà un segno indelebile nel metal degli anni novanta.   

Neurosis: "Locust Star" ("Through Silver in Blood", 1996)
Accantoniamo un attimo le staffilate del groove-metal e delle sue evoluzioni, e andiamo a vedere un'altra rivoluzione, forse meno vistosa, ma non meno seminale e foriera di importanti sviluppi per il metal: quella del post-hardcore (che poi sarebbe sfociato nel post-metal). I Neurosis sono stati i pionieri, e per certi aspetti gli insuperati interpreti, di questo nuovo approccio che, al brano mordi-e-fuggi, preferiva la concettualizzazione di album complessi ove l'insieme ambiva ad essere qualcosa di più rispetto alle singole parti. Dal loro pregiato repertorio che ha visto l'espansione e il superamento della materia hardcore nelle direzioni più disparate (dalla psichedelia pinkfloydiana all'ambient, dall'industrial-metal alla musica etnica), peschiamo forse quella che potremmo definire la loro hit per eccellenza (supportata persino da un inquietante videoclip): "Locust Star". Essa, in "soli" sei minuti di durata, esprime molte dei topoi della tribù di Oakland: un incipit arpeggiato e scosso da percussioni tribali fa da introduzione ad un corpus sonoro fatto di riff imponenti di matrice sabbathiana e grida terrificanti che suscitano nell'ascoltatore visioni angoscianti. Il devastante finale, poi, con addirittura tre voci che si scontrano, rappresenta uno degli ultimi passaggi propriamente metallici (l'intensità è francamente slayeriana) nell'imprevedibile percorso della band, che successivamente si dimostrerà sempre più interessata ad esplorare i risvolti spirituali della propria visione artistica. L'apocalisse ha trovato la sua ideale colonna sonora. 

Tool: “Stinkfist” (“Aenima”, 1996) 
Con il precedente “Undertow” i Tool si erano già imposti all’attenzione pubblica con videoclip orripilanti ed un metal oscuro difficilmente riconducibile ad altre estrinsecazioni del metallo del periodo (definiti inizialmente post-grunge, finiranno poi nel calderone del neo-progressive). Forse “Stinkfist”, singolo apripista dell'attesissimo secondo full-lenght "Aenima", non è il loro brano migliore, mostrando esso un approccio più diretto del solito, ma di certo mette ben in mostra le peculiarità della band: un basso muscolare a disegnare lo scheletro della canzone, ritmiche metronomiche, chitarre ossessive e la voce alienante, quasi dimessa, di Maynard James Keenan, pronta ad indurirsi nell'energico ritornello. Una formula che sulla carta sembra semplice ma che in realtà è il frutto dell’affiatamento di musicisti tecnicamente superlativi ed una visione artistica terribilmente a fuoco, a supporto di un cappello concettuale che eleva il metal a rappresentazione metaforica di un società in cui la tecnologia ha preso il sopravvento sull’umanità. Fra questi solchi si costruisce un metal inedito che, lungi dall’essere imitato e raggiunto nelle sue altezze, si infiltrerà un po’ ovunque, dal progressive al post metal. 

Rammstein: “Du Hast” (“Sehnsucht”, 1997) 
Dopo un paio di scelte impegnative (e gratificanti dal punto di vista intellettuale), concediamoci una pausa faceta e volgiamo i riflettori al mainstream, in anni in cui il metal pareva vivere profonde spaccature, fra revivalisti della Tradizione e sonorità nu-metal e crossover. Entrati nell’era dei rave-party e passata la sbornia del groove-metal, filone che perse la sua freschezza nel tempo di una scoreggia, si crearono le condizioni ideali per questi tedescozzi autori di un riuscito mix fra metal, darkwave ed elettronica, non scevro da eccessi e pacchianerie assortite. “Du Hast” è certamente il brano più conosciuto della band, la quale non si sarebbe poi più di tanto discostata da quel modello: ritmiche incalzanti ai confini con la techno e riff dal grande impatto, il tutto condito dalla voce sepolcrale di Till Lindemann. Ricetta semplice ma efficace, tanto che tenere il culo fermo rimane impresa impossibile anche per il più scettico dei metallari (e pazienza se il riff spacca-ossa sembra essere scippato ai grandi Ministry di “Just One Fix”…). 

Deftones: “Be Quite and Drive (Far Away)” (“Around the Fur”, 1997) 
Di tutto il movimento nu-metal, i Deftones sono quelli più umani, sinceri, e noi gliene siamo grati. C’è tanto delle nevrosi dell’era grunge nella musica dei quattro di Sacramento, che rispetto a molti loro colleghi ci appaiono meno tendenti al "teatrale", preferendo essi evitare l'enfasi di comportamenti sopra le righe o addirittura pagliacceschi. I Nostri hanno puntato fin da subito sulle emozioni, per questo motivo del loro canzoniere andiamo a scegliere uno degli episodi più struggenti. In "Be Quite and Drive (Far Away)"  i Nostri mettono da parte la loro indole più aggressiva (in gran parte mutuata dall'universo sepulturiano) per dare sfogo al loro lato più romantico, abbandonandosi al flusso emozionale di una chitarra dissonante ed una sezione ritmica che non perde un colpo. In mezzo a questo maelstrom di emozioni, dove ci è dolce naufragare, svetta il canto epico di Chino Moreno, che qua accantona la voce grossa per abbracciare senza remore uno spleen decadente di memoria ottantiana. Irrequietudine e speranze dei giovani di fine anni novanta al top della loro manifestazione metallica!

Slipknot: “Wait and Bleed” (“Slipknot”, 1999) 
Gli Slipknot si presentarono invece come i Korn al cubo, estremizzando la lezione musicale di Davis e soci, sia a livello musicale, con un ensamble allargato a nove membri (comprendente ben tre percussionisti!), che a livello visivo, con maschere e costumi a dir poco grotteschi. Le nevrosi raccontate dai Korn vengono stravolte ed inasprite da un carismatico Corey Taylor, che poteva offrire un ampio range vocale. Tutto è esasperato negli Slipknot, iperbolica rappresentazione di una società malata, schizofrenica, sull’orlo del collasso psichico. E “Wait and Bleed”, senza sfiorare i due minuti e mezzo, racchiude l’intera cifra stilistica della band americana, con voci pulite e sornione che si alternano a feroce growl, fra momenti dal forte appeal radiofonico a sfuriate degne del metal estremo. E’ il nu metal, bellezza! 

System of a Down: "Chop Suey!" ("Toxicity", 2001)
System of a Down, dal canto loro, si sono distinti per l'elevato tasso tecnico dei musicisti e per l'estro del cantante Serj Tankian, una voce più unica che rara, dalla timbrica particolarissima e dalla capacità, quasi disumana, di passare in mezzo secondo da un cristallino pulito al growl. Queste caratteristiche hanno sempre permesso alla band di condensare un cospicuo numero di idee in spazi relativamente ristretti. Per dare una idea di quello che stiamo affermando, la scelta appare scontata nell'indicare "Chop Suey!", singolo di lancio del best-seller "Toxicity". Cosa non succede in questi tre minuti e mezzo: chitarre arpeggiate dal sapore folk, scoppi improvvisi di chitarra, stop-and-go al cardiopalma, blast-beat, persino ronzii di chitarre death metal. Poi, come d'incanto, l'apertura melodica del ritornello, illuminato dalla bella voce di Tankian e dai controcanti del chitarrista Daron Malakian: coinvolgenti ed epiche armonie vocali che tradiscono le origini della band armeno-americana. Qualora vi fosse ancora qualcuno che pensa che il nu-metal sia un genere sempliciotto suonato da musicisti scarsi e con poche idee, egli potrà ricredersi ascoltando queste note.   

E detto questo, ci scusiamo ancora per aver escluso i vostri gruppi preferiti, perché sappiamo che ci direte che ci siamo limitati a passare in rassegna quelle che sono state le hit di maggior successo del metal degli anni novanta ed inizi duemila, magari non considerando validissime realtà di nicchia, o interi generi, come l’industrial metal dei vari Ministry e Godflesh, lo stoner di Kyuss e Sleep, l’alternative metal di Primus, Helmet, Rollins Band, Therapy?, Rage Against the Machine e moltissimi altri. Che dirvi, abbiamo operato con in mente il principiante che volesse assaggiare per la prima volta qualcosa del metal che non fosse classico. E pensiamo, con questi dieci titoli, di averlo invogliato a continuare ad esplorare l’ampio, anzi infinito, mondo del metal...