L’uscita del nuovo album dei Porcupine Tree dopo tredici anni di latitanza discografica è stato indubbiamente un evento. Lo è stato certamente per i fan di Steven Wilson, ma soprattutto per quelli che non lo sono, ossia coloro che innanzi ai lavori solisti del Nostro hanno sempre rimpianto l'operato della band madre. C'è poi da dire che, venutasi ad accrescere la popolarità intorno al nome di Wilson grazie ad una pregevole carriera solista e a mille altri motivi che non stiamo ad elencare, il ritorno dei Porcospini si era ammantato di grandi aspettative a partire dal momento in cui era stato annunciato lo scorso anno, quando oramai nessuno ci sperava più.
Indubbiamente Steven Wilson è un guru, se non IL guru delle sonorità neo-progressive, qualsiasi cosa vogliate intendere con questa etichetta. Nessuno come lui ha spinto per svecchiare quegli stilemi che si sono imposti nei primi anni settanta e che molti pensavano relegati ai fasti di quella gloriosa stagione del rock; nessuno come lui ha sdoganato tali sonorità a fasce più ampie di pubblico, incluso quello del nostro beneamato metal (e l’amicizia con Michael Akerfeldt non è certo casuale). L’uscita di “Closure/Continuation” è dunque un’ottima occasione per ascoltare e (ri)vedere dal vivo i Porcospini, sia per fan di vecchia data come noi che per giovini che si sono approcciati al personaggio solo di recente e che vedevano probabilmente il nome dei Porcupine Tree oramai come una chimera irraggiungibile. Ma al di là della contentezza che procurano la notizia e il fatto in sé, come dobbiamo valutare questo sospirato ultimo parto discografico?
Partiamo subito chiarendo che “Closure/Continuation” è un album da 8: fresco, ispirato, ottimamente suonato, divinamente prodotto. Insomma, niente di meno di quanto ci si potesse aspettare da una gestazione tanto lunga da parte di eccelsi e navigati musicisti come Steven Wilson, Richard Barbieri e Gavin Harrison.
Durante le interviste promozionali Wilson ha più volte evidenziato, mettendosi umilmente alla pari dei suoi compari, che l’album è il frutto dell'alchimia dei tre musicisti: da un lato le sempre gradite svisate elettroniche di Barbieri, dall’altro la verve percussiva dell'instancabile Harrison, con in mezzo il song-writing di Wilson a fare da collante. Che poi, a dire dello stesso musicista inglese, il minore spazio dato alle chitarre (cosa che però non mi risulta più di tanto) è un elemento di cui avrebbero beneficiato Barbieri e i suoi inconfondibili soundscape.
Pare inoltre che i Nostri abbiamo composto e realizzato questi sette brani nel corso degli anni senza avere in testa l’idea di riesumare l’antico monicker, tanto che Wilson ad un certo punto avrebbe avuto la tentazione di inventarsi un altro progetto. Meno male che Harrison l’ha stoppato in tempo dicendogli: no, ferma i lavori, questi sono inequivocabilmente i Porcupine Tree! Maliziosamente ci sarebbe da sospettare che il buon batterista abbia semplicemente pensato: col cazzo che mi metto a giro per il mondo per platee risicate, adesso si sfrutta il nome e si riempiono i palazzetti! Che in effetti non è una cattiva pensata: una volta i Porcupine Tree suonavano in locali di media portata, ma la lontananza da studio e palco può far ben sperare che vi sia là fuori molta gente che abbia voglia di saggiare dal vivo questi nuovi pezzi, magari con qualche vecchio classico (per lo più da “In Absentia” e “Fear of a Blank Planet” - fanno antipaticamente sapere i diretti interessati, che non ne vogliono sapere di scavare troppo nel passato). Ma la domanda è: sono per davvero questi i Porcupine Tree?
Avevamo salutato con gioia il singolo anticipatore “Harridan”, che presentava tutto quello di cui avevamo bisogno: un efficace alternarsi di pieni e vuoti, sfoggio di tecnica e di intelligenza compositiva ed un penetrante sguardo sul presente. Insomma, un ottimo antipasto che toglieva la fame e lasciava un buon sapore in bocca. Ed adesso che abbiamo avuto modo di addentrarci nell’album completo, non possiamo certo dirci delusi. Tutti potranno ritenersi soddisfatti: dall’ascoltatore distratto che potrà giovarsi delle consuete trovate melodiche del trio, a quello più attento che amerà perdersi nei preziosismi che si riveleranno ascolto dopo ascolto.
Quanto tutto questo sia propriamente "Porcupine Tree" va però misurato tenendo conto di una serie di elementi. Anzitutto la musica dei Porcospini oggi non può prescindere dai lavori di Wilson rilasciati negli ultimi dieci anni, e non ci stupiamo se "Closure/Continuation" a tratti ricorda certe cose degli album solisti del Nostro.
Harrison, da parte sua, è un supereroe delle bacchette, ma non ha secondo me il marchio della band impresso sulla fronte: egli è subentrato in un secondo momento, quando la band si era già affermata ed aveva definito il proprio sound. Anzi, i lavori migliori della band secondo me sono usciti prima del suo ingresso in formazione (vabbè dai, "In Absentia" era ancora spettacolare, è quel che è venuto dopo ad essere stato un po' così così). E certo l'ex Chris Maitland non ha lasciato dietro le pelli un cattivo ricordo di sé. Harrison ha semmai impresso una spinta più progressiva alle composizioni della band, che prima era più vicina alla dimensione del rock psichedelico, con tutti i distinguo del mondo. Il suo operato ha inoltre coinciso con la fase di indurimento del suono, che per molti fan della prima ora non è stata una svolta esaltante. Insomma, questo per dire che certo non vi era da aspettarsi un ritorno alle origini, semmai uno sviluppo ulteriore del discorso portato avanti con album come "In Absentia" e "Fear of a Blank Planet", cosa che farà la gioia di tutti coloro che hanno amato la seconda parte della carriera dei Porcospini.
Quanto ai più nostalgici potranno certo trovare grandi soddisfazioni nei sintetizzatori obliqui di Barbieri (quanto ci mancava Barbieri!) mentre piangeranno l'assenza del basso gommoso di Colin Edwin qui egregiamente sostituito dallo stesso Wilson che tuttavia ha un altro stile, più aggressivo e aperto alle note alte. Non che lo storico bassista abbia mai dato un contributo significativo in sede di scrittura ed orientamento stilistico, ma il suo basso era un elemento del suono classico della band che oggi non c'è più. I Porcupine Tree del 2022, in definitiva, sembrano più che altro un progetto a sei mani dove il Porcupine Tree sound emerge ad intermittenza come il frutto dell'incrocio del talento di musicisti dalla grande personalità e dallo stile molto riconoscibile, ma che non sono a mio parere più da considerare una band vera e propria, ma una delle tante possibilità concrete che potevano scaturire da un potenziale di partenza ben più ampio.
Se cambia l'approccio, non cambia però la formula, con i tre che non tentano grandi rivoluzioni e sembrano voler ripartire proprio da quello che sanno fare meglio, ossia miscelare momenti intimi e melodie riuscite (le ballate “Of the New Day” e la stupenda “Dignity”, lunga quasi otto minuti e mezzo) con momenti più graffianti (“Rats Return”, "Herd Culling”), ove ovviamente abbondano passaggi cervellotici in cui si mettono in mostra le competenze tecniche dei musicisti, fra progressioni kingcrimsoniane e chitarre affilate degne degli Opeth. Non manca nulla, nemmeno la inquieta parentesi elettronica (“Walk the Plank”) e l’immancabile suite (la conclusiva “Chimera’s Wreck” con i suoi quasi dieci minuti a fare da ponte fra suggestioni pinkfloydiane ed esaltanti sviluppi strumentali che, da un punto di vista tecnico, non sono francamente alla portata di tutti). Un crossover stilistico che si colloca somewhere fra i Tool e Peter Gabriel, e dove umori sixties & seventies sono ben incastonati in mezzo a pregiati pezzi di modernariato che sembrano pescati dai lavori che hanno visto Wilson dietro il mixer (mi vengono in mente certe cose degli ultimi Anathema, che, detto dal sottoscritto, è un grande complimento).
Non ci stupiamo, anzi, l'esito era quasi scontato: l’album ben suonato e confezionato era nei patti. Anche freschezza e convinzione erano attese, in fondo nessuno ha obbligato i Nostri a tornare, quindi era lecito aspettarsi del buon materiale a spingere il loro ritorno sulle scene. Una impostazione basata sull'intreccio fra tradizione e innovazione (leggasi: buttiamo nel mucchio tutto il bagaglio esperienziale maturato negli ultimi dieci anni) era infine prevedibile dal titolo. Forse un’impresa fin troppo semplice per musicisti di tale caratura, tornati a sguazzare nella propria comfort zone, ma è anche vero che nessuno chiedeva nulla di diverso.
Quello che posso aggiungere io, ma è una mia impressione figlia della storia che mi lega alla band, è che ahimè l’antica
magia sembra essersi quasi del tutto dissolta in un processo creativo in cui il Wilson-uomo (quello che ancora sopravviveva in “Trains” o "Arriving Somewhere but not Here”) sembra esser stato lasciato fuori dallo studio e sostituito dal Wilson-accorto produttore o anche dal Wilson-regista-raffinato intenditore musicale che
si è palesato nei suoi dischi solisti. L'antica magia, che si era
andata a rosicare album dopo album (e che per certi aspetti permaneva a
sprazzi persino nel tanto vituperato e rinnegato “The Incident” - penso ad una "Time Flies") oggi rivive, a mio parere, solamente in qualche sognante intreccio di chitarre e synth
di "Dignity" e in certi passaggi commoventi della emotivamente
pregnante "Chimera's Wreck", non a caso dedicata da Wilson al padre, di
recente scomparso.
Ma quando i Porcupine Tree erano ancora un fenomeno di passaparola, e riuscivano a stregare pubblici diversi senza avere un target definito, la loro musica brillava di un qualcosa di speciale che ancora oggi non riesco bene a descrivere ma che mi è ben chiaro quando riascolto album come "The Sky Moves Sideways", "Signifiy" e soprattutto l'accoppiata "Stupid Dream"/"Lightbulb Sun". Ricordo ancora quella data al Tenax di Firenze, molto tempo fa, in cui la band apriva con "Even Less", durante la cui esecuzione ti sentivi il groppo in gola e trattenevi a stento le lacrime. La gente stava ad occhi chiusi ad ascoltare “Russian on Ice” per la prima volta dal vivo: quelle erano emozioni.
Dannata perfezione!, potremmo esclamare, ma se è vero che si rende oggi palese, nel rock come nel metal, l’esigenza per l'ascoltatore di saper scindere fra album perfettamente eseguiti (un obiettivo fin troppo facile da raggiungere con le odierne tecnologie) ed album emozionanti (di cui abbiamo molto, molto bisogno), questi (ex) ragazzi vanno comunque compresi, perdonati e ringraziati.
Perdonati se si affidano al mestiere (e come pretendere diversamente?) e se ogni tanto gli scappa qualche melodia già sentita o qualche ritornello giù di corda.
Ringraziati per essere portatori nel 2022 di un modo di fare musica coerente con la storia passata del rock: un modus componendi et operandi che oggi sembra fortemente compromesso dalle dinamiche odierne dell'industria discografica e dalla diffusione della musica tramite le piattaforme social, ove la comunicazione mordi-e-fuggi si rivela essere uno spietato mattatoio in cui la libera espressione dei musicisti finisce per soccombere miseramente...