Diciassettesima puntata: Lycus – “Chasms” (2016)
Si usa classificare i Lycus come una funeral doom band, ma gli americani sono portatori di una visione assai peculiare del genere, senz'altro più ampia e che va oltre il genere stesso, per questo la loro collocazione all’interno dello movimento risulta inevitabilmente come una forzatura.
I Nostri vanno lenti, indubbiamente, e sono assolutamente pesanti, anche questo è palese, ma nel loro suono si scontrano mondi diversi: dalla forza d’urto del post-metal ai blast-beat impastati del black metal con tre voci a darsi il cambio fra growl, screaming e ascetici cori. Ma non sono post-metal né tanto meno black metal i Lycus, autori di una magmatica quanto annichilente forma di metal estremo che solo per esclusione definiamo funeral doom.
Si sente il tocco della Relapse che già in tempi non sospetti aveva scommesso (perdendo) sui Disembowelment : era il 1993 ed esattamente venti anni dopo avrebbero esordito i Lycus, che con gli australiani avevano il pallino di mescolare velocità a lentezza esasperante. "Tempest" (2013) con i suoi tre brani spalmati in quaranta minuti di durata si candidava fra le proposte più interessanti in ambito di doom estremo. Nel 2016, sotto la mano accorta della Relapse, ecco dunque che esce l’acclamata opera seconda e ad oggi ultimo lavoro in studio rilasciato dalla band di Oakland. Dove sono finiti? Cosa stanno combinando? Da enfant prodige della nuova frontiera del metal estremo sembrano essere risucchiati proprio da quegli abissi abilmente aperti dalla loro musica…
Un'idea degli umori catturati in "Chasms" la si ha già guardando la copertina, che pare essere la versione infernale de "Lo stagno delle ninfee, armonia verde" di Claude Monet: un paesaggio di una desolazione assoluta ove l'abbandono regna sovrano. Ma vi è da dire che i Nostri, sul fronte compositivo, hanno un approccio costruttivo: costruiscono la desolazione, l'angoscia, il mal de vivre attraverso un suono dinamico, spiazzante, incisivo in molti suoi frangenti nonostante la lunghezza considerevole dei brani. Un suono asfissiante che, con metodologia sadica, viene costruito mattone dopo mattone da musicisti dotati tecnicamente e con grandi ambizioni. Come modus operandi ricordano il pragmatismo spietato degli Evoken, la loro cruda determinazione a generare cinicamente scenari di assoluta devastazione sonora, sebbene i Lycus, rispetto agli Evoken, non disdegnino paesaggi più intimi e suggestivi, ai limiti dello shoegaze.
Chissà, forse incide il fatto che dietro alle pelli siede Trevor Deschryver che aveva suonato anche nei Deafheaven (e più precisamente nell’album di debutto “Roads to Judah”). Il suo drumming vitaminizzato è senz’altro una marcia in più per un ensamble compatto e con le idee chiare: Jackson Heath e Dylan Burton alle chitarre e Bret Tardiff al basso sono in grado di allestire un suono imponente in cui convivono Godflesh, Neurosis, Isis, Anathema, maudlin of the Well: un suono possente, marcio, sfibrato, deragliante che sa mettere insieme brutalità e il respiro di certe soluzioni progressive tipiche delle ultime due band citate sopra. Da menzionare il contributo al violoncello dell'ospite Jackie Perez Gratz, molto di più di un orpello, ma qualitativamente e quantitativamente presente, e perfettamente integrato nel wall of sound generato dalla band.
Solo quattro brani per una durata complessiva tutto sommato contenuta (quarantatré minuti), ma con molte risorse da offrire. Fa il resto la produzione ruvida e vibrante in tipico stile Relapse, un mixaggio che mette in risalto tutti gli strumenti senza troppi complimenti. L’opener “Solar Chamber” (quasi undici minuti) apre le danze all’insegna del caos, con un inizio da infarto fra rutilanti percussioni tribali, distorsioni al vetriolo e chitarre arpeggiate a creare un turbinio di dissonanze. Il ritmo cala subito, si fa fangoso, trascinato, con la voce ascetica (da parte del chitarrista Jackson Heath), quasi da muezzin, a creare un effetto straniante. Il growl raschiante di Trevor Deschryver (che evidentemente ha fiato a sufficienza per colpire violentemente il suo strumento ed offrire al tempo stesso una perfomance impeccabile dietro al microfono) ci riporta in territori più propriamente funeral, sempre screziati da fragorose distorsioni ed un sopraffino gusto per le disarmonie. Quel che segue è una calata disperata in un maelstrom di suoni cacofonici che vedranno raggiungere il proprio climax in una sfuriata black metal che aggredisce in modo aspettato l’ascoltatore.
Con la title-track cambia il passo, chitarre arpeggiate amalgamate al canto dolente del violoncello aprono altri tredici minuti da antologia nei quali accade di tutto, fra momenti di grigia introspezione ed altri di visionaria, titanica brutalità. “Mirage” è il brano più breve del lotto (“solo” sette minuti) ed oserei dire quello più selvaggio, con i consueti impasti di chitarra arpeggiata e riff ottundenti (una costante di tutto il disco), ma incalzato da un drumming irrequieto che, attraverso gli schemi del post-rock, conduce all’estasi definitiva di un altro assalto black metal, il più consistente di tutta l’opera. Concludono il viaggio i dodici minuti di “Obsidian Eyes” che, dopo la ferocia con cui si era congedato il brano precedente, ci riporta in lidi dettati dalla lentezza e dalla melodia sconsolata delle chitarre, altro claudicante ed affannato tour de force chitarristico ove i volteggi del violoncello si rivelano ancora una volta fondamentali nell’economia del suono della band. Siamo innanzi all’episodio più meditativo del platter, da lacrime i minuti finali del brano, con struggenti intrecci di chitarra e le due voci, il growl spossato e languidi cori nel sottofondo, a completare il discorso in scenari che oseremmo definire metafisici.
Sei anni di silenzio sono tanti per una band tanto promettente: ci auguriamo pertanto che il progetto non sia stato accantonato a tempo indeterminato e che i Nostri possano tornare presto in studio ad imbracciare i loro strumenti e donarci un altro splendido saggio della loro arte derelitta.