Al grido, ormai reiterato, di 10 son pochi e 100 son tanti, bissiamo il
Metal Mirror’s Brainstorming dell’anno passato con uno fresco fresco
relativo all’anno appena trascorso. Perché sì, anche il 2024 è stato un anno
ricchissimo di uscite interessanti, tra solide conferme e mezze delusioni,
nuove rivelazioni e inaspettati comeback.
Come l’anno scorso, la nostra Rassegna sarà divisa in tre puntate ma questa volta partiremo da un’analisi, in ordine decrescente, dell’insindacabile classifica del nostro Lost In Moments.
Successivamente ci dedicheremo alle altre uscite divise, sbilanciatamente, in due blocchi: 15 album rilasciati tra gennaio e aprile e altri 15 album usciti tra maggio e dicembre.
Partiamo con il nostro countdown, in stile Cape Canaveral…
10) PALLBEARER – “Mind Burns Alive” (17/05): solo l’ascolto della toccante linea portante dell’iniziale “Where the Light Fades” basterebbe a far comprare a scatola chiusa la nuova opera dei campioni del doom moderno. Ma, a questo giro, i quattro americani decidono di andare oltre. E cioè sconfinare in territori altri, spingere avanti la grammatica del doom traghettandola su lidi, mi si permetta, dal forte piglio "cantautoriale", facendolo copulare col post-rock (da manuale l’alternanza di pieni e vuoti) e con un certo melo-doom che ricorda, ad esempio, i britannici Warning di Patrick Walker (si veda la meravigliosa “Signals”). Composto da brani lunghi ma asciutti, austeri, tesi ma leggiadri nella loro delicatezza, “Mind Burns Alive” conferma la bontà del percorso artistico dei Pallbearer, sempre riconoscibile pur in continua evoluzione. Chapeau!
9) Julie CHRISTMAS – “Ridiculous and Full of Blood” (14/06): per i patiti dei Cult of Luna, come il sottoscritto, la Christmas era “solamente” colei-che-aveva-collaborato-con-i-CoL-in”Mariner”. Ma, approfondendo la sua biografia e discografia, la Nostra, arrivata alla soglia dei 50 anni, è ormai forte di una carriera invidiabile, corollata da progetti riuscitissimi (Battle of Mice, Made Out of Babies) e collaborazioni di prestigio (Mouth of the Architect, i succitati Cult of Luna). Sempre gravitante, a livello di sound, nell’orbita del pianeta (post) neurosisiano, arriva quest’anno al suo terzo full lenght e lo fa condensando un’esperienza ventennale. La sua personalissima voce, a tratti soffusamente sofferente, a tratti quasi fanciullesca e in altri ancora rabbiosamente "raschiosa", si fonde perfettamente con gli umori di un sound che spazia dal post-hardcore al noise, dal post metal allo sludge. Ma, in ogni frangente, ad emergere in modo vivido è una tensione apocalittica, da fine-del-mondo (non a caso uno degli highlight dell’album si titola “End of the World”); una sofferenza tesa, tragica, che ti strappa la pelle e lascia la carne viva esposta alle intemperie. La Christmas (toh, nata proprio il 25 dicembre…), che, con la bocca insanguinata, ci sorride in tralice dalla copertina, si erge con autorevolezza tra i leader mondiali dei "figliocci" neurosisiani. Innegabilmente.
8) THY CATAFALQUE: “XII: A Gyönyörű Álmok Ezután Jönnek”
(15/11): I sogni più belli diventano realtà…questo
è, pressappoco, il titolo dell’ennesima nuova fatica del Maestro Kátai. E già i
primi 30” dell’album ne giustificano il titolo: un giro di chitarra sognante
sul quale si innesta il soave vocalizzo di Martina Hórvath, presto sostituito
dall’altrettanto evocativo cantato di Attila Bakos. E questi due nomi sono solo
alcuni dei guests (in tutto quasi una
trentina!) che sono giunti per l’occasione alla corte di Támas. Ospiti che apportano, con le loro
voci/strumenti, tutte le sfumature che il Nostro ha concepito per il proprio
sound. E così: corni francesi & corni inglesi, sassofoni &
contrabbassi, trombe & tromboni, violini & violoncelli, clarinetti, oud
& bouzouki…ogni tassello sonoro ha il compito di contribuire a creare la
vasta gamma di sezioni da cui è composto il disco (sezioni registrate in 12-dico-12 paesi diversi, compresa
l’Italia!). Sezioni sempre magistralmente amalgamate: quelle più prettamente
classiche/sinfoniche a quelle folk/popolari; quelle maggiormente rock a quelle
elettroniche (a tratti al limite della lounge!). Il tutto, come detto,
intrecciato alla componente metal di base che, state sereni, non manca di
certo. Anzi, in certi passaggi, i TC vanno giù pesante con parti thrash/death
che, rispetto al passato, assumono qui una connotazione ipercompressa di stampo
groove/industrial. Un risultato ancora una volta eccezionale che conferma il
progetto magiaro come tra le “cose” più intelligenti in ambito estremo. Köszönöm,
Tamás!
7) DVNE – “Voidkind” (19/04): dopo il mastodontico “Etemen Ænka” (2021), gli scozzesi Dvne
(ad oggi i migliori eredi dei compianti Isis) tornano con un’ora di sopraffino
sludge/post-metal che li conferma a livelli altissimi. L’incipit di “Summa
Blasphemia”, in tempo-zero ci rimanda
direttamente, col cuore e con la mente, ad una “So We Did” mentre la successiva
“Eleonora” è, semplicemente, una delle migliori cose ascoltate in questi 12
mesi appena trascorsi. Confezionato mirabilmente dalla solita Metal Blade,
l’album ti prende le budella grazie a un sound ricco, stratificato ma non
cervellotico, capace di coinvolgere al primo ascolto. Va detto che la
componente sludge/prog prevale su quella post con chitarre capaci,
simultaneamente, di sprigionare riffoni portanti e, al contempo, intarsiare
arabeschi dal sapore decisamente herbertiano.
Tranquilli, i momenti di riflessione e rarefazione non mancano, spesso
accompagnati da aridi arpeggi sospesi, atti a creare le condizioni per nuove
esplosioni. Se vi sentite orfani degli Isis e le ultime uscite dei Mastodon vi
hanno lasciati un po’ freddini, allora i Dvne sono il gruppo che fa per voi…
6) IHSAHN – “Ihsahn” (16/02): tra le uscite più attese dell’anno,
l’ottavo, omonimo, full lenght di Mr. Tveitan è, per il sottoscritto,
una mezza delusione. Il suo extreme-prog metal si ammanta, qui, di una spinta
orchestralità che avvolge ogni brano della tracklist, tanto che l’album
esce in duplice versione (c’è anche quella strumental-orchestrale). Sarà la
voce da gallina strozzata del Nostro, che comincia a stuccarmi; sarà che i
brani rimangono, seppur molto dinamici e scritti con maestria, piuttosto freddini;
sarà la produzione, tecnicamente perfetta, ma dal taglio, volutamente,
cinematografico…insomma, è un disco che crea distanza con l’ascoltatore sebbene
alcuni squarci (si vedano quelli in “Blood Trails to Love” o “The Distance
Between Us”) riescano a coinvolgere anche emotivamente. Ma non siamo qui certo
a negare che “Ihsahn” sia un disco ‘importante’ perchè è, già dal titolo,
l’album probabilmente che il genio di Telemark sente più suo, il più personale. E
la cui summa si può ben riscontrare nella enorme, conclusiva, “At the Heart of
All Things Broken”. Un’opera che, data la caratura massima dell’artista, non
può essere trascurato. E Metal Mirror non lo trascura…
5) THOU – “Umbilical” (31/05): probabilmente l’album più
estremo ascoltato quest’anno. Un monolite di distorsioni&lificazioni
affossanti che, partendo dalla grammatica sabbathiana, sversa sull’incauto
ascoltatore tonnellate di fango opprimente come nella migliore (o dovremmo dire
peggiore?) tradizione sludge/drone. Le tre chitarre sono una fucina di
riff oscuri, impostati su tempi medi o lenti, mentre la sezione ritmica
(straordinario il lavoro al basso di Mitch Wells e del drumming di Tyler
Coburn) guida il sound in modo articolato e vario. Sul tutto, Bryan Funck bercia dolorose urla di
matrice hard-core. Stranianti e ipnotici, vi ritroverete a rischiacciare il
tasto ‘play’, al termine dei 49’ di questa musica ombelicale…
4) PAYSAGE D’HIVER – “Die Berge” (08/11): sinistri rumori
di vento, fuoco e frane in sottofondo; un’inquietudine che monta fino a quando
il primo, gelido, riff di chitarra, sostenuto pochi secondi dopo dalle tastiere
e da un remoto blast beat, parte, simulando una tempesta di neve che, ci piace
immaginare, avvolga le montagne raffigurate nella scarna copertina. È tornato Mr. Tobias Möckl, in arte Wintherr, ad avvolgerci con i suoi
riff reiterati, burzumiani, tali da farci sprofondare (o meglio dire elevare?)
in un maelström di sensazioni ed emozioni che solo il suo atmospheric BM
ci fa provare. Un sound in cui gli elementi della Natura, ostili e
indifferenti, la fanno da padrona; e la cui malvagità è accresciuta dal rantolo
disarticolato, in sottofondo, del buon Tobias. La proposta dei Paysage
d’Hiver è questa, uguale a se stessa, portata avanti allo sfinimento, con
minuscole, quasi impercettibili (ma percepite!) variazioni sul tema. 7 brani
per 142’ (centoquarantadue!): la loro musica “dura tanto perché deve” (cit.), perché vuole
rappresentare paesaggi e, tramite essi, stati d’animo. Non fatevi spaventare,
quindi, dal cimento necessario per affrontare l’opera. Non solo ne varrà la
pena ma, seppur esausti, ne uscirete purificati…
3) ORANSSI PAZUZU – “Muuntautuja” (11/10): sempre sotto
egida Nuclear Blast, torna il demone arancione finlandese che ci ammorba
orecchie e cervello con quasi tre quarti d’ora di post-black dalle forti
connotazioni psychedelic-industrial/ambient. Obiettivamente, siamo davanti a un
qualcosa di profondamente impattante, come se ci affacciassimo sul bordo di un
nero vuoto cosmico, da cui ci giungono inquietanti voci e stranianti rumori
effettati. E quando i Nostri abbassano i toni (come in “Hautatuuli” o “Ikikäärme”)
è solo per inserire ulteriori effetti inquietanti, al limite del trip hop
(straordinario il lavoro di Ville Lepillhati, in arte Evill) e
poi colpirci ancora più forte. Ci viene quasi da pensare che quest’album sia una sorta di esperimento di destrutturazione ‘a tema’. Con risultati,
peraltro, riuscitissimi!
Solo per gli amanti di
disturbanti dissonanze. Sennò, statene alla larga: ne va della vostra sanità
mentale!
2) ULCERATE – “Cutting the Throat of God” (14/06):
bissare i fasti del precedente “Stare into Death and Be Still” (2020) era impresa
titanica e i campioni neozelandesi, in effetti, non sono riusciti a superarsi
ma, intelligentemente, si sono “limitati” a perfezionare la ricetta vincente
del precedente colosso, rendendo la loro nuova creatura più melodica ed
esplorando nuove soluzioni a livello armonico espandendosi in sezioni più
riflessive. La loro formula, limata ed evolutasi nell’arco di una dozzina
d’anni, è diventata uno standard in ambito estremo che sta facendo proseliti:
un post-death ipertecnico in cui innervare dissonanze e slabbrature sludge,
anche atmosferiche, di neurosisiana memoria. La violenza death è diventata
nelle loro mani, come diceva Lost In Moments, claustrofobia terrorizzante, un
vortice magnetico che ti trascina in un abisso di angoscia e disperazione da
“fine del mondo”. Se le urla belluine di Paul
Kelland non lasciano tregua, è il songwriting di Michael Hoggard e di quel fenomeno di Jamie Saint-Merat
(miglior batterista al mondo di metal estremo e il cui drum working non è mai
mero accompagnamento ma vera struttura e asse portante del sound), a guidare
l’ascoltatore trascinandolo con sé in questo mondo di oscurità afflittiva.
Eleganza al servizio della desolazione!
1) BLOOD INCANTATION – “Absolute Elsewhere” (04/10): e dall’abisso alle stelle! Dopo lo spiazzante esperimento di “Timewave Zero” nel 2022, i quattro cowboy del Colorado erano tornati sulla “retta via”, tracciata col masterpiece “Hidden History of the Human Race” (2019), già con il singolone del settembre 2023, “Luminescent Bridge” che, oltre alla strumentale title track, ripresentava la band in forma smagliante nei quasi 9’ dell’ottima “Obliquity of the Ecliptic”. Ma che riuscissero di lì a sfornare questo “Absolute Elsewhere” era, appena 12 mesi fa, difficilmente preventivabile. 44’ scarsi per due suite divise entrambe in tre movimenti. E durante le quali la componente progressive, dalle tonalità cosmiche che si esplicano grazie all’uso di mellotron, organo e sintetizzatori, esplode in modo preponderante. In quest’opera si va dalla fangosità dei Morbid Angel alla psichedelia pinkfloydiana, passando per l’ambient elettronico dei Tangerine Dream (notevole l’ospitata del leader della band tedesca, Thorsten Qaueschning), assoli di heavy classico da brividi, rallentamenti e accelerazioni sapientemente dosate, in un equilibrio virtuoso, e paradossalmente molto asciutto. Per brevi momenti, in particolare nella prima suite, “The Stargate”, il senso di giustapposizione delle sezioni fa capolino ma è solo un attimo perchè i Nostri riescono subito a riprendere la barra del timone e a condurci con successo nel loro viaggio che è al contempo musicale e concettuale. Un solo rammarico: difficilmente potranno ripetersi a questi livelli! Sperando di sbagliarci, per ora gridiamo, senza tema di smentite, al capolavoro!
To be continued
A cura di Morningrise