Campaign for Musical Destruction. Eccoci di nuovo qua, dopo un anno esatto, all’Electric Brixton a celebrare l’Estremo insieme ai Napalm Death e ai loro amici: un appuntamento annuale a cui oramai non ci sentiamo più di rinunciare per la qualità, l’assortimento e la coerenza della proposta.
Come accaduto l'anno scorso, è il pacchetto nel complesso ad attrarmi: a precedere i padroni di casa avremo nell'ordine Brat, Full of Hell e gli storici Crowbar, tre nomi assai diversi fra loro, con storie diverse e che per giunta conosco molto poco, ma che per motivi altrettanto diversi mi attirano e, soprattutto, mi sembrano perfetti nel condividere lo stesso palco. Un plauso dunque ai Napalm Death (o a chi per loro) che sono riusciti per l'ennesima volta a tirare fuori dal cilindro un ottimo (mini) festival di musica estrema!
Arrivo poco dopo le cinque perché non mi voglio in nessun modo perdere l'opening gig dei Brat. Il locale è ancora semi-vuoto e nella quasi completa oscurità, c'è del punk settantiano in filo-diffusione e devo dire che come accoglienza non è per niente male. Per quello che posso notare - ma era ampiamente prevedibile - il pubblico è per lo più maschile e di una certa età. Mano a mano che passeranno i minuti, tuttavia, il locale si popolerà anche di molti giovinastri, a dimostrazione dello status di assoluta trasversalità intergenerazionale della formazione di Birmingham (doveroso precisare che, come sempre accade all'Electric Brixton applicato al grind, nella mischia infame si dischiude di tanto in tanto una oasi dorata, celestiale oserei dire, in cui si materializzano le femmine più belle del Creato - non si capisce la natura di questo fenomeno miracoloso, accade e basta).
Dopo circa una quarantina di minuti le luci si spengono definitivamente ed ecco che incalza della musica techno. Entrano fra gli applausi dei pochi astanti i Brat, giovanissima realtà grindcore/death metal proveniente da New Orleans (attivi dal 2020 hanno dalla loro un pugno di singoli vincenti, un paio di EP e il full-lenght "Social Grace" dell'anno scorso - una decina di tracce per una ventina di minuti, giusto per far capire la natura della proposta). Per inquadrarli è opportuno puntualizzare che i Nostri si distinguono per almeno tre motivi: 1) hanno una ragazza come cantante; 2) hanno il batterista più grande del mondo (in meri termini di dimensioni corporee); 3) fanno copioso uso di campionamenti della musica pop più becera e zuccherosa. In merito a quest'ultimo punto, non sono esperto in materia, ma ho potuto riconoscere due (ben due) brani di Britney Spears: "...Baby One More Time" e "Toxic".
Il connubio fra pop e metal estremo funziona e mantiene desta l'attenzione. Diversi pezzi vengono introdotti da hit commerciali con una vitaminizzatissima Liz Selfish che si muove a tempo assumendo le pose più divertenti. Va detto che suddetta signorina è il vero valore aggiunto di una band che, sì funziona, ma che non è nemmeno chissà cosa in termini compositivi. Snella e dai lunghi capelli biondi, la cantante si presenta in body attillato con logo truculento e cortissimi pantaloncini aderenti: un look sportivo che supporta alla perfezione i movimenti dinoccolati da ginnasta della minuta ragazza. Più che una cantante, è una performer: va avanti indietro senza posa, sgambetta, sgrana gli occhi, tira fuori la lingua, fa espressioni assurde. Dei brani conosce a memoria ogni singola nota e passaggio ritmico che riesce a ricalcare fedelmente con movimenti del corpo calzanti ed una esilarante mimica facciale. E poco importa se è giù di voce, come da lei stessa preannunciato ad inizio concerto: ci sarà il chitarrista Brenner Moate a dare man forte dietro al microfono e comunque, tanta è la presenza scenica che passano in secondo piano le presunte défaillance vocali (detto in onestà, se non avesse voluto precisare che era giù di voce manco ce ne saremmo accorti, e il growl da scaricatore di porto della fanciulla, quando essa ha cantato, ci è sembrato ok).
E così tutti gli occhi son su di lei, non una bellezza in assoluto, ma una presenza dinamica, magnetica ed anche simpatica. Il set passa in fretta, fra galoppanti up-tempo e vischiosi rallentamenti, con uno stile che ricorda i primissimi Carcass e vecchie leve del grindcore. Il pubblico apprezza, ma forse è ancora troppo presto per mischiarsi nel pogo e i presenti rimarranno assai immobili per tutta la durata del concerto, fatta eccezione per un pazzo esagitato che, dopo essersi fatto il vuoto intorno, ha improvvisato un balletto scoordinatissimo. Secondo l'aurea regola per cui il grind è bello quando dura poco, la mezz'oretta dei Brat ci piace e ci conduce con leggerezza ai Full of Hell.
Dai Full of Hell non so cosa aspettarmi. Cosa prevarrà? L'anima sperimentale o il volto più feroce? A conti fatti, direi il secondo. Sebbene al centro del palco campeggi una bella consolle predisposta per sfornare diavolerie elettroniche assortite, la componente noise/sperimentale scivolerà in secondo piano nel mix dei suoni, schiacciata dalla furia esecutiva della band: una ferocia resa ancora più micidiale da sapienti movimenti di luci rosse che alimentano la sensazione di trovarsi all'interno di un girone infernale.
Dylan Walker, a scapito del visino da bravo ragazzo, sfodera dietro al microfono una prestazione devastante, alternando lancinanti acuti ad un profondo growl mescolati in acrobazie vocali che spesso ricalcano la complessità ritmica dei brani. Il Nostro si divide fra microfono, consolle ed uno strano strumento a fiato che tuttavia non risulterà molto udibile. Un plauso a Dave Bland, responsabile di una prova mostruosa dietro alle pelli, motore primo di una proposta tanto violenta quanto destrutturata, schizofrenica e pieno di cambi di tempo ed ambientazioni (impressiona un breve assolo di batteria al termine di un brano). Bravo ed eclettico anche il nuovo chitarrista Gabe Solomon, entrato in organico nel 2023 e chiamato a sobbarcarsi sulle spalle tutto il lavoro delle chitarre vista l'assenza sul palco dell'ascia storica Spencer Hazard.
La formazione americana mostra grande sicurezza sul palco, forte di una quindicina di anni di attività, ben sei album in studio (ed altrettanti lavori minori) e lo status inattaccabile di nuova promessa del grind. La gente percepisce questa solidità e ripaga con entusiasmo cimentandosi in un pogo sfrenato che, ahimè, i Brat non erano riusciti ad innescare. Veramente una grande realtà, speriamo solo che riescano ad inventarsi qualcosa di nuovo per rimanere sulla cresta dell'onda.
Giungiamo elettrizzati e sudati al momento dei Crowbar, una palata di fango gettata fra le pieghe di una giornata sostanzialmente dedicata alla velocità. Quella che potrebbe essere vista come una nota stonata nel programma, in realtà è un utile diversivo, provvidenziale per cuore e polmoni, ma soprattutto coerente con gli umori della serata in quanto i Nostri non sfigurano affatto nel contesto essendo portatori di un'altra ed ulteriore accezione di musica estrema (ricordiamo che una cosa analoga accadde nella scorsa edizione con l'affossante doom dei Primitive Man).
A questo punto devo tuttavia fare una ammissione: io i Crowbar non li ho mai ascoltati. E quando dico questo, non voglio dire che li ho ascoltati poco e ne conosco i rudimenti di base come tante altre band storiche che non mi hanno mai preso particolarmente. No, non li ho mai ascoltati, e non ho nemmeno avuto voglia di farlo in vista di questo concerto. So giusto che suonano sludge e che Kirk Windstein ha la barba lunga. A dirla tutta, avevo anche sbirciato la loro pagina di wikipedia dove avevo appreso che della formazione storica rimane oggi solo Windstein, ma tenendo conto che canta e suona la chitarra, direi che lui da solo può bastare ed avanzare.
I quattro di Orleans offriranno una fangosissima oretta a base di riff rocciosi, tempi cadenzati, qualche momento più sostenuto di matrice hardcore, il tutto marchiato a fuoco dal latrato corrosivo di Windstein, figura iconica che calamita tutti gli sguardi. Stasera verranno riproposti una decina di pezzi che vanno a ripercorrere, fra alti e bassi, una carriera più che trentennale, con lo spazio maggiore concesso all'omonimo masterpiece del 1993. Non conoscendone il repertorio, l'esibizione mi è parsa un po' la ripetizione dello stesso brano, e gli unici momenti che ricorderò rimarranno "High Rate Extinction", che ha visto la presenza di Shane Embury sul palco, ed una vischiosissima e lenta "Planets Collide", quasi una ballad grungeggiante animata da un ispirato arpeggio ed avvolgenti melodie (logico che per propensione personale il sottoscritto finisca per apprezzare maggiormente il tipo di sludge che si approssima a territori neurosisiani).
Windstein sputa come un lama (non mi sarebbe piaciuto essere nei panni di chi avrebbe dovuto calcare le assi del palco successivamente) e di tanto in tanto si reca nelle retrovie a sorseggiare la sua birra, uniche scorribande in una esibizione fisicamente assai statica. Dall'alto della sua lunga barba, della stazza statuaria e della sua raucedine, il Nostro, solo come presenza, vale due terzi del concerto, ma non mi lascerà il ricordo del grande musicista né tanto meno del grande uomo. Insomma, non sono mai stato fan dei Crowbar e stasera non li rivaluto, ma ciò non toglie che si sia trattato di una esibizione gradevole, apprezzata dal pubblico (con qualcuno che si è anche spinto a fare del crowd-surfing sulle teste a scapito della lentezza delle note) ed un intervallo necessario fra l'inferno scatenato dai Full of Hell (prima) e l'intensità dei sempre ottimi Napalm Death (dopo). In più, un'altra discreta bandierina sul mio curriculum: ridendo e scherzando con oggi mi son visto due pilastri fondamentali dello sludge, Eyehategod (che mi son piaciuti innegabilmente di più) e Crowbar - non male per uno a cui dello sludge non è mai fregato un cazzo!
Passiamo al piatto forte della serata. E’ sempre un piacere assistere ad un concerto dei Napalm Death, ce ne vorrebbe uno ogni fine settimana. Ma soprattutto, e in particolare in questo momento storico, ci si sente a casa con i Napalm Death, terza volta per me in circa un anno e mezzo, e quarta volta nella vita.
Nonostante gli anni passino per tutti, i Nostri esprimono grande cazzutaggine sulle assi (non mi chiedete il loro stato di forma su disco, in questa mia fase della vita non ascolterei un loro album nemmeno se mi puntassero una canna di pistola alla tempia). Dona alla loro vecchiaia questo atteggiamento di radicalizzazione sonora ed attitudinale che guarda alle forme scarne, dirette ed essenziali del punk hardcore primigenio: una sorta di ritorno alle origini che risucchia tutti gli stilemi esplorati in 40 anni di carriera, dall'invenzione del grindcore alle tendenze death metal passando per le sperimentazioni industrial e le intemperanze crust, il tutto divorato, digerito e ruttato in un martellante deragliante frastornante...punk estremizzato. Nonostante gli standard di brutalità si siano nel tempo elevati, a quasi quarant'anni da "Scum" i Napalm Death sono ancora fottutamente estremi.
L'esibizione parte senza fronzoli con un mood apocalittico fatto di dissonanze, battiti marziali ed urla straccia-corde vocali...la pausa di un attimo ed eccoci subito risucchiati nel frullatore impazzito comandato dai soliti musicisti navigati: Shane Embury e il suo basso distorto non hanno certo bisogno di presentazioni mentre Danny Herrera è come al solito impeccabile dietro alle pelli. Un plauso va riconosciuto anche al turnista di lungo corso John Cooke (chiamato da molti anni a sostituire le sei corde di Mitch Harris dal vivo). Menzione a parte va all'irresistibile, immarcescibile ed inaffondabile Mark "Barney" Greenway, voce da orco, movimenti sgraziati e presenza scenica di tutto rispetto. Intanto si presenta in t-shirt e bretelle, e già per questo gli vogliamo bene. Ci sono poi i suoi discorsi di cui non possiamo più fare più a meno, acute arringhe sospese fra impegno, sferzante humour british e la schiettezza che è tipica della working class. Io in particolare attendo sempre il suo primo intervento che di solito avviene dopo un paio di brani. Sono stato accontentato anche questa volta: spiega in modo pacato che dopo tutti questi anni presentare la band sarebbe anche inutile, ma che (pausa, sospirone) per ragioni di etichetta (letteralmente “for purposes of etiquette”) si vede costretto a ricordarci che loro... provenienti direttamente dalla paradisiaca cittadina di Birmingham...sono...i neipal deh...
Quanto alla musica, dico solamente che dopo molti anni (forse decenni) son tornato a pogare, pratica che avevo rimosso dalle mie abitudini concertistiche per via del raggiungimento dell'età adulta: in altre parole, la serietà del padre di famiglia che si unisce all'intralcio fisico dato da un giacchetto che ciondola perennemente dalla tracolla della borsa (no, non mi piacciono i guardaroba) e da un paio di occhiali che possono facilmente scivolare lungo un naso sudato, cadere e frantumarsi sotto gli anfibi degli amici metallari (cosa più volte accaduta in passato). Nonostante questo mio proposito, ho trovato irresistibile il richiamo ad unirmi all'allegro serpente di gentaglia che girava su se stesso nel circle pit, peraltro proprio durante "Amoral", uno dei miei pezzi preferiti della produzione recente (anthemica e bella baldanzosa con il suo groove tellurico à la Killing Joke).
Ma è stata una questione di pochi secondi, anche perché il pogo è tornato presto ad essere ingestibile, attizzato dai soliti cinque o sei facinorosi ed alimentato da molti altri che avevan voglia di zompare (chissà, forse i Crowbar avevano fatto smosciare il cazzo e la gente ha potuto recuperare energie preziose per contundersi gli zigomi). La scena più assurda della serata è stata quella di un tipo dalla stazza enorme con una vistosa maglia o camicia rosa che in qualche modo è riuscito a montare sul palco e che la security non riusciva a tirare giù, nonostante il tizio, in visibile stato di ebbrezza, fosse tutto tranne che molesto. C'è da dire che in ogni frangente hanno prevalso civiltà e rispetto: si è sempre trattato di un poco gioioso con gente spesso abbracciata a cantare festante, chi cadeva veniva prontamente raccattato e se ti capitava di perdere qualcosa (scarpe, giacchetti, telefoni, portafogli ecc.), chi la trovava alzava subito il braccio e la mostrava a tutti al fine di farla tornare nelle mani del proprietario.
Nell'oretta e poco più del concerto sono passati in rassegna più di venti estratti dalla sterminata discografia dei Nostri con un occhio di riguardo agli storici "Scum" e "From Enslavement to Obliteration" (tanto i loro brani occupano poco spazio...). Come al solito crea scompiglio "Suffer the Children" (e a questo punto posso dire di averla ascoltata più volte dal vivo che su disco - e badate bene che ho pure il cd di "Harmony Corruption" io). Il pogo allargato ed incessante ha avuto comunque il pregio di "smuovere continuamente le acque" agevolando i movimenti all'interno del locale, cosicché mi son potuto permettere il lusso di andare a pisciare durante "Necessary Evil", altro momento top.
La più grande impresa della serata da parte del sottoscritto, oltre ad essere riuscito ad andare a pisciare in un tempo tutto sommato ragionevole, è stata quella di aver convinto la barista a servirmi un'ultima birra praticamente a casse chiuse. La più grande cazzata della serata, invece, è stata quella di ritrovarmi con una birra in mano durante "Scum" (potete intuire che fine abbia fatto quella birra).
Chiusura obbligatoria con la doppietta "Nazi Punks Fuck Off" e "Unchallenged Hate". Quanto alla cover dei Dead Kennedys, una considerazione importante: mi sarei aspettato qualche sparata su Trump o qualche freddata sulla situazione internazionale, ma i Nostri non sono sembrati affatto interessati a cavalcare facili proclami. La scena, tuttavia, di Zio Barney che scuote la testa al termine di "Nazi Punks Fuck Off" ripetendo quasi fra sé e sé "never again...never again...", è ben più eloquente di ogni esplicita invettiva contro la deriva destroide a cui stiamo assistendo a livello mondiale.
Che dire, infine: torno a casa rinfrancato, mentalmente e spiritualmente (non certo fisicamente ed uditivamente) e, rispetto alla due-giorni di dungeon synth all'Albion Dungeon Fest del mese scorso, 'sta serata grind m'è parsa davvero una passeggiata...
Campaign for Musical Destruction, ci vediamo il prossimo anno: stessa ora, stesso posto, stessa voglia di frantumarsi i timpani!