"Parlare di Musica è come ballare di architettura" Frank Zappa

17 mag 2015

CONFRONTI IMPOSSIBILI: RICK WAKEMAN E GORGOROTH




 
Cosa potranno mai avere in comune Rick Wakeman e i Gorgoroth? Dico Richard Christopher Wakeman tastierista degli Yes e i Gorgoroth, blackmetaller dalla Norvegia. Niente: geograficamente, storicamente, stilisticamente, concettualmente, iconograficamente assolutamente niente. Sono due entità completamente diverse, appartenenti a mondi distanti, due dimensioni che non comunicano e che non condividono niente. Perché dunque trattarli insieme?

Partiamo dai dati di fatto:
- Rick Wakeman è uno dei più importanti esponenti del progressive rock di tutti i tempi. I Gorgoroth, invece, suonano black metal e ricoprono un ruolo di secondo piano anche nello specifico filone di loro appartenenza.
- Wakeman è inglese, i Gorgoroth norvegesi.
- Wakeman (classe 1949) sforna dischi dal 1970 e ha vissuto il suo periodo di massimo splendore artistico agli inizi della decade settantiana; i Gorgoroth furono fondati da Infernus (classe 1972) nel 1992 e il loro debutto risale al 1994.
- Wakeman è bello, alto e biondo, i Gorgoroth sono brutti e si conciano come dei pagliacci.
- Non so, infine, se Wakeman sia una brava persona, ma so per certo che Infernus ha scontato quattro anni in gattabuia per lo stupro di una tipa abbordata fuori da un locale.

E dunque ripongo la domanda: ma che c'azzeccano “Lunga Chioma Bionda” con i Gorgoroth?

Riavvolgiamo il nastro e ripartiamo da un dato di esperienza. “The Six Wives of Henry VIII” e “Under the Sign of Hell” sono due album che hanno condiviso un destino comune nella mia collezione: dopo anni di polvere, sono inspiegabilmente riemersi qualche giorno fa (e non è solo merito di MM che mi trascina costantemente a riscoprire la mia collezione).

The Six Wives of Henry VIII” (1973) non l'avevo mai ascoltato per intero, cosa assai rara visto che, per quanto un acquisto possa essere intempestivo, anche se non ne ho voglia, un orecchio su un album appena comprato ce lo butto sempre. Come mai, invece, cinque delle Sei Mogli sono invece rimaste illibate fino all'altra sera? Non ricordo con esattezza, ma il cd fu sicuramente comprato fra altri mille in quei famosi acquisti pazzi che si fanno alle fiere dell’usato, magari trovato a poco, individuato a fine giornata, quando oramai non capivo più un cazzo. Posso dunque tranquillamente immaginare la scena al mio ritorno a casa: spasmodica voglia di ascoltare tutto immediatamente, la consueta girandola di assaggi frenetici, nel corso della quale il buon Wakeman deve aver sicuramente avuto partita difficile: quarantacinque secondi al massimo di comporto per capire che avrei riposto l'oggetto sugli scaffali a tempo indeterminato. Non era per me più tempo per leziosità barocche, e Wakeman pagava lo scotto di essere arrivato nella mia vita qualche anno dopo le sbornie a base di King Crimson, Genesis, EL&P, Yes e Van der Graaf Generator.

L’acquisto di “Under the Sign of Hell” (1997), per quanto inutile, è stato invece attentamente valutato. Anch’esso giunto fuori tempo massimo, ossia in anni in cui non ascoltavo più black metal, era stato un acquisto coscientemente calcolato, non figlio di una situazione allucinogena dove tutto era possibile: esso scaturì da una di quelle estenuanti definizioni di ordini online in cui può passare anche un mese per aggiungere un titolo e ne può pacificamente passare un altro per toglierlo. Posso non avere un disco dei Gorgoroth? Mi domandavo con angoscia crescente, fino al momento in cui la sensazione di disagio e di grave mancanza divenne insopportabile e dunque mi vidi costretto a documentarmi sulla discografia della band norvegese, che avevo sempre snobbato. Ma qual è l’album da avere, per Dio? Dopo indicibili calcoli e innumerevoli raffronti fra recensioni e punti di vista diversi, nemmeno si trattasse dell'accordo fra FIOM e Marchionne sul rinnovo contrattuale dell’integrativo aziendale della Fiat, giunsi alla scelta di “Under the Sign of Hell” che mi fece schifo fin da subito e che quindi fu presto archiviato senza possibilità di appello.

Diversa genesi, dunque, ma stesso destino: anni di polvere fino a domenica scorsa.

Con la stessa trascuratezza con cui l'avevo acquistato, l'altro giorno l’ho ripescato. Inserisco dunque “The Six Wives of Henry VIII” nel lettore e…improvvisamente, come per magia, tutto funziona! Come è possibile? Sarà forse che ‘sta roba che oramai mi facevo da tempo propinare di seconda mano da Wilson ed Opeth, cucinata invece da chi l’ha inventata mi pare migliore? L’album è suddiviso in sei tracce (ognuna dedicata ad una moglie del sovrano inglese) ed è per lo più strumentale (salvo qualche vocalizzo o coro qua e là) ed ovviamente incentrato sulle tastiere del virtuoso musicista (sebbene alle spalle del biondo vi siano fior di musicisti a supportarlo). Ma a parte questo, the story remains the same (organacci a canne, fughe à-la-Bach, piano classicheggiante, sintetizzatori svirgolanti, le solite ottanta tastiere di Wakeman), e vien da chiedersi: “Ma perché certa gente intraprende una carriera solista per riproporre le stesse cose che fa con la band madre?” Sai, mi dici: “Wakeman si mette a fare ambient, o country”, posso anche capire. Vuoi mettere, del resto, la soddisfazione di non avere per una volta fra i coglioni Jon Anderson e Steve Howe, tutto il tempo a battibeccare per un cambio di tempo, che alla fine la sala prova sembra un camerino di una sfilata di Prada? E quindi fuga dai colleghi, più che vera voglia di cambiare. Ma al di là di questo senso di liberazione, che ovviamente giova alla resa finale del prodotto, l’ascolto per me rimane un alternarsi compulsivo di sensazioni contrastanti, fra momenti in cui mi dico “che bellezza! Che grandezza!”, ed altri in cui capisco il motivo per cui quella concezione di prog è stato spazzato via dalla faccia della terra per mezzo delle due famose note di Ramones e Sex Pistols (salvo poi essere riesumato in tempo recenti).

Wakeman quindi perde: perché nel 1973, non è più tempo di fate e regine. I King Crismon, per esempio, in quell’anno guardano già all’elettricità, al noise ed alle dissonanze con un album rivoluzionario come “Larks Tongues in Aspic”; Peter Hammill, dal canto suo, già da anni era un poeta esistenzialista che con dischi visionari come “Pawn Hearts” guardava abbondantemente oltre foreste ed elfi. In definitiva, una certa concezione di prog si stava avviando verso la via del tramonto: presto sarebbe arrivato il punk a ramazzare via tutto e proprio gli Yes di Wakeman son da sempre il simbolo del “vecchio” da “rottamare”.  

L'ascolto di “Under the Sign of Hell” non è stato egualmente fulminante, ma l’album ha guadagnato punti con gli ascolti successivi. Appena digitato play, la stessa sensazione di merda che mi ricordavo mi si ripropone pari pari. Se penso ai Gorgoroth penso alla serie B. Sorta di scialba copia dei Darkthrone (sebbene nel tempo si sapranno costruire un percorso più personale finendo per scollinare in territori industriali), ripropongono una concezione di black metal oramai fuori tempo massimo (siamo nel 1997). I Gorgoroth, più che altro perdono perché sono degli scarsi, perché chi viene dopo non può più peccare di ingenuità. Grim è uno dei batteristi più incompetenti della scena, non tanto perché non pienamente padrone del suo strumento, ma perché generalmente non capisce come debba andare un pezzo, grossa pecca per un batterista. Il povero e putrefatto Pest, che è di scuola Attila Csihar (ma al geniale cantante dei Mayhem non gli lega le scarpe) ce la mette tutta, strilla come una cornacchia con le emorroidi, a tratti infastidisce con dei super acuti, fa sorridere quando si cimenta con la voce pulita, e nonostante ce la metta tutta, a fare lo sgraziato finisce per essere un disgraziato. Infernus, infine, pur copiando, se la cava abbastanza bene fra arpeggi marci e qualche riff più agguerrito, ma rimane artista di terzo piano rispetto ai colleghi, connazionali e non.

La produzione non è buona (più che altro è insopportabile il suono del set di pentol…ehm, della batteria, che copre tutto il resto); i brani, in definitiva, sono brevi ed inconsistenti. Eppure, come dicevo all’inizio, c’è un qualcosa che rimane dopo gli ascolti. E’ un black metal battagliero, di buona volontà, sufficientemente vario (fra sfuriate, mid-tempo, pause atmosferiche), confezionato da ragionieri diplomati con il minimo dei voti, ma che alla fine, con un po’ di fatica in più, ti fanno comunque quadrare i conti. E terminati i trentadue minuti di musica, se sei ben disposto e comprensivo, ti rimane la voglia di premere play nuovamente. 

Ok, tutto chiaro, promossi ed al tempo stesso bocciati anche i Gorgoroth, ma che c’azzeccano infine con Rick Wakeman? Difficile da spiegare. Il legame che li unisce è quello spazio invisibile in cui ebbi modo di trovarmi nel 1999 quando uscirono praticamente in contemporanea “Metropolis Pt. 2: Scenes from a Memory” dei Dream Theater e “Ravishing Grimness” dei Darkthrone: avendo i soldi sufficienti per un solo cd, mi trovai incredibilmente paralizzato, non sapendo se acquistare l’uno o l’altro. L’album del riscatto, il decantato ritorno in pompa magna dei DT ai fasti di “Images and Words”, con l’amato Jordan Rudess alle tastiere, dopo la delusione di “Falling Infinity” e l’esaltante esperienza con i “Liquid Tension” con Rudess, appunto, contro l’ultimo albumaccio di Fenriz e Nocturno Culto, confezionato in fretta e furia e pure poco ispirato (nonché un bel passo indietro a livello stilistico rispetto alle prove precedenti). Non proprio la stessa cosa (lo stesso negoziante non capiva dove fosse l’imbarazzo della scelta, o meglio, come si potesse avere l’imbarazzo della scelta fra due opere così diverse), eppure mi trovai in un punto equidistante dai due poli, e correre verso l’uno o verso l’altro mi sembrava impossibile. Sono istanti che si fissano e cristallizzano interi mondi altrimenti in precario equilibrio fra di loro. E’ la soggettività del singolo che unisce questi universi, e per quanto razionalmente impossibile da spiegare, si sente che è così, che ciò è possibile, non nella nostra realtà, ma in una sorta di “quarta dimensione”, percepita dal terzo orecchio, un luogo che deve ancora esistere.

Mi spiego meglio: per chi ascolta diversi generi musicali (ma anche per chi ha un’ampia apertura mentale all’interno del solo metal) ci sono dei momenti in cui si ha bisogno di un qualcosa che non è stato inventato, una formula, uno stile. Gli In Flames, ad esempio, e non solo loro, seppero costruire una carriera dall'idea di unire death metal ed Iron Maiden. Ma ci sono dei punti di intersezione più difficili da definire. Prendete i Mars Volta di “De-loused in the Comatorium”: apprendevo attraverso le recensioni di questa miracolosa commistione fra Pink Floyd e Rage Against the Machine, e dentro di me dicevo: ma che cazzata, è impossibile! Poi ascoltai l’album e in effetti dovetti constatare che quella definizione non era poi del tutto fuori luogo: non si capisce come, ma i Mars Volta c’erano riusciti. Finché però qualcuno non ci riesce, certe imprese sembrano impossibili.

Vi sarà dunque qualcuno che saprà un giorno unire Wakeman e Gorgoroth? E non intendo, con questa intersezione, un black metal sinfonico dalle tinte progressive (che già esiste per mano di Emperor, Arcturus, Dimmu Borgir, Cradle of Filth ecc.). Intendo qualcuno che sappia coniugare pregi e difetti del solo Wakeman (barocco, accademico, pomposo, stucchevole, ma anche geniale e dotato di classe sopraffina) e dei Gorgoroth nella loro visione limitata del black metal (ruvidi, sconclusionati, beceri, ma nella semplicità efficaci). Forse si avvicinano gli Angizia, ma nemmeno loro (troppo “cameratistici”, e troppo poco black, troppo poco progressivi) incarnano tutte queste opposte sensazioni, di nobile e proletario insieme: una sorta di pomposa orchestra prog sporcata continuamente da riff in tremolo, qualcosa di sontuoso e raffinato, ma al tempo stesso animato da trovate semplici e di basso livello. Forse un domani esisterà un qualcosa del genere, ma ad oggi non mi resta che alternare gli ascolti dei due album.

Riflettiamo su quante volte i nostri ascolti non sono altro che frammenti di un insieme che non esiste e che forse non esisterà mai: il nostro album perfetto, quello che inseguiamo accostando le metà più inconciliabili, in un equilibrio irrisolto che poi è la nostra Vita.