"Parlare di Musica è come ballare di architettura" Frank Zappa

17 set 2015

WOLVES IN THE THRONE ROOM: VERSO L'IGNOTO SPAZIO PROFONDO...




I MIGLIORI DIECI ALBUM NON-METAL FATTI DA BAND/ARTISTI METAL

7° CLASSIFICATO: “CELESTITE”


Dall’elettronica danzereccia di Mortiis a quella meditativa dei blackster Wolves in the Throne Room: continua così la nostra analisi volta a sondare quella strana dimensione-non-metal originata e sviluppatasi in seno al metal stesso. 

L’ambient non è una novità in Casa Metal: già negli album di Burzum si trovavano esperimenti orientati in tal senso. Brani come “Tomhet” (da “Hvis Lyset Tar Oss”, 1994, tanto per fare un esempio) si presentavano come lunghe meditazioni a base di soli sintetizzatori, in cui il buon Conte, con poche-ma-azzeccate note, era in grado di dipingere suggestivi paesaggi invernali (e dell’anima) dominati da una natura incontaminata e pervasi da atavici umori. Senza questi esperimenti (o quelli compiuti nel medesimo periodo dallo stesso Mortiis, in chiave medievaleggiante, o dagli Abruptum, in ottica noise), forse questa dimensione non sarebbe stata coltivata dal metal estremo. Per quanto coraggiosi, sono stati però tentativi goffi, penalizzati dalla scarsa preparazione tecnica di musicisti nuovi alla causa ambientale e peraltro privi di una consona sensibilità nell’approcciarsi alla materia. Della serie: per fare ambient, cari amici metallari, non basta disporre di una tastierino e ripetere le solite tre note per venti minuti.


Anche i fratelli Aaron e Nathan Weaver, titolari della premiata ditta Wolves in the Throne Room, si sono cimentati nell’impresa. Ma, come già ampiamente dimostrato nel corso della loro superlativa produzione discografica, essi sono artisti troppo intelligenti per incappare nelle trame vischiose di un’operazione ambiziosa gestita in modo banale ed approssimativo.

Riassunto delle puntate precedenti: la band esordiva nel 2006 con “Diadem of 12 Stars” e niente fu più come prima. Da quel momento s’iniziò a parlare nuovamente di black metal così come era stato disegnato dalle band scandinave nel corso degli anni novanta. Dopo i fasti di quella decade il genere infatti scomparve per un certo periodo: non perché le sue potenzialità si fossero esaurite, ma perché i tempi non erano ancora maturi per esplorarle sino in fondo. Ci volle l’esplosione dei movimenti post-hardcore e post-metal per aiutare il black metal a riemergere dal suo stato di ibernazione.

Se i cugini Agalloch agivano in continuità con il recente passato, costituendo lo step ulteriore di un percorso che era stato avviato da artisti illuminati quali Katatonia, Opeth ed Ulver (un’evoluzione che  traghettava l’elemento estremo verso lidi progressivi, psichedelici e post-rock), i WITTR costituivano un elemento di rottura, perché di colpo riprendevano il discorso laddove l’avevano interrotto Darkthrone, Emperor e (il tanto vituperato) Burzum. Il loro era un black metal ferale, veloce, ruvido, senza tante seghe, eppure in qualche modo era diverso: tornava ad essere musica sincera, istintuale, sinceramente misantropica, di una misantropia che non è solo una facciata, ma coltivata (in tutti i sensi) in una fattoria sperduta fra le montagne della Cascadia, in Nord America.

Two Hunters” (2007), “Black Cascade” (2009), “Celestial Lineage” (2011) costituirono una trilogia tanto bella ed impegnativa da prosciugare quasi totalmente le riserve di energie dei due fratelli, che quasi decisero di sciogliere la banda. Ma come spesso capita, le opere imponenti si lasciano dietro uno strascico che in qualche maniera deve essere gestito. Ecco l’idea, dunque, nel 2014, di “Celestite”: un’appendice dell’ultimo full-lenght in cui sarebbero stati ripresi e sviluppati diversi temi in direzione drone-ambient. Che i Nostri si siano ritrovati improvvisamente a corto di idee e quindi abbiano deciso di temporeggiare con un’opera di riciclaggio? 

Sia quel che sia, “Celestite” è un lavoro superbo che spazza via qualsiasi altro esperimento analogo compiuto in campo metal. Anzitutto il metro di riferimento non è più l’ambient elementare di Varg Vikernes, bensì quella kosmische musik che s’innalzò a nuovo genere musicale all’inizio degli anni settanta grazie a pionieri quali Tangerine Dream, Klaus Schulze e Popol Vuh. Scelta peraltro coerente con il percorso artistico dei WITTR visto che gli stessi Popol Vuh erano già stati indicati, in tempi non sospetti, come una fonte d’influenza basilare per i Nostri: influenza che gli ascoltatori più attenti avranno saputo riconoscere sotto la scorza dura del black metal feroce dei WITTR, e paradossalmente proprio nei passaggi più violenti, in quei momenti di sublime confusione (di emperoriana memoria, questo va detto!) in cui le ritmiche, tanto veloci da smaterializzarsi, divenivano un tutt’uno con le distorsioni ustionanti delle chitarre e le avvolgenti tastiere. Con “Celestite” questa influenza emerge finalmente, librandosi oltre l’elettricità per riappropriarsi della sua veste naturale: imponenti cascate di sintetizzatori che volteggiano nel vuoto ottundente di un universo selvaggio che muta costantemente, incurante dell’uomo.

L’insignificanza, se non la nocività, dell’essere umano, del resto, sono sempre state al centro della poetica dei WITTR, a dimostrazione della coerenza anche dal punto di vista concettuale di questo lavoro con il resto della discografia. Se la trilogia sopra menzionata ha tracciato un sentiero che ha condotto dalla materia allo spirito, dalle viscere della terra alle pendici della volta celeste, con “Celestite” l’uomo scompare definitivamente risucchiato dalle lente evoluzioni degli astri: corpi giganteschi che confliggono, implodono e rinascono nella sempiterna e senza tempo danza del cosmo. Il dramma di forze immani che si scontrano nel quadro di un’armonia superiore è in definitiva quello che ci vogliono descrivere i WITTR. Ma la loro musica non è semplicemente didascalia: essa diviene semmai evocazione, finendo per immergere con forza schiacciante l’ascoltatore in una “Dimensione Altra” dal perverso potere straniante. Provate ad alzare il volume di questa musica mostruosa e colossale: potreste avere paura.

Suoni profondi, suoni densi e tempestosi: in bilico fra musica cosmica e drone-music, con qualche suggestione pinkfloydiana disseminata qua e là, “Celestite” si compone di cinque lunghi brani dal fascino cinematografico che costituiscono un unicum in cui le ambientazioni si danno il cambio in modo fluido, passando da fasi di estatica contemplazione a momenti più tesi.

Privo di voce e dell’elemento ritmico, il black metal dei fratelli Weaver smette addirittura di essere metal, affidandosi quasi totalmente al moto oscillatorio delle apparecchiature elettroniche, gestite con discreta padronanza dai due musicisti (i quali, già in occasione delle prove precedenti, avevano avuto modo di maneggiarle). A dare una mano troviamo Timm Mason (ancora sintetizzatori!), Steve Moore e Josiah Boothby (corni) e Mara Winter e Veronica Dye (flauti): un ensamble apocalittico chiamato a conferire solennità al tutto e ricalcare i contorni di un’elettronica rigorosamente analogica e dallo squisito gusto vintage. Le tuonanti chitarre elettriche persistono qua e là a sottolineare l’intensità di certi passaggi, rievocando quelle derive drone-doom tanto care ai Sunn O)). A proposito di Sunn O)), a tirare le fila del discorso troviamo proprio il loro produttore Randall Dunn: variabile non ininfluente nell’economia del tutto, visto che la produzione è spesso il fattore di successo in operazioni di questo tipo.

Insomma, un gran bel lavoro questo “Celestite”, prodotto formalmente impeccabile e dalla straripante carica visionaria: un album che potrà soddisfare anche i palati più aspri, in quanto opera essenzialmente violenta, concettualmente violenta, di quella violenza disorientante che può fare davvero male. I WITTR, da parte loro, oltre l’onestà intellettuale, ci mettono l’intensità incredibile delle loro melodie e la profondità delle emozioni riversate nell’atto creativo: cosa che fa di “Celestite”, al pari di opere come “In den Garten Pharaos” dei Popol Vuh (si vedano le evidenti analogie con il brano “Vuh”) un’esperienza mistica.

Conclusioni: facendo un primo parziale bilancio, è curioso (ma non sorprendente) rilevare come la maggior parte di questi bastardi parti discografici provengano dall’area black metal. E’ probabile che il black metal, genere che ha saputo più di altri (si pensi al thrash o al death) trasformarsi e mantenersi fresco nel corso degli anni, inglobando la psichedelia, il post-rock, lo shoegaze e persino l’ambient, sia proprio per questo motivo quel “blob” vischioso ed inarrestabile che ha saputo infiltrarsi  attraverso le solide assi del recinto del Reame del Metallo per trascinarsi Altrove.

Laddove il risultato di tale processo di mutazione sia un lavoro come “Celestite”, ben vengano trasmigrazioni di questo tipo.