Nel metal italiano di
qualche decennio fa nessuno poteva essere biasimato perché non
riusciva a sfondare. All'epoca sembrava quasi che chi suonasse metal
in Italia fosse affetto da un qualche handicap naturale che gli
impediva di registrare un disco in maniera professionale, di
scegliere dei suoni ben amalgamati, di proporre una pronuncia inglese
non comica. Nelle registrazioni di molti dei gruppi dell'epoca c'era
un'atmosfera della serie “buona la prima”, come se le occasioni
per incidere un album fossero solo casualità che andavano colte in fretta
e furia, anche se quel giorno il cantante aveva il mal di gola e il
chitarrista la tendinite...
Un gruppo italiano che si potesse scambiare per uno straniero era quindi un evento, ma non un vanto, perché indice di una situazione veramente precaria. I Royal Air Force (R.A.F. per gli amici) erano un esempio di quel metal italiano che, pur buono, cresceva in un terreno non fertile. Suonavano bene, alcuni pezzi in particolare potevano ricordare il power di marca teutonica dei Running Wild (si guardi alla stessa canzone-manifesto "Royal Air Force"). I R.A.F. proponevano quello che all'epoca si poteva definire hard rock e rientrava nel metal ammiccando sia al metal classico inglese che al filone street, magari più nel look, assai vistoso (in occasione delle prime esibizioni dal vivo, i Nostri si presentavano sul palco in divisa militare).
Forse molti non sanno (e neanche io, che in quegli anni c'ero già, metallicamente parlando)
che i R.A.F. furono all'apice della scena italiana e rischiarono di
entrare anche in un'orbita ben più vasta. Furono votati miglior
gruppo italiano dai lettori delle riviste di settore HM e Metal
Shock (passaggio che non è stato il preludio alla fortuna di
nessuno, questo va detto). Suonarono infine come apripista per le date italiane di
gruppi del calibro di Metallica e Manowar, e in manifestazioni importanti come il Monsters of Rock.
Sia come sia, ad un certo punto nel 1989
vidi Sanremo e fui irritato dal fatto che un "tipo" giocava a fare il
metallaro all'1% facendosi accompagnare da un chitarrista conciato da
metallaro. Più che conciato, era proprio un metallaro: era Gianluca Battaglion, il
chitarrista dei R.A.F. Il quale, fra l'altro, non ha mai rinnegato quell'esperienza (che lo compromise agli occhi del pubblico metal), bensì ha avuto l'ardire di farla passare come
“un momento storico”: l'aver fatto parte della band di
Jovanotti!!! (il brano in questione era "Vasco").
Definire Jovanotti che
canta a Sanremo “No Vasco, no Vasco, io non ci casco” come “un
momento storico”, di qualsivoglia genere musicale, è grottesco. Semmai fu un episodio emblematico per capire come nel periodo si
tendesse a considerare il metal come una schitarrata buttata lì, un tocco di trasgressività ad un pezzo dal
seguente testo:
“Vai così che è
una figata, perché una storia così non c'è mai stata, che ci
ammazziamo, ci divertiamo, facciamo gli scemi e qualche volta
pensiamo....”
Nel tempo che vi
occorre per riprendervi dallo shock provocato da quese illuminanti liriche, accendo l'ennesimo cero alla Madonna della Brutalità, che
fece rifugiare i metallari fedeli nelle catacombe del death, finché
quegli scempi si esaurirono. Scempi che compresero anche un brano di
hip-hop minimale, sempre targato Jovanotti, in cui si prendeva pari
pari il riff portante di "Back in Black" degli AC/DC. Per poi cantarci sopra:
“Sono Jovanotti, il
capo della banda, se vuoi entrare anche tu devi fare domanda”.
Non era plagio (come
all'epoca si gridò), solo un inserto, magari un po' troppo diretto e
irrispettoso, che fa parte del modus operandi dell'hip-hop. I metallari
comunque non gradirono, anche perché in quel periodo Jovanotti
tentava di proporsi come rockettaro in un modo che si direbbe
“exploitation”, cioè usando senza spessore le sonorità hard
come condimento a fini esclusivamente commerciali, senza alcuna
identità stilistica o progetto artistico.
Come non storcere la bocca quando allora si legge che i R.A.F., nella collaborazone con Jovanotti, dichiaravano di aver addirittura anticipato “quello che oggi si chiama crossover, e che noi avevamo inaugurato nel 1988”. Un'affermazione, però, che cozza alquanto con il giudizio che la band stessa dette alla produzione del loro album successivo "Leading the Riot". Sostenevano sempre i R.A.F.: “Veniva da Los Angeles (il produttore, nda) ed era la fine degli anni '80; lui già respirava l'avanguardia grunge che si faceva spazio negli USA. Quindi cominciò a imporci suoni che nulla avevano a che fare con il nostro genere, che era heavy metal fatto e finito”. Quindi, se ho capito bene: il "crossover" (chiamiamolo così) con il pop-rock di Jovanotti a Sanremo andava bene, mentre quello pionieristico, con il grunge, no. E poi, se era metal “fatto e finito” (e infatti era quello il genere), in che senso poteva essere definito "crossover"? Mi è forse sfuggito qualcosa?
Fatto sta che in quel periodo tutti volevano i R.A.F. Diceva Mario Riso, batterista della band: “Joey DeMaio si presentò di persona in sala per propormi di entrare nei Manowar al posto del fuoriuscito Scott Columbus”. Ed ancora: “Lo stesso Allen (il produttore) voleva portarmi negli Stati Uniti per suonare con i Lizzy Borden”. E, dulcis in fundo: “Mi arrivò un fax, mandato da Wendy Dio in cui si congratulava e mi invitava negli USA per unirmi ai Dio”. Se ne parlava perfino nei bar...
Duante un'esibizione di spalla ai Manowar, i R.A.F. furono però contestati
da una parte degli spettatori (e questo fu un episodio
spiacevole, perché impedire a qualcuno di esibirsi è un atto vile che non rende onore alla fondatezza della
contestazione). L'unica cosa che fa sorridere è pensare ai R.A.F.
che suonavano imperterriti sotto una pioggia di oggetti più o meno
contundenti , forse pensando che sarebbe stato meglio spiegare a DeMaio e soci (dispiaciuti e attoniti) a
che cosa fosse dovuta la contestazione.
Appunto, cerchiamo di
spiegarlo una volta per tutte: a cosa era dovuta la contestazione? Un gruppo amato
dai metallari italiani, uno di quelli che arriva al disco e ha
occasioni per suonare su palchi importanti; una band il cui chitarrista è stato persino chiamato a "fare
il personaggio del chitarrista rock" per l'immagine di Jovanotti.
Nessuno in realtà ha mai rimproverato i R.A.F. di aver suonato per
Jovanotti o di aver calcato il palcoscenico di Sanremo: quello che ferì fu proprio
di fare la macchietta del metallaro a fianco di Jovanotti. Una
questione di divisa, di appartenenza: si può prestare se stessi, la
propria opera, la propria arte. Non si può prestare la divisa:
quella è di tutti.
“Ammetto che la
divisa mi manca, un po' meno l'ottusità. E' pur vero che l'ottusità
ha però permesso un senso di appartenenza così grande”. Sono
parole dei R.A.F. che ci sentiamo di condividere appieno. Meno la loro
immediata ritrattazione nel corso dello stesso articolo: “Questa
ottusità ci ha portato sì a tutelare la fede, ma anche a
distruggerla completamente, impedendo che si evolvesse nel corso del
tempo”.
I R.A.F. chiuserò lì,
peccato. Jovanotti, mutazione dopo mutazione, crebbe invece nel successo. Il
metal italiano è cresciuto, si è evoluto grazie all'ottusità
insita nel genere ed è riuscito ad approdare finalmente a livelli competitivi. Senza bisogno di ritoccare la sua divisa...