Quando sono venuto in possesso di
questo disco non ci volevo credere: dopo 25 anni un nuovo disco dei Sanctuary??
25 anni!! Un ellisse temporale enorme!
Ma la sorpresa più grande è stata
leggere le notizie su cosa aveva provocato la reunion della fenomenale band di Seattle, avvenuta nel 2010. Con un
parallelismo forse un po’ azzardato, siamo di fronte a un caso di “complesso
edipico” al contrario: se possiamo dire senza troppe forzature che i Sanctuary sono stati i padri e i Nevermore i loro figli,
ebbene, il padre, per tornare a vivere, ha ridotto in fin di vita (ancora non
usiamo il termine “ucciso”) il figlio.
Si, perché nei Sanctuary sono
tornati praticamente tutti: ovviamente il buon Warrell Dane, ma anche la “sua
ombra” Jim Sheppard al basso. E poi
il funambolico Lenny Rutledge alla
chitarra e il tentacolare Dave Budbill alla batteria. Manca solo
Blosl alla seconda chitarra, sostituito da Brad
Hull.
A cura di Morningrise
Ma dal lato Nevermore cos’è
successo? Che Jeff Loomis e Van Williams, dopo appena un anno dalla reunion dei
Sanctuary, se ne sono andati. Nel loro comunicato ufficiale si fa riferimento a
non meglio precisati contrasti interni e la necessità di seguire ognuno il
proprio percorso artistico (viva la fantasia!). Frasi di circostanza, ma lo
split di una delle più importanti band del firmamento metal sarebbe mai
avvenuto senza la suddetta reunion? Tanti dubbi ci assalgono in merito…
Come dicevo i Nevermore non si
sono sciolti ufficialmente: Dane e Sheppard ancora ne fanno parte. Per ora da
soli. E non pubblicano nulla con quel monicker dal 2010 (toh, che caso!),
quando uscì il discreto “The Obsidian Conspiracy”. Del resto, che i Nevermore
fossero da tempo in grande difficoltà era palese: dal capolavoro assoluto “Dead
Heart in a Dead World” (2000) in poi, per tutta la prima decade del nuovo
millennio, sforneranno discreti o anche buonissimi platter (come ad esempio
“This Godless Endeavour”), senza però raggiungere mai più le vette di DHIADW
(per approfondimenti in merito leggi le ottime recensioni del nostro Lost In
Moments qui e qui).
I principali difetti dei tre
dischi del decennio passato furono, a mio modo di vedere, una certa
prevedibilità, l’accontentarsi di fare il compitino, riproponendo schemi
strutturali già (ab)usati, autoreferenziali, senza riuscire a dare un colpo di
reni, una dimostrazione di creatività e classe che, al contrario, aveva
caratterizzato la loro discografia dal 1995 (anno della pubblicazione del loro
omonimo, bellissimo debut album) al 2000. Tutte opere, in quei sei anni, di
inestimabile valore artistico.
Ad ogni modo, torniamo al focus
del post: mi approccio con trepidante interesse a questa release, visto che,
come abbiamo già visto su MM, i Sanctuary li abbiamo osannati nell’ambito della
nostra Rassegna sulle migliori cult band anni ottanta.
Li avevamo lasciati nel 1989 con
la pubblicazione del fenomenale “Into
The Mirror Black” dove i Nostri avevano intrapreso, rispetto al folgorante
debut “Refuge Denied” di due anni prima, una strada ancora più ambiziosa,
conferendo al loro particolare sound (un mix di technical thrash e oscuro heavy
di stampo classico) una maggiore
complessità e teatralità epica. Un approccio che aveva dato luogo a canzoni
da infarto: dall’opener “Future Tense”, all’articolata “Eden Lies Obscured”;
dalla commovente “The Mirror Black” al solenne finale di “Communion”. E si
potrebbe continuare. Un disco che, personalmente, trovai giusto un po’ meno
“fresco” e di impatto del suo predecessore (a volte è troppo “cervellotico”) ma
che aveva innegabilmente una personalità enorme e un songwriting di caratura
nettamente superiore alla media.
Ecco: come prima cosa non
aspettatevi un’evoluzione del tutto coerente con ITMB: sono passati 25 anni, il
sound, oltre a “beneficiare” (?) dei progressi nell’ingegneria dei suoni, che
sanno fottutamente di “terzo millennio”, non poteva risentire dell’ingombrante
passato di “suo figlio”, i Nevermore. E, ahinoi, il disco presenta proprio
alcuni difetti che presentavano le loro ultime release su menzionate. In primis
la prevedibilità. Si, a partire dal cantato di Dane che, comprensibilmente, non
presenta più i falsetti tipici degli anni ottanta e che si accontenta, pur nel
suo approccio teatrale, di fare la sua parte con sicurezza e “comodità”; per
passare poi a certi rallentamenti (soprattutto in corrispondenza dei chorus,
come in “Let the Serpent Follow Me” ed “Exitium”), agli arpeggi evocativi (vedi
“One final Day”), al sound delle chitarre a tratti troppo compresso, in stile
produzione-Andy-Sneap; o ancora nella struttura di carico e rilascio della
tensione di molti dei brani, accorgimento già ampiamente sperimentato e
collaudato.
Certo, le differenze con i
Nevermore ci sono, ci mancherebbe; in particolare Rutledge è, nell’approccio
come nell’esecuzione, meno “moderno”, più “umano” di Loomis e questo lo
sentiamo in maniera chiara in certi assoli di stampo classico o in alcune
scelte stilistiche che rimandano a un passato, peraltro mai nostalgico e sempre
comunque “riletto” in chiave attuale.
Esemplificativa l’opener “Arise
and Purify”, uno dei brani migliore del lotto, caratterizzata dai classici
cambi di ritmo a marchio Sanctuary, ma anche da quelle sfumature nei riff
portanti, quegli orditi chitarristici unici, che ci avevano fatto così
innamorare in passato di questa band. E a legare il tutto assoli di grandissima
classe e tecnica di Rutledge. Purtroppo tutta questa positività non sarà la
regola nel prosieguo dell’ascolto…
Attenzione: qua non si discute né
la preparazione dei musicisti, o le loro capacità compositive; o ancora la
produzione del disco (il marchio Century Media garantisce in tal senso, a
partire dalla splendida cover). E’ un disco solido, ben strutturato, a tratti
emozionante, soprattutto nella parte conclusiva, dove il trittico finale (“The
World Is Wired”, “The Dying Age” e la title track), seppur non perfetto, tira
su decisamente la qualità complessiva del platter. Che però non ha, a mio
modesto avviso, quel quid in più che aveva marchiato le prime due opere dei
Nostri, quella irrequietezza, quella
tensione progressiva, quel sublime nervosismo che facevano dei Sanctuary
una band sempre tesa in avanti; mentre ora ci pare più timida, raccolta in se
stessa. Però…
Però: nonostante tutto, non posso
non ammettere che sia sempre affascinante immergersi in quel maelstrom di umori
grigi, oscuri, cinici, pessimisti che da sempre contraddistinguono le
produzioni di Warrell Dane. Però...
Però cosa avremmo detto se
una band all’esordio fosse stata in grado di comporre pezzi come “Question
Existence Fading” o “Frozen”?? Credo che avremmo gridato al miracolo, alla “next
big thing”…
E non solo: nel complesso, dopo
ripetuti ascolti, TYTSD, pur non potendolo considerare, come accennato sopra, una
naturale prosecuzione di “Into The Mirror Black”, l’ho apprezzato non poco (sicuramente
di più di “The Obsidian Conspiracy”) perché il dischetto cresce, cresce con il passare
degli ascolti.
Un album che potremmo alla fin
fine definire di assestamento (e forse è inevitabile così, dati gli anni
intercorsi da ITMB) nella speranza, fondata, che col prossimo full lenght i
Sanctuary riusciranno a migliorarsi. E a stupirci ancora…
Voto: 7,5
Canzone top: “The Year the Sun Died”
Momento top: il primo minuto di
“Arise and Purify”
Canzone flop: “One Final Day”
Anno: 2014
Etichetta: Century Media
Dati: 11 canzoni, 49 minuti