I 10 MIGLIORI ALBUM A.O.R.
CAPITOLO 2: KANSAS - "POINT OF KNOW RETURN" (1977)
Dal 1976 al 1977. Dal
Massachussets al Kansas, da Boston a Topeka. Un viaggio di oltre 2.300 km dalla
moderna e progressista East Coast alla profonda provincia del midwest
statunitense.
Dai Boston ai Kansas.
Se “More than a feeling” dei primi
può essere a ragione considerata come la canzone regina del rock americano del
1976, possiamo nominare come sua “vice” l’altrettanto celebre “Carry on wayward son” dei secondi.
L’opener del bellissimo “Leftoverture” (1976) è infatti un’altra di quelle
canzoni che conoscono anche i muri e che sancirono il mega successo della band
a livello planetario. L’autore del brano era un ragazzo di
26 anni, tal Kerry Livgren, da Topeka. Kansas, appunto. E fu proprio nella capitale
dello Stato omonimo che si formarono i Kansas.
E dall’incrocio dei talenti di due grandi polistrumentisti, Steve
Walsh (originario del vicino Missouri) e il già citato Kerry Livgren, che nacque "Point Of Know Return".
Se i Boston avevano coniugato mirabilmente melodie catchy e grande appeal radiofonico con una
complessità di fondo e un’originalità notevole (soprattutto nell’utilizzo delle
linee di chitarra), i Kansas si distaccavano dalla concorrenza per essere riusciti
a innestare sul loro background, debitore dei grandi del prog inglese
(ancora EL&P e poi i magici Yes su tutti), una componente epico/intimista di grande impatto emotivo. Frutto e
merito, oltre che della enorme qualità di scrittura di Walsh&Livgren,
dell’inserimento nella line-up di un violinista superbo come Robby Steinhardt. Fenomenali i suoi
duelli con le tastiere di Walsh, che rendono brani come la title-track, “Closet
chronicles” (per chi scrive il vero brano capolavoro del platter) o la
mini-suite finale “Hopelessly human”, brani memorabili.
Le partiture di Robby, oltre a
donare quell’emozionalità da brividi tipica dello strumento, riescono a
sottolineare in maniera incredibilmente efficace i passaggi più importanti
delle diverse canzoni. Rendendole più profonde, più calde, pregne di una
malinconia mai leziosa o zuccherosa. Una caratteristica questa che si esprime
in maniera perfetta con “Dust in the wind”, assieme a “Carry on wayward son”,
la canzone più famosa dei Kansas.
Se da un lato l’architettura
portante del disco è composta dalle linee di tastiera, piano e organo (del resto i due
mastermind erano innanzitutto tastieristi), che si rincorrono continuamente con
quelle di violino, dall’altro va detto che la chitarra trova i suoi giusti
spazi. Quando c’è da menar fendenti hard/prog rock, la sei corde di Livgren
diventa protagonista regalandoci parti e assoli di grande impatto e gusto (vedasi
ad esempio l’ottima “Lightning’s hand”).
Ma oltre alla componente
musicale, i Kansas spiccano anche per la profondità dei testi. L’album, a
partire dalla title track e dalla meravigliosa cover, è un viaggio nelle
ambizioni di conoscenza dell’Uomo, nei suoi limiti e relativa tensione a
superarli. Nel momento in cui Egli avverte dentro di sé quest’esigenza (You
know it’s time, you see the sign), nonostante le remore che possono arrivare
dalle abitudini consolidate e dagli affetti acquisiti (Your father,
he said he needs you / your mother, she says she loves you), e nonostante la
consapevolezza del rischio concreto del fallimento (They said the point demons guard
is an ocean grave for all the brave) non potrà che cominciare il viaggio,
senza paura, conscio che solo così potrà vivere appieno, senza rimpianti: I’m
not afraid to face the light / I am not afraid to think that I might fall / I
was going nowhere fast / I was needing something that would last. E’ in queste parole che risiede
il fulcro del messaggio; è questo il punto di non-ritorno del titolo,
intelligentemente giocato sull’assonanza “no-Know”.
La conclusione, se può davvero
esserci una “fine” in un viaggio di questo genere, non saranno accomodanti e
l’amarezza che traspare da un’atipica ballad come “Nobody’s home” sono lì a
ricordarcelo: So far I come to find there’s no one there, no life & fear /
I came for nothing, they have gone / and Nobody’s home.
Come novelli Ulisse sul limitare
delle colonne d’Ercole, i Kansas sancirono con questo disco non solo una
conferma del successo avuto l’anno precedente con “Leftoverture”, ma spiccarono
definitivamente il volo verso l’immortalità artistica, al pari di quel vascello
della copertina, in bilico sul bordo di un oceano che dà sull’infinito.
A cura di Morningrise