Anche quest'anno c'è stato Wacken ed anche quest'anno noi non c'eravamo. Ma due parole ci
teniamo comunque a spenderle, sebbene le nostre impressioni non siano maturate
in mezzo alla folla urlante, ma comodamente seduti sul divano di casa nostra
con il PC in grembo.
Fra i tanti nomi a
disposizione abbiamo scelto i brasilianissimi fratelli Cavalera e i norvegesi Emperor: dal sud del mondo
fino alle soglie del Polo Nord, due
entità che hanno saputo scrivere grandi e durevoli pagine del metal e che oggi
andiamo a celebrare attraverso queste performance
così lontane e così vicine, così diverse e così egualmente emozionanti.
Ad accomunare le due
esibizioni è la riproposizione per
intero di due album seminali. Per i carioca si è trattato di portare avanti uno show che
era stato avviato l'anno scorso per festeggiare i venti anni dall'uscita del
classico dei Sepultura "Roots" ("Max & Iggor Cavalera: Return To Roots", appunto). Ancora più
succulenta, in quanto maggiormente esclusiva, la proposta dei norvegesi, che
per pochissime date si sono riuniti in occasione del ventennale di "Anthems to the Welkin at Dusk"
(pochi anni fa, sempre a Wacken, si era tenuto una commemorazione analoga per
il ventennale del mitico debutto "In the Nightside Eclipse").
Quando i Cavalera montano sul
palco il sole risplende ancora nel cielo. Non so perché le panoramiche
dall'alto dei concerti pomeridiani mi hanno sempre comunicato un senso di
desolazione, forse perché è tutto così evidente, trasparente e il fascino della
musica, altresì alimentato dalle tenebre, si attenua innanzi al dettaglio, come
il tizio che si scaccola o quello che sbadiglia. Però per un album
"amazzonico" come "Roots" il sole cocente di questo 5 agosto ci sta benissimo.
E' subito "Roots Bloody Roots", ma quello che
doveva essere sulla carta il brano simbolo, l'apice della giornata, non mi
impressiona in modo particolare. La giudicherei una partenza un po' fiacca, con
un Igor che picchia con onestà, ma
che francamente non si rivela quella furia
tribale che mi figuravo. Ma del resto gli anni passano per tutti, compreso
il grande (in tutti sensi) Max. Ne
hanno viste quelle fauci di bistecche: stazza imponente, giacchetto lercio e
pieno di toppe e spille in classico punk
style, capelli rasta talmente
compatti da formare nel retro un conglomerato che sembra una grossa radice (roots?) di ginger, chitarra con fantasia camouflage
ed asta del microfono adornata con cartucce e pallottole. Stesa fieramente
alle spalle del Gingerone
l'immancabile bandiera del Brasile, mentre sullo sfondo una grafica che
richiama la copertina di "Roots" con due indios a rappresentare la coppia di fratelli.
Tutt'altra scena è quella che
vede gli Emperor protagonisti. Per loro è già notte (siamo alla sera prima,
quella del 4 agosto) e ciò giova
ovviamente all'atmosfera generale. Soffuse luci verdastre richiamano
cromaticamente i temi predominanti della copertina dell'album stasera
celebrato, nonché l'immaginario "metafisico" della band: una
suggestiva cornice che talvolta muterà verso l'azzurrino (evocando invece la cover di "In the Nightside
Eclipse") e via via verrà sconvolta da detonazioni pirotecniche.
Dagli amplificatori fuoriesce
una versione registrata di "Alsvartr
(The Oath)", l'intro
dell'album, durante la quale fanno ordinatamente il loro ingresso i membri
della band. Ihshan più che il frontman di una black metal band sembra
un giovane professore universitario, con i suoi occhiali (ma si è mai visto un cantante black in occhiali da vista??), barba
curata, capelli pettinati all'indietro e camicia. Ovviamente niente trucco e
borchie, si parla di gente seria, ma del resto non ci stupiamo se pensiamo al
virtuoso cammino intrapreso dal musicista, da diversi anni alle prese con un
raffinato mix di prog, avanguardia e
metal estremo. Anche Samoth, che
contrariamente al compare ha perseguito la via della brutalità tout court con gli Zyklon, detiene il phisique
du role degno della fama della band per cui è divenuto famoso: lunga
criniera, barba altrettanto lunga, sguardo torvo ma intelligente, movimenti
posati ma imponenti. A chiedere la magica triade che costituì il nucleo
fondamentale degli Emperor al momento del loro scioglimento, arriva Trym che siede diligentemente dietro al
drumkit: capello corto e fare
scocciato, ma un mostro di bravura che detterà alla grande i tempi della
serata, compiendo cose fantasmagoriche e picchiando come un forsennato con la
tranquillità di un impiegato postale che a fine giornata mette timbri sulle
raccomandate. Completano l'assetto il bassista di turno ed un tastierista che
si rivelerà fondamentale dietro al microfono (bella la sua timbrica cristallina
che ricorda quella dell'arcturusiano Vortex), dando man forte ad Ihsahn sul
fronte del canto pulito.
I fratelli Cavalera (suvvia,
chiamiamoli pure Sepultura!) sono, a guardar bene, un ospite strano per un festival purista come Wacken, roccaforte
del metallo più duro ed incontaminato. E di fatto, nonostante il peso specifico
(in tutti i sensi) di chi sta sul palco, la gente (una folla oceanica) appare
sulle prime assai distaccata. Ci vorrà tutto il carisma di "zio" Max
a scaldare l'ambiente: un "assedio" porta a porta, il suo, volto ad
espugnare le reticenze dell'ultimo scettico con i Grave Digger ancora nel cervello. Già in "Attitude" il buon Max tenta il siparietto dello strumento
etnico, ma ancora non basta. In "Ratamahatta"
molla la chitarra e i primi indugi si iniziano a rompere. In più circostanze
Max vorrà avere le mani libere per muoversi libero ed aizzare il pubblico,
lasciando così grandi spazi al secondo chitarrista, che se certo non può
rivaleggiare con un Andreas Kisser,
regge bene il gioco, con riff
d'impatto e un gran lavoro di wah wah.
Un set all'insegna del cuore e dell'approssimazione, insomma, in
linea, come prevedibile, con lo spirito dei Soulfly, dove si conserva, anzi si esaspera, tutta l'urgenza punk/hardcore che da sempre
costituisce un ingrediente fondamentale nel Sepultura
sound. Ma questa sorta di "Roots"
3.0 funziona decisamente bene, trainato dall'entusiasmo incontenibile di
Max che dimostra oggi le ragioni per cui è diventato famoso. Il growl si è forse spento nel corso del
tempo, sostituto da declamazioni ed urla belluine che bruciano in gola come se
non vi fosse un domani, ma il carisma rimane intatto: il Nostro grida, incita,
batte le mani, pomperà continuamente il fratello, indosserà una maglia dei Bathory, accennerà con la chitarra
"Iron Man" invocando il
coro degli astanti, si armerà di bacchette e picchierà duro sui tamburi in
compagnia del fratello nell'immancabile break
etnico, il tutto condito da una pioggia di "danke schoen Uacken!" (ma non l'ha detto nessuno a quel
cosmopolitone di Cavalera che la W in tedesco si pronuncia V e non U?).
Insomma, farà di tutto e di più per trasformare Wacken in una grande festa collettiva,
fra pogo, spintoni, handbanging, mani
al cielo e ragazze bellissime sballottate in aria da forti braccia. Chiude le
danze una violentissima "Dictatorshit",
ribattezzata per l'occasione "Dictator Scheisse" (del resto il
vocabolario tedesco del Gingerone è
questo): il canto di Max è oramai un rauco screaming,
mentre Igor, che nel frattempo era entrato nella parte, corre velocissimo e
paradossalmente lo trovo più a suo agio in questi assalti frontali che in veste
tribale.
Non hanno bisogno invece di
dimenarsi per accattivarsi l'attenzione del pubblico gli Emperor, in quanto
sarà la musica a parlare per loro. L'acustica rende giustizia alla complessità
della proposta dell'Imperatore. La
tastiere in secondo piano, paradossalmente, ci fanno capire come esse non siano
poi così fondamentali per il sound
degli Emperor, che forse abbiamo etichettato troppo frettolosamente come symphonic black metal. Stasera ad
emergere sarà il grande lavoro delle due chitarre, originariamente un po'
sacrificate su disco per via di una produzione un po' confusionaria che non
sempre sapeva integrare, negli svariati cambi di tempo ed ambientazioni, gli
intrecci di chitarre con tastiere e voce. Ebbene, stasera Wacken ci racconta
una storia diversa: quella di un album magnifico, attuale, fresco, reso alla
perfezione in tutte le sue sfumature da una band prodigiosa e decisamente in
forma. Trym è un miracolo di potenza e precisione: il suo drumming marziale conferisce regolarità ed ordine alle multiformi
trame melodiche di Samoth ed Ihsahn. Quest'ultimo bercia e declama con una
seraficità che è consona a chi è al bar a sfogliare la Gazzetta dello Sport.
Voce potentissima la sua, sia sul fronte dello screaming che su quello del pulito, cosa che crea uno strano
contrasto con i rari momenti in cui, in modo straordinariamente educato, si
rivolge al pubblico per presentare i brani, aggirandosi sul palco con un ghigno
di soddisfazione che sembra dire: "Ma
che musica vi sto suonando? Ma sarò il migliore? Avevate forse dei dubbi?".
La prestazione è del resto
impeccabile da parte di tutti, turnisti compresi: una performance che crescerà di intensità di brano in brano, fino a
toccare livelli stellari nei due pezzi finali della prima parte del set. Mi riferisco alla lunga e tortuosa
"With Strenght I Burn",
dettata da epici tempi medi e costellata dai sublimi intrecci vocali di Ihsahn
e del tastierista; le trame chitarristiche sono da urlo ed azzeccata si
rivelerà l'idea di sostituire l'effetto fading
out (con cui si dissolveva
originariamente il brano) con il prolungamento di una singola nota, per poi
riattaccare con la struggente "The
Wanderer", egregia appendice strumentale in cui oggi riconosco molto
metal che verrà (Opeth in prima
fila). Un uno-due che fa "molto
post-rock": diviene infatti evidente come gli Emperor, in anni non
sospetti e nascosti dietro la loro grandiosità sinfonica, ragionavano fuori
dagli schemi e suonavano musica realmente progressiva, preparando il terreno
per quel post black metal che dieci, quindici anni più tardi guarderà a loro
con grande devozione.
Torniamo ai Seps Brothers. È il momento dei bis e i
Nostri si gettano in un furioso medley
che vede fuse insieme "Beneath the
Remains" (addirittura!), "Desperate
Cry" ed "Orgasmatron".
E' l'occasione quindi per celebrare il grande Lemmy, il quale viene tributato con un'altra cover (ma non sarà troppo,
considerato tutto quel ben di Dio che poteva offrire il repertorio dei
Sepultura?? Del resto è anche questo un ritorno alle radici...): una versione al fulmicotone di "Aces of Spades" con Max ancora una volta scatenato e
svincolato dalle sei corde. Si chiude il cerchio tornando al principio con la
riproposizione di "Roots Bloody
Roots", ma quando ti saresti aspettato un reprise in pompa magna, ecco che i Nostri ci offrono del brano una
inaspettata versione sparatissima, in linea con quel rigurgito hardcore/death che era stato il
progetto Cavalera Conspiracy (dal
quale, non a caso, vengono pescati i due turnisti Marc Rizzo e Tony Campos).
L'effetto è sulle prime straniante, il fiato è corto e sembra oramai di
assistere ad un concerto punk di una band underground
in un centro sociale, ma dopo l'escalation
di violenza dell'ultima ora e mezza, tutto appare lecito: paradossalmente
saranno queste scene di gratuita brutalità finale a rimanermi maggiormente
impresse nella mente.
I bis degli Emperor saranno
invece pura poesia. "Curse You All
Men!" non è certo il brano che ti aspetti, e seppur non sia alcunché
di indispensabile (come non lo è "IX
Equilibrium" e tutto ciò che è stato pubblicato successivamente a nome
Emperor), essa gira bene nelle orecchie, risultando indispensabile per
allentare un attimo la tensione e prepararsi al gran finale dedicato al mitico
"In the Nightside Eclipse", rappresentato degnamente da una
accoppiata di brani fenomenali come "Iam the Black Wizards" e "Inno
a Satana". Ogni descrizione di quanto succederà sul palco è superflua
e limitativa. Concentriamoci invece su due dettagli emblematici. Il primo è il
pubblico. E' veramente una cosa stranissima vedere così tanta gente assistere
ad un concerto black metal, una folla oceanica che potremmo concepire per
anfitrioni come Manowar o Iron Maiden: ragazzi e ragazze di ogni
nazionalità ed estrazione sociale con volti estasiati, con espressioni
trasognate, che accompagnano con la testa i cambi di tempo, che cantano a
memoria i testi di questi brani incantabili. L'impressione è che si stia
celebrando un grandioso rito religioso: da sottolineare l'idea di estasi-panico
che emana l'esecuzione della seconda parte, quella lenta e solenne, di "I
am the Black Wizards". Magie di
Wacken. L'altro dettaglio da sottolineare sono le parole che introducono
"Inno a Satana". Ihsahn, con il suo consueto garbo, prima di
scatenare nuovamente l'Inferno, desidera ricordarci la fortuna e la bellezza di
essere liberi, liberi di essere tutti qui insieme stasera: l'inno a Satana dei norvegesi non è altro
che un inno alla Libertà come lo
intendeva Giosuè Carducci. Mentre incalzano in filodiffusione le orchestrazioni
di "Opus a Satana", i
musicisti soddisfatti si godono la standing
ovation a loro riservata e con l'inchino di Ihsahn si conclude un'altra
bella pagina di Wacken: un festival che si conferma, per professionalità ed
organizzazione, il miglior appuntamento live
in assoluto a beneficio del popolo metallico.
Quanto agli artisti che
abbiamo deciso di analizzare oggi, possiamo dire che in modo diverso e
complementare rappresentano il volto del
metal che più ci piace. I fratelli Cavalera accusano forse di più il peso
degli anni e la stanchezza di una proposta che nel tempo ha perso la sua carica
rivoluzionaria, adagiandosi sulla immediatezza hardcore. Da fenomeno di rottura
nel corso degli anni novanta (destabilizzante
da un lato e creatore da un altro -
si pensi al fenomeno nu-metal che di
lì a poco sarebbe esploso in tutto il suo fulgore), l'arte dei fratelli
Cavalera è come rimasta relegata al passato, fissata ad un’epoca ben precisa,
forse perché il successo fu immediato e non oggetto di lenta rivalutazione. Ma
laddove non arrivano la tecnica e le idee, arrivano il cuore e la passione.
Gli Emperor, invece, nati e
sviluppati in un ambiente di nicchia quale è stato il black metal, e quindi baciati
da un successo minore, suonano oggi innegabilmente più freschi, avendo essi
gettato semi che sono germogliati dopo la loro scomparsa: precorsero i tempi,
innescando un percorso di ricerca nell'essenza progressivo e raccogliendo
tardivamente quella gloria che oggi
li riconosce come un'entità seminale non solo nei circoli del metallo nero.
Entrambe queste band
straordinarie, i primi con le loro istanze
antisistema e terzomondiste, i secondi con il loro elitarismo e la loro tendenza al superamento dell’Io, sono stati
parimenti rivoluzionari e portatori di un'ideale di libertà, sia a livello
sociale che a livello individuale, che non dobbiamo mai dimenticare.
Danke schoen Uacken!