I 10 MIGLIORI ALBUM A.O.R.
CAPITOLO 4: STYX - "PARADISE THEATRE" (1981)
Nella mia città ce n'è ancora uno
in piedi, seppur abbandonato da decenni. Ridotto quasi a pezzi, ma ancora non
demolibile perché sotto il vincolo protettivo delle Belle Arti. I miei genitori
ancora me ne parlano, di quando si andava a inizio anni sessanta al
“Nazionale”, il cinema-teatro.
Quelli della mia generazione invece non li hanno
vissuti, i “teatri cinematografici”. Noi siamo cresciuti già nell’era delle
multisale…
Negli USA, soprattutto tra gli
anni venti e quaranta, e prima dell’avvento di quella scatola rivoluzionaria
che è stata la TV, andavano per la maggiore. I c.d. movie palace. Grandi,
eleganti ed elaborati teatri adibiti alla rappresentazione di pellicole
cinematografiche. Il più bello, il più famoso a
livello nazionale e non solo, fu sicuramente il Paradise Theatre di Chicago.
Trent’anni tondi tondi è vissuto questo
grande edificio, che si distaccava per la sua elegante architettura esterna e i raffinati interni.
E’ proprio l’epopea del Teatro
Paradiso che gli Styx, nel loro decimo
album in studio, vogliono raccontare utilizzando il rischioso strumento del
concept album. Un omaggio alla propria città, Chicago, e al contempo un
ambizioso affresco degli USA di quelle tre decadi, dal 1928, anno dell'inaugurazione del Paradise, fino al 1958, anno della sua demolizione.
La band dei fratelli Chuck
(basso) e John (batteria) Panozzo e del cantante tastierista
Dennis DeYoung hanno sempre puntato
in alto, sin da giovani. La loro proposta infatti si prefiggeva un intricato mix di rock e aristocratico
progressive, condito da aspirazioni autoriali. Le cose non andarono
immediatamente bene, tanto che la vera svolta verso il successo arrivò solo col
settimo album, “The grand illusion” (1977), che vendette oltre tre milioni di
copie; un successo che culminò, appunto, con il qui presente “Paradise Theater” (1981).
Gli Styx maneggiarono il concept
prendendo di esso solo ciò che gli interessava e declinandolo secondo le proprie
coordinate musicali: non uscendo mai dal formato-canzone, la band fuse un rock
molto “popolare” con la pomposità della musica da spettacolo teatrale. A questa
base aggiunsero altri ingredienti che donarono al tutto un’atmosfera, appunto, elegantemente teatrale: i refrain cantati a più voci (quello della top-song
“The best of times” davvero intenso e riuscito), le sezioni di fiati
(sassofoni, trombe e corni che permeano parecchi brani del platter), azzeccate
partiture di pianoforte che spruzzavano un velo di classicismo mai disturbante.
Certo l’utilizzo massiccio delle tastiere di DeYoung, spesso dai suoni
sintetici, crea in certi momenti una patina che definirei “siderale” (emblematiche
le stranianti “Too much time on my hands” e l’intermezzo centrale di “Lonely
people”). Ma i Nostri evitano abilmente la trappola della freddezza emotiva,
fondendo anche queste partiture con quelle più dure e rockeggianti delle
chitarre del duo Tommy Shaw/James Young
che si ritagliano costantemente uno spazio da protagoniste, a ricordarci che
pur sempre di musica rock si trattava.
Due parole le vorrei però
spendere sul concept: il paradise (inteso sia come l’edificio che come il sogno
di un futuro migliore) accompagna sullo sfondo la storia (o le storie?) del giovane protagonista, e, di traverso degli interi USA. Dal bellissimo uno-due iniziale,
l’ intro “A.D. 1928" e “Rockin’ the paradise”, carico di aspettative, speranze
nel futuro ed entusiastico vigore giovanile (knowing that we can’t lose / and
we’ll be rockin’ in paradise / Rockin’ the paradise tonight), si passerà prima
attraverso le difficoltà della crisi del
1929, con le ristrettezze economiche che non consentiranno mai al giovane
di spiccare il volo proprio verso quel paradise agognato, nonostante sgobbi
duramente per raggiungerlo (You’ve been working and saving for your jamaican
dream, Paradise is waiting across the sea – da “Nothing goes as planned”); e
poi la carneficina devastante della Seconda
Guerra Mondiale, raccontata con intelligente e amara leggerezza in “She
cares” (I tried to be the perfect soldier / I tried to be what everyone said
was expected / […] but deep inside of my heart i knew / That i lacked the will
/ I just couldn’t shoot to kill). Si arriverà infine alla demolizione del
teatro nel 1958. Il consolidato avvento del sonoro, unitamente alla diffusione
della televisione, avevano infatti reso ormai inadatto alle pellicole il Paradise,
che non godeva di un’acustica adeguata a causa di un difetto di progettazione,
portandolo così progressivamente al declino. Al suo posto verrà costruito, in
un cambio di destinazione d’uso
plasticamente emblematico, un supermercato. Del resto, come amaramente ci
ricorda la bellissima “Half-penny - two-penny” Justice for money, what can
you say / this is the american way: così le ragioni economiche ebbero la
prevalenza sulla memoria, il ricordo e l’affetto per i luoghi storici come il Paradise.
Nonostante alla fine dell’ascolto
rimanga una sensazione di incompiutezza, di “vorrei ma non posso”,
probabilmente perché, per questo tipo di dischi, il formato-canzone rimane una
veste troppo stretta, inseriamo gli Styx nella nostra Rassegna per aver
provato, merito alle intenzioni, a dire
qualcosa di nuovo in ambito AOR/pop-rock (un genere non propriamente idoneo
all’utilizzo dei concept), provando a portare in scena una storia e la Storia
della propria città e del proprio Paese.
Con un’amarezza di fondo non di
facciata, sincera e sentita. E
provando a lasciare un messaggio che richiama alla memoria condivisa, come ci
ricordano gli ultimi versi della conclusiva “A.D. 1958”:
And so my friend,
we’ll say goodnight for time has claimed his prize; but tonight can always last as long as we keep the
memories of paradise.
A cura di Morningrise