"Parlare di Musica è come ballare di architettura" Frank Zappa

27 ago 2017

"TIMES OF GRACE" (NEUROSIS) E IL CONCEPIMENTO DEGLI ISIS


In uno dei primi, e probabilmente più importanti, post che sono stati pubblicati su Metal Mirror, il nostro Mementomori sviluppava una lucida analisi sul significato e sull’importanza di “Reign in blood”, monolite misterioso dalla cui venerazione e contatto intere generazioni di musicisti avrebbero sviluppato ulteriori forme di metallo estremo (il death in particolare).

A riprova di tal fatto, si prendevano in considerazione i grandi Obituary, nati, secondo la geniale intuizione del collega, nell’esatto momento della fusione l’una nell’altra di “Altars of sacrifice” e “Jesus saves”. Riprendiamo le sue illuminanti parole: E’ questo l’istante preciso in cui gli Obituary nascono, il punto esatto in cui avviene il contatto fra il monolite e la zampaccia di scimmie pelose che, incuriosite, si avvicinano ballonzolando all'oracolo. E’ in quel momento che Donald Tardy riceve l’illuminazione e grida: “Ecco, cazzo, quello che voglio suonare!".

Tutto questo mi è tornato alla mente ascoltando quel grandissimo, e faticosissimo disco, che è “Times Of Grace” (1999), sesto album dei Neurosis e primo della serie con la decisiva collaborazione di Steve Albini in fase di produzione. Posizionato tra due giganti, “Through silver in blood” (1996) e “A sun that never set” (2001), sarebbe facile vedere TOG come un disco “minore”,  non foss’altro per essere appunto un disco-ponte tra il glorioso passato post-hardcore e l’altrettanto glorioso futuro post/folk metal. Non è così, come peraltro recentemente abbiamo scritto in merito ad altri casi di dischi “ponte”. E’ anch’esso un disco pauroso, enorme. Semplicemente per capirlo appieno, come tutta la discografia dei pionieri californiani, va ascoltato e riascoltato molte volte, fino alla sua metabolizzazione.

TOG contiene diversi brani splendidi, ma oggi ci soffermiamo su “The last you’ll know” che a mio modo di vedere rappresenta per gli Isis quello che per gli Obituary ha rappresentato quella fusione tra i due pezzi degli Slayer di cui sopra. Il momento decisivo in cui mi immagino che Aaron Turner, folgorato, abbia urlato: “Siii, cazzo, è proprio questo che voglio suonare!”.

Il poliedrico musicista del New Mexico non ci è arrivato subito. Ha dovuto affinarsi, fare un po’ di gavetta. E “Celestial” (2000), primo full lenght degli Isis, è proprio questo: presa delle misure, affinamento della proposta.
Già “Oceanic” (2002) invece è piena maturità, consapevolezza, messa a fuoco del proprio stile. Che nasce dai loro “padrini”, i Neurosis appunto (con i quali, non a caso, andarono in tour proprio dopo aver rilasciato “Celestial”).

“The Last You’ll Know” è un brano lungo, di oltre nove minuti, ma già nei primi 10 secondi c’è tutta l’essenza che farà la fortuna degli Isis e renderanno il loro sound immediatamente riconoscibile: riffone introduttivo, seconda chitarra che vi si innesta con un melodico solo-riff, pattern di batteria che segue il tutto dandoci dentro di piatti. Dopo 70” l’atmosfera si fa parzialmente più rilassata (anche se il vocione compresso di Kelly ci martella le meningi senza pietà) per uno sviluppo che è si sempre pesante come un macigno ma che trova una forma di dolcezza, quasi di “quiete sotto la tempesta” nelle linee della tastiera di Noah Landis. Se vogliamo anche la fase centrale, quasi ambient, solcata soltanto dalla consueta, inquietante effettistica del solito Landis e da doomiche pennellate di basso di Dave Edwardson, riporta alla mente soluzioni che gli Isis faranno proprie (penso ad esempio a una canzone strumentale come “Altered course” da “Panopticon”). 

Ma senza stare ad analizzare tutti i 9 minuti di TLYK, bastano davvero quei 10 secondi iniziali per avere un immediato collegamento. Se infatti prendiamo le opening songs degli Isis, “The beginning and the End” da “Oceanic”, o l’epica “So did we” da Panopticon, ci accorgeremo che lo schema è esattamente quello di “The last you’ll know”, negli intrecci delle linee di chitarra (sia nella parte ritmica che portante) che nei patterns di batteria. Forse tutto in versione più “pulita”, più pacata, più “fine”, meno primordiale (ma non meno tesa ed emozionale). Il che del resto è un pò la differenza che potremmo riscontrare, a voler essere formali "etichettatori", tra il post-hardcore e il post-metal.

Non male comunque...10 secondi di "copulazione" con le idee dei propri mentori, ed ecco cosa è riuscito a partorire l'estro artistico di Turner&soci. 

E anche noi, loro fan, a...godere dei risultati!

A cura di Morningrise