Io sono uno di quelli che se
gli spoileri il finale di un film può
diventare molto cattivo. Eppure quando mi sono accomodato in sala e mi sono
preparato a visionare "Dunkirk"
(quello che per il sottoscritto era il film più atteso dell'anno), conoscevo la
trama e sapevo benissimo come le vicende si sarebbero sviluppate e poi concluse.
Chi è stato il bastardo che mi ha svelato il finale del film?
Al di là che si sta parlando
di un fatto storico assai noto (la battaglia, anzi l’evacuazione
di Dunkerque), ci avevano
pensato gli Ulver a rinfrescarmi la
memoria: di fatto il brano "Angelus
Novus" (dall'ultimo album "The Assassination of Julius Ceasar"), che proprio a questa vicenda si
ispirava, mi impose in tempi non sospetti di approfondire l'argomento. Ma se
gli spoilatori sono Kristoffer Rygg e soci, per una volta possiamo essere indulgenti...
Una strana coincidenza quella che vede gli Ulver trattare questa
vicenda storica pochi mesi prima che nelle sale cinematografiche quella stessa vicenda venisse raccontata da Christopher Nolan in quello che da molti sarebbe stato accolto come l'evento cinematografico dell'anno (insieme ovviamente a "Blade Runner 2049").
L'idea che mi feci all'epoca (l'album usciva ad aprile) era che i norvegesi avessero scelto un evento
bellico atipico e dai forti risvolti simbolici, in perfetta armonia con un concept che si addentrava
impietosamente nel labirinto delle
contraddizioni cicliche della storia.
"Tragedies repeat themselves in a perfect circle"...
La storia di Dunkerque porta con sé una ambiguità di fondo: una sconfitta
annunciata per gli Alleati
(rovinosamente costretti alla ritirata dalle armate del Terzo Reich che avevano conquistato praticamente tutta la Francia)
che si rivelò, a conti fatti, una vittoria morale. I contingenti in fuga infatti
riuscirono in gran parte a mettersi in salvo via mare, anche grazie al generoso
supporto di civili inglesi che con le loro barche si preoccuperanno di
riportare i compatrioti dall'altra parte della Manica. Quella che per i "fuggitivi" doveva essere
con quasi certezza una disfatta, si trasformò per loro in un importante (dal punto
psicologico) momento di riscatto da cui prese piede quella grande offensiva che
avrebbe portato a ribaltare le sorti del conflitto.
Questa ambiguità era il senso che affibbiavo alla scelta degli Ulver, ma
con l'uscita del film di Nolan, visto che non credo alle congiunture astrali,
mi è venuto in malafede da pensare
alla malafede di Rygg, che certo ai giochi
di prestigio non è nuovo. Ho scoperto così che il film era stato annunciato
da tempo (già i primi trailer
circolavano nel dicembre 2016) e sicuramemte Rygg ne ha approfittato per confezionare
l'ennesimo intelligente incastro
"spazio-temporale" di cui è straboccante l'ultimo lavoro dei Lupi. Il fatto che "Nemoralia" tiri in ballo Lady Diana proprio nell'anno in cui si
è andati a celebrare il ventesimo anniversario della sua morte andrebbe ad avvalorare
questa mia tesi.
Torniamo a noi. C'è chi
sostiene che “Dunkirk” non sia un film
di guerra, che Nolan abbia scelto il contesto di un evento bellico per
esprimere quelle che sono le sue ossessioni come autore (una su tutte: il tempo). Io sono invece della scuola di
pensiero secondo cui il film sia veramente un film di guerra, benché
l'approccio al tema sia sostanzialmente diverso da come siamo abituati a
vederlo trattare davanti alla cinepresa. Per certi aspetti potremmo dire che
"Dunkirk" rivoluziona il cinema bellico, anche se poi è difficile
prevedere quali saranno le conseguenze, visto che il modo di fare cinema di
Nolan (virtuoso come pochi) non è facilmente replicabile.
Anzitutto non c'è quella
sensazione di reverenza, quel guardare dal
basso in alto ciò che accade sul palcoscenico
della guerra; anzi, le vicende sono trattate con fin troppa disinvoltura, senza
enfasi. Non abbiamo una storia principale e non abbiamo un vero protagonista
(l'impianto del film è corale), non abbiamo scene madri (solo una frenetica
lotta contro il tempo), né gesta eroiche (al massimo qualche scelta etica che,
sempre affogata nella foga di mettersi in salvo o di mettere in salvo, non
imbastisce una vera e propria psicologia del "combattente
traumatizzato" o dell'"esterrefatto testimone"). Non c'è sangue
(a guardar bene non vi è nemmeno un vero e proprio scontro fra fazioni opposte,
salvo qualche combattimento aereo) e non vi sono nemici visibili (mai
inquadrati, tenuti accuratamente fuori dal campo visivo e smaterializzati come
minaccia invisibile e incombente, tutt'al più tratteggiati come ombre).
Tutto questo ed altro fanno di
"Dunkirk" un anomalo film di guerra, questione oziosa, se vogliamo,
innanzi a quello che probabilmente è ad oggi il capolavoro formale di Nolan: opera impeccabile nell'impianto,
rigorosa nello sviluppo, prodigiosa da un punto di vista tecnico e lodevole nel
saper conservare gli intenti autoriali, senza cedere alle lusinghe
dell'"azione per l'azione" o del cinema di puro intrattenimento.
Che visione della guerra ci
consegna "Dunkirk"? Una guerra sicuramente
piegata alle esigenze espressive di Nolan; una guerra che, proprio perché
implacabile, asfissiante, letale in ogni suo frangente, finisce per apparirci
coreografata, elegantemente incalzata da una colonna sonora straordinaria che si
incastona perfettamente nel susseguirsi dalle scene. E dunque, proprio per
permettere che le riprese fluiscano senza ostacoli, gli accadimenti caotici ed
imprevedibili della guerra vengono ammaestrati, disposti
"ordinatamente" in una sorta di sinfonia
che si muove attraverso il meccanismo
della tensione e del rilascio. Le bombe cascano con perfetto tempismo,
uccidendo e graziando a seconda di quelli che sono i fini narrativi; il livello
dell'acqua che sale sembra arrivare proprio al punto massimo di pericolosità
prima che si metta in salvo chi deve arrivare alla fine del film; le navi
affondano con grazia, posizionandosi in inclinazioni che garantiscono il
massimo della spettacolarità, come del resto accade alle pieghe prese dagli
aeroplani in cielo e così via.
Una fotografia bellissima ed
una ricostruzione maniacale dei dettagli d'epoca alimentano questa impressione
di "guerra patinata, laccata",
che non è un difetto, ma una diretta conseguenza della scelta consapevole di spostare il focus dall'individuo all'azione collettiva
in relazione allo spazio ed al tempo (ben tre i piani temporali che si
intrecciano in classico stile nolaniano
per complicare ulteriormente la visione). Un insieme di cose che
tuttavia collide, stride con la natura irrazionale e sgraziata della guerra (ma di
questo ce ne renderemo conto a mente fredda con il riaccendersi delle luci in
sala, perché durante la proiezione sarà impossibile abbandonarsi a
riflessioni).
A guardar bene, la guerra raccontata dagli Ulver dà la
medesima sensazione di carneficina senza
sangue, di tragedia che si sviluppa a passo di
danza.
Da sempre la guerra è, per ovvi
motivi, un tema ampiamente trattato nel metal,
che di essa ne va ad esplorare principalmente i caratteri di violenza e di desolazione sulla psiche di chi combatte. Esempi eclatanti di
queste due approcci ce li offrono gli Slayer
(e come potevano mancare?) con "Mandatory Suicide" (qui Araya e soci ci parlavano del Vietnam)
e il buon Lemmy (che passa persino
come esperto di storia!) con la struggente ballata "1916" (Prima Guerra Mondiale, ovviamente).
Gli Ulver sicuramente non sono
interessati alla violenza, visto che da parecchi anni la loro veste non è più
quella del metal. Ma non sono nemmeno interessati allo scavo psicologico,
perché la loro arte, radicata nel retroterra culturale dell'avanguardia, non si
può permettere nemmeno di scivolare nell'ovvio, nella prevedibilità, nella
retorica. Come Nolan, anzitutto, Rygg e soci ci restituiscono una visione corale della guerra, dove
l'individuo scompare in un tragico anonimato. Ma a contrario dell'inglese
Nolan, che finisce per pagare dazio al sentimentalismo patriottico, gli Ulver
ci offrono una lettura cinica della storia, perché non sono inglesi ma norvegesi,
e dunque per loro Dunkerque non è un "miracolo" (come lo definisce
Nolan all'inizio del film), ma uno dei tanti anelli di cui si compone l"infinita" (come la “endless
beach” evocata nel testo) catena di sangue che
costituisce la spina dorsale della Storia.
Essi dunque non ci restituiscono Dunkerque come un singolo episodio, ma come una disfatta per l'umanità
intera. Un cinismo, quello degli Ulver, non estraneo alla sofferenza, che è una
sofferenza che potremmo definire "intellettuale", in quanto la guerra
non solo uccide, ma contraddice la ragione. Emblematiche a tal riguardo, le parole "First the dead, then the living". Parole
che si scrollano di dosso la retorica patriottica che pervade ancora il film di
Nolan (la generosità, il coraggio, lo spirito di abnegazione dei civili
impegnati nelle rischiose operazioni di soccorso; la lettura del discorso di Churchill), per rimettere in primo
piano il tema centrale nella guerra: la Morte.
Non degli uomini, ma dell'Uomo: vittima sacrificale di una
Storia che lo vede più come pedina che come protagonista. Prima i morti, appunto, perché all'occorrenza possono essere più
utili dei vivi.
I norvegesi cuciono intorno a
questa concezione una elegante veste synth-pop che
predilige i toni elegiaci ed una solennità che sa mettere insieme, come
d'incanto, David Sylvian e Tangerine Dream. Sì, probabilmente è il
brano più intenso del platter, ma
anche un modo beffardo, sicuramente atipico, di mettere in scena la guerra.
Musicalmente siamo agli antipodi della corsa frenetica dell'elettronica
pulsante ed irrequieta ammaestrata da quel genio delle colonne sonore che risponde
al nome di Hans Zimmer.
Eppure, durante i titoli di coda di "Dunkirk", "Angelus Novus" ci sarebbe
potuta anche stare....