I 10 MIGLIORI ALBUM A.O.R.
CAPITOLO 9: WINGER - "WINGER" (1988)
“Winger, i fuoriusciti alla
riscossa”; “Winger, Glam metal fuori tempo massimo”.
Ho avuto l’imbarazzo della scelta
per titolare questo post sui Winger.
Alla fine ho optato per utilizzarne uno che potesse dare da subito la
connotazione musicale al loro omonimo debut.
Ma anche gli altri due suriportati avrebbero
potuto calzare a pennello per la band di Charles Frederick Kip Winger, da tutti
conosciuto “solo” come Kip Winger.
I Winger infatti sono dei fuoriusciti (sostantivo usato con un accezione neutra e non negativa) da
band decisamente più “importanti” e famose. Kip infatti era reduce da
un’esperienza importantissima con Alice Cooper, col quale aveva suonato il
basso in “Constrictor” (1986) e “Raise your fist and yell” (1987); alle registrazioni di
quest’ultimo aveva conosciuto il tastierista Paul Taylor, anch'egli imbarcato subito nel nuovo progetto; mentre Rod Morgenstein, il batterista, aveva
militato con i Dixie Dregs di Steve Morse (e scusate se è poco…).
Il debut album dei Winger,
decisamente radio oriented, è un album che i fissati delle catalogazioni
definirebbero fondamentalmente glam. Un’etichetta che troverebbe
giustificazione, oltre che nel sound tipicamente ottantiano, anche nel
look dei quattro baldi giovani: capelli stra-vaporosi, pantaloni attillati,
pettorali in bella mostra, pose ammiccanti e atteggiamento provocante.
Ma perché avremmo potuto definire
il glam dei Winger fuori tempo massimo, posto che “Winger” ebbe un successo
abnorme di vendite? Perché il disco uscì nell’88,
anno in cui il Glam metal si stava decisamente rinnovando dall’interno,
prendendo le intriganti pieghe sleazy (Guns n’ Roses, L.A. Guns) e heavy (Skid
Row) come i lettori che hanno seguito la nostra rassegna sul Glam già sanno.
I Winger però fecero le cose per
bene, in modo intelligente, perché andarono a pescare tutte quelle influenze
della decade che fecero grande il glam, proponendo un sound robusto, melodico
ma affilato, diretto ma al contempo non banale, con qualche tocco sinfonico e misurate dosi progressive. Una miscela semplice&complessa assieme. La migliore caratteristica di “Winger” infatti è che lo si può
ascoltare a diversi livelli di fruizione: in maniera "superficiale", giusto per
passare il tempo; in cuffia, magari facendo le pulizie di casa o la spesa al
supermercato; o in macchina per farsi compagnia durante un lungo viaggio; oppure
con un ascolto più dedicato e attento. E in quest’ultima modalità si
scopriranno dettagli importanti, una cura negli arrangiamenti che fanno
rivalutare il lavoro di Kip e dei suo compagni e in particolare quello di Reb
Beach, chitarrista di ottimo livello.
Ovviamente ritroviamo le caratteristiche tipiche dell’AOR (sennò non starebbero nella nostra classifica), con cori ariosi, tastiere in bella mostra e canzoni “ruffiane”, tanto che le hits sparse all’interno dell’album si sprecano: dall’immortale “Madalaine” (da brividi i suoi primi secondi di chitarra arpeggiata) alla bellissima “Hungry”, con un atipico violino introduttivo; dalla riuscitissima e ipervitaminizzata cover hendrixiana di “Purple Haze” (Jimi avrà apprezzato dall’aldilà) al bombastico finale di “Headed for a heartbrake”. E se la piaciona “Seventeen” vi farà storcere il naso, subito dopo si viene ripagati dalla gemma nascosta del disco, quella “Without the night” che è a tutti gli effetti una ballad atipica, davvero struggente e ben riuscita.
Non bisogna farsi ingannare
quindi dalla costruzione canonica dei brani (sempre composti con la sequenza
strofa / bridge / chorus / strofa / bridge / chorus / assolo / chorus) perché qua siamo di
fronte a professionisti dei propri strumenti, visto che Kip ebbe una
formazione giovanile basata sulla musica classica, studiandola attraverso i grandi compositori francesi e russi; Beach studiò al Berklee
College e Morgenstein attualmente ci sta addirittura insegnando al Berklee!
Facile capire perciò, al netto della copertina del disco (agghiacciante) e dei
testi tipici del genere (ancor più agghiaccianti), come la musica di “Winger”
sia di elevata qualità, resa ancor più scintillante dalla produzione di Beau
Hill, guru del mixer che aveva lavorato con tante altre band hard rock/AOR
(Ratt, Europe, Warrant per citare le più famose).
Insomma, un’ottima testimonianza
di quello che era il lato più fashion dell’AOR di fine anni ottanta. Un genere che sarebbe entrato in crisi, come già scritto, con l’avvento del grunge. Ma che
ancora riusciva ad assestare colpi importanti. Talmente importanti che l’anno
successivo ne arrivò uno di proporzioni enormi…un album che sarebbe diventato uno standard definitivo con cui confrontarsi…
E questo ad opera dei "giganti" del genere...
I...
A cura di Morningrise