I MIGLIORI DIECI BRANI “LUNGHI” DEL METAL
FUORI CONCORSO: “2112” (RUSH)
Durata: 20:34
Nell'anteprima abbiamo elencato almeno una quindicina di band
degli anni sessanta e settanta che seppero, con risultati egregi, dedicarsi a
brani di elevata/elevatissima durata. Perché allora concedere uno spazio
proprio ai Rush?
Anzitutto perché, sebbene i canadesi portino sulla
loro capoccia l’etichetta del progressive, essi sono da sempre collocati
in quella zona nebbiosa in cui rock ed heavy si confondono, come se i due generi
se li contendessero, tirassero loro la giacchetta, strattonandoli un po’ di qua
e un po’ di là. Se definire i Rush una band heavy metal tout-court suona
comunque come una forzatura, è innegabile come il loro approccio duro e potente
li avvicini all'universo metal. Non è un caso che molte band metal, e non solo
quelle progressive (Dream Theater, Fates Warning, Symphony X
ecc.), ma anche gente come i Metallica, li abbiano indicati fra le loro
influenze fondamentali.
Ma sebbene ci rafforzino le opinioni di John Petrucci e Lars
Ulrich, la nostra è stata principalmente una scelta istintuale: nel pianificare
lo sviluppo di questa rassegna, abbiamo avuto fin da principio la convinzione
che “2112” (non
l’album, ma il brano) fosse il capostipite di tutti i brani veramente lunghi
germogliati all’interno dei confini del Reame del Metallo.
Due brevi cenni storici per contestualizzare. “2112” (l’album, non il brano),
pubblicato nel 1976, è il quarto parto discografico del trio canadese,
nonché un importante punto di snodo della loro carriera: l’opera di rottura che
non solo li ha portati alla consacrazione definitiva, ma che ha incanalato il
loro percorso in una nuova carreggiata artistica che li ha condotti
dall'hard-rock delle origini a partiture sempre più sofisticate e cervellotiche.
La chiameranno, non a caso, la fase progressiva dei Rush.
Ne è la prova la title-track, mastodontica
composizione dalla durata di 20:34, e suddivisa in ben sette atti:
i) “Overture”
ii) “The
Temples of Syrinxs”
iii) “Discovery”
iv) “Presentation”
v) “Oracle:
The Dream”
vi) “Soliloquy”
vii) “Grand Finale”
Chi mastica un po' d'inglese avrà capito che le tematiche trattate
sono di genere fantasy; i più perspicaci avranno intuito che siamo dalle parti
della fantascienza. Il concept che sta alla base del pezzo, scaturito
dalla penna del batterista Neil Peart, ed ispirato al romanzo “La
vita è nostra” della scrittrice Ayn
Rand, ricalca gli schemi della letteratura distopica di cui autori
come Huxley ed Orwell sono stati illustri esponenti nel corso del
novecento. Nell’anno 2112, appunto, la terra è una specie di colonia
tiranneggiata dai sacerdoti del Tempio dei Syrinx: personaggi
indubbiamente malvagi, sorta di talebani intergalattici che non hanno
niente di meglio da fare che proibire agli uomini ogni possibile svago, dai
libri alla musica. Ecco in breve cosa succede: il protagonista della nostra
storia, un umano, trova un giorno in una grotta, a mo’ di reperto archeologico,
una chitarra, che impara a suonare e ad amare, riscoprendo in sé un lato della
sua umanità che prima non conosceva. I pretacci gliela rompono e lui si
ammazza per la tristezza, non prima però di aver avuto un sogno rivelatore in
cui gli veniva svelata l’esistenza di un mondo meraviglioso, il quale non era
altro che il luogo dove nel frattempo si era rifugiata la “razza antica”, ossia
i terrestri superstiti della mega-guerra fra galassie del 2062. Il finale è
ambiguo: non si capisce bene, infatti, se le parole conclusive “Attenzione,
pianeti della galassia: abbiamo finalmente assunto il controllo” stiano ad
anticipare la riscossa della “razza antica”, che libererà la galassia rovesciando
il regime dei Syrinx, oppure significhino l’esatto contrario, ossia che i
malvagi tiranni abbiano rinsaldato definitivamente il proprio potere.
Francamente la storia non mi sembra niente di eccezionale.
Più che altro mi sta un po’ sul cazzo quell’atteggiamento autoreferenziale
del rock che deve per forza parlare di rock o di musica o di fatti
ed eventi legati alla musica ed alla sensibilità del musicista. La stessa metafora
della chitarra come simbolo di libertà e libera espressione è un’immagine
frusta, abusata, desueta anche per l’epoca, che fa molto “musical” flower-power-da
tempi-di-contestazione (mi viene in mente “Jesus Christ Superstar”)
in cui il rock, pur nelle sue forme più intellettuali, doveva ancora scendere a
patti con la sua natura ribelle ed anticonformista.
Guardando in avanti, troviamo già diverse assonanze con il
mondo del metal. Come per esempio l’adozione dell’immaginario
“fantascienza/fantasy” quale metafora per intavolare una discussione sulla
società: da questo punto di vista, la poesia visionaria ed esistenzialista di
un Peter Hammill (Van der Graaf Generator) descriveva una
distanza incolmabile fra il poeta e il rocker, categoria a cui i Rush
continuavano fieramente ad appartenere. Il fatto poi del concept a
tema musicale è un elemento che incontreremo più volte, da “Streets – A
Rock Opera” dei Savatage a “The Crimson Idol” degli W.A.S.P.,
entrambi gravitanti intorno alla figura maledetta dell’artista metal.
Passiamo alla musica. Dalla struttura in sette
“movimenti” evinciamo che si tratta di una suite nella sua forma
più classica, con tanto di “Overture” e “Grand Finale” posti
rispettivamente in principio ed alla fine dell’opera. Da qui discende un modo
di procedere per episodi, condotti diligentemente lungo i binari dell’impianto
narrativo. Ma anche musicalmente, seppur essi abbiano una loro autonomia (ed in
certi casi vi siano persino delle vere pause fra di loro), i vari “pezzi” sono
legati assai bene, nel rispetto di un’alternanza che vede contrapposte parti
elettriche ed urlate (rappresentanti la “voce” dei cattivi Syrink) e parti
acustiche e maggiormente pacate (la “voce” del protagonista).
Nel calderone, pertanto, troveremo canzoni vere e proprie
(dal classico brano rock alla folk-ballad), intervallate
da robuste porzioni strumentali e momenti “d’ambiente” (suoni, effetti,
fraseggi acustici ecc.), chiamati a cementare i passaggi da una sezione
all’altra. Logico che la perizia tecnica dei musicisti aiuta a coronare
un’opera ambiziosa quale è quella di cui stiamo parlando (un brano di venti
minuti con una sua identità che non sia solamente delineata dal concept
lirico). Geddy Lee (basso e voce), Alex Lifeson (chitarra) e il
già citato Neil Peart (batteria) danno del tu ai propri strumenti e la
loro coesione permette di amalgamare granitico hard-rock con i funambolismi che
sono tipici del progressive.
Devo dire che quando mi avvicinai per la prima volta a “2112” rimasi un tantino deluso.
Aspettandomi un sound sì pesante ma anche ricercato ed elegante, ebbi un
istante di imbarazzo nell’imbattermi in un hard-rock baldanzoso di chiara
marca zeppeliniana e pure infestato dalla voce maschia ed acutissima
di Lee (palesemente tributario dell’estro di Robert Plant). Saranno gli
svariati ascolti a svelare le finezze del brano, che continua negli anni a
stupire per la sua forza, la sua energia, per la sua capacità di farti
trascorrere venti minuti come se fossero un bicchier d’acqua.
Personalmente parlando, adoro il lavoro chitarristico del virtuoso Lifeson,
autore di riff travolgenti e pregevoli assolo che già odorano di heavy
metal bello e buono. Come non pensare, del resto, ad act quali Iron
Maiden e Judas Priest nell’epica cavalcata iniziale di “Overture”, o
nella fulminante accelerazione, con tanto di assolo strepitoso, alla fine della
quarta sezione (“Presentation”)? Comprensibile, del resto, che laddove la
chitarra è una delle “figure” portanti dell’impianto narrativo, essa stessa
venga poi a ritagliarsi grandi momenti di protagonismo nella “musicazione”
delle vicende narrate.
Un’altra nota a mio parere stonata è che il concept
non viene supportato, come ci si poteva aspettare, da quegli effetti speciali da
kolossal fantascientifico che avrebbero permesso all’ascoltatore di
meglio immedesimarsi nelle vicende. Gli iniziali rumorini spaziali di
tastiera analogica (la mitica ARP Odissey) e la voce effettata/megafonata
chiamata a chiudere il sipario nel finale, sono gli unici espliciti richiami a
quelle ambientazioni “galattiche” in cui si svolgono i fatti. E dire che
Tangerine Dream e Cluster già da anni insegnavano a mettere in musica scenari
squisitamente cosmici.
Come tante produzioni cinematografiche degli anni sessanta e
settanta, che non potevano disporre di elevati budget e pertanto si
vedevano spesso costretti a ricorrere alla scusa dell’”oasi primitiva” sopravissuta
in un futuro sconquassato dal disastro ambientale (sfruttando così come set
qualche economico boschetto con ruscello, dove magari poter collocare la
seducente “selvaggia ultra-figa” che fa il bagno nuda, sotto gli occhi
strabuzzanti dell’astronauta di turno), così i Rush decidono di ricreare scenari
bucolici (l’acqua che scorre, chitarre acustiche sornione che ricordano più
situazioni da camping di figli dei fiori, che un futuro nefasto),
rivelandosi concettualmente incapaci di trascendere la loro epoca.
Del resto i Rush sono metallari anche in questo: cazzuti,
ambiziosi, tecnicamente dotati, ma spesso senza quella capacità empatica che
permette di comunicare all’ascoltatore determinate sensazioni che non siano
strettamente legate alla musica. Ma è musicalmente che la suite “2112” fa innamorare di sé:
impossibile, infatti, non rimanere paralizzati di stupore innanzi alla bravura
ed alla fluidità con cui i tre riescono a passare da momenti più pacati alla
violenza vera dell’heavy (sì, in certi frangenti è lecito parlare di metal!). Ed
è proprio questa componente rock, se volete anche tamarra, a rendere i
Rush diversi da tutte le altre coeve band progressive: con i Rush il rock
pesante dà alla luce il suo primo vero brano di elevatissima durata.
Avanti i prossimi…