"Parlare di Musica è come ballare di architettura" Frank Zappa

24 feb 2018

DA "THE ASTONISHING" A "BELOVED ANTICHRIST": L'ARROGANZA DI PETRUCCI E IL SENSO DEGLI ALBUM LUNGHI OGGI


L'uscita dell'ultima fatica discografica dei Therion (quel "Beloved Antichrist" da anni in cantiere nella mente di Christofer Johnsson e poi concretizzatosi nel 2018 sotto forma di triplo album), mi ha portato a riflettere sul senso degli album lunghi.
Il senso degli album lunghi oggi, intendo: necessità artistica o sfizio d'autore?

Non discuto i contenuti del lavoro dei Therion, che non ho ascoltato e che non ho intenzione di ascoltare (perché, onestamente parlando, per quanto mi piacciano gli svedesi, non ho tempo per ascoltare tre CD per tre ore a passa di musica - chissà, forse lo ascolterò quando e se andrò in pensione): il mio non vuole infatti essere un discorso artistico, bensì sociologico.
Ad introdurre la giusta chiave di lettura è come al solito John Petrucci, che di album lunghi se ne intende. Alla vigilia dell'uscita di "The Astonishing" (centotrenta minuti di virtuosistica melassa theateriana), il Nostro ci teneva a sostenere che, in una epoca di ascolti "mordi-e-fuggi", il suo intento era quello di costringere il fan a prendersi il suo tempo e a predisporsi ad un ascolto attivo, attento. Facile la vita per un artista ultra-affermato che può contare su una vasta schiera di fan-maniaci che usufruiscono in modo incondizionato della sua arte. Cioè: suoni nei Dream Theater, imponi due ore e passa di musica e sai per certo che qualcuno ti ascolterà. Questa è arroganza bella e buona. Ma chi altri se lo può permettere?
Pochi, veramente pochi. Per esempio Christofer Johnsson no. Sono contento che un autore di tal spessore e con tali ambizioni possa permettersi di esprimersi ad un livello simile (meno contenta sarà stata la Nuclear Blast, visto che operazioni di questo tipo sono sicuramente più costose che redditizie: l'etichetta tedesca in genere ci vede lungo, ricordiamoci che già anni fa si rifiutò di supportare la pubblicazione del fallimentare "Le Fleurs du Mal", che il buon Johnsson dovette pagarsi di tasca propria). Ma da ascoltatore mi chiedo: chi ha tutto questo tempo per ascoltare l'ultima rock opera dei Therion? E chi, fra questi curiosi, avrà il tempo di approfondirla adeguatamente?
Se ci si pensa bene, nessuno: i vecchi fan sono oramai padri di famiglia che se va bene hanno venti minuti per ascoltare metal al mattino mentre cagano; i giovani è già tanto se hanno la costanza e l'attenzione per ascoltare più di due brani su YouTube. Pensiamo all'evoluzione che i social hanno vissuto nel corso degli ultimi dieci anni: da Facebook, che rimane un veicolatore di contenuti (foto, video, scritti, chat, messaggi, link ecc.), a Instagram, un medium fatto pressoché di scatti fotografici: il modo più immediato e veloce di comunicare.
E' questo il paradosso dei tempi moderni: vogliamo di più ma non abbiamo tempo né pazienza. Spesso si fa coincidere quantità con generosità, ma ai tempi di oggi, bombardati da milioni di input, con la possibilità di accedere gratuitamente ad una infinità di informazioni e materiale da ascoltare, con una curiosità accresciuta in modo smisurato per via degli stimoli offerti dalla rete, non sarebbe più etico da parte di un artista (che davvero ama i propri fan) sforzarsi di lavorare di sintesi? Condensare le proprie idee in quaranta minuti piuttosto che in centocinquanta o duecento?
Anche perché si parla di band (Therion, Dream Theater) che hanno alle spalle circa trenta anni di carriera: come possono permettersi di imporsi oggi con tre ore di musica band che vivono una conclamata fase di calo? E poi che musica fanno queste band? Non si parla di psichedelia, dilatazioni, assenze, ma di musica suonata, assemblata, arrangiata, orchestrata, un groviglio di spartiti, passaggi strumentali, voci, storie complicate, concept dai temi da approfondire ecc. Insomma, viene in mente la lontana parente che, al pranzo delle feste, vi propina antipasti infiniti, due o tre primi, altrettanti secondi, dolce, caffè, ammazza-caffè, fino a farvi scoppiare. O quelle osterie di provincia che portano avanti la vecchia filosofia (nata giustamente nel dopoguerra, ma divenuta poi con il tempo obsoleta) del “più si mangia e meglio è”, a prescindere da quello che si mangia: forse a sedici anni poteva andare bene, ma oggi?
Per capirci: pensate a "The Wall", forse il più bel doppio album della storia del rock! Quanta "roba" c'è in "The Wall" in soli ottanta minuti? Come poter comunicare di più e meglio? I Pink Floyd (anzi, Roger Waters) seppero dire tantissimo a livello biografico, storico, sociologico, musicale, artistico. Ma senza scomodare i grandi del rock (penso anche a "Quadrophenia" dei Who), basterebbe avere in mente i Queensryche del capolavoro "Operation: Mindcrime": quante cose ci hanno raccontato, quante emozioni ci hanno regalato Geoff Tate e soci in quei cinquantanove minuti? Non ci credo che un Petrucci o un Johnsson possano oggi dire di più, che abbiano bisogno di tre ore per dire di più.
Questa è pigrizia o incapacità di sapersi arginare, di saper scegliere i contenuti e saperli disporre in un equilibrio dotato di senso (in fondo anche questo è un tipo di talento o dono artistico). Soprattutto se si parla di professionisti scafati ed abituati da anni a calcare la scena, perché le opere lunghe (quelle riuscite) sono spesso il giusto punto di incontro fra tracotanza comunicativa e stato di grazia compositiva, che è tipico della band al top della forma e dell’ispirazione. Ma quantità e stanchezza compositiva messe insieme fanno una bestia bicefala dalle enormi capacità distruttive.
Soprattutto in questa era dove il tempo è più prezioso che mai, in cui ci vorrebbero opere-istantanee ("instagramianamente" parlando) basate su un rapporto quantità/contenuti come accadeva in "Reign in Blood"...
O, più semplicemente, prodotti ispirati, a prescindere dalla loro lunghezza...
A parte ovviamente l'ultimo dei Tool: quello ci va bene anche se dura sei ore...