"Parlare di Musica è come ballare di architettura" Frank Zappa

30 mar 2020

IL METAL AI TEMPI DEL CORONAVIRUS: "VIRUS" (IRON MAIDEN)


“There's an evil virus that's threatening mankind”   

Con queste parole si apre “Virus”, singolo di lancio, nonché unica traccia inedita della compilationBest of the Beast”, anno 1996. Un episodio di per sé mediocre, giustamente presto finito nel dimenticatoio: il classico brano bolso dell’era Blaze, con incipit arpeggiato, corpo claudicante e un ritornello che abbiamo (e avremmo sentito) svariate volte nel corso di quel lustro in cui l’ex Wolfsbane ha militato negli Iron Maiden.

Ci si avviava del resto verso quel “Virtual XI” che avrebbe rappresentato uno dei momenti più deludenti della storia della Vergine. Ma il virus per gli Iron non è stato Blaze, bensì una fiacchezza compositiva che era partita prima del suo ingresso nella band e che per certi aspetti si sarebbe protratta anche con il ritorno di Dickinson.

“Virus” non si salva dunque dal morbo del mestiere, che da anni aveva infettato le produzioni di una band così leggendaria come gli Iron Maiden. Parlando di epidemia, c'è comunque da ammettere che, rispetto agli altri colleghi metallici, i Nostri ci risparmiano perlomeno scenari di carneficina e devastazione apocalittica del tutto scollegati dalla realtà.

Per Steve Harris e soci il virus rappresenta il dilagare di una decadenza che infesta il mondo intero: cupidigia, ipocrisia, tradimento e mancanza di scrupoli che si propagano a partire di una corrotta ed avida élite attraverso le nuove tecnologie e i mezzi di comunicazione. Una profezia, questa, che gli Iron ci raccontavano in tempi in cui Internet, pur lontano dalla diffusione capillare che avrebbe avuto alla fine della decade novantiana, si stava infiltrando nella società come un fenomeno dalle implicazioni inedite e dunque guardato con quella stessa diffidenza con cui certa letteratura  sci-fi da sempre tratta le innovazioni tecnologiche che sembrano avere drastiche ripercussioni sulla vita sociale (la copertina del singolo di "Virus", peraltro, richiamava proprio quel tipo di immaginario).

Comunicazione, Internet. All’inizio della faccenda del coronavirus, quando in Italia ancora non si realizzava l’enormità del fenomeno in tutte le sue sfaccettature e implicazioni socio-economiche, si diceva che il vero virus è la paura, e per certi aspetti la cosa mi trova ancora d’accordo. Ma oggi più che mai mi sento di dire che anche la comunicazione è un tremendo veleno, e non mi riferisco solo a quella politica (un isterico balletto fra chi cercava di tranquillizzare i mercati invitando a condurre una vita normale e chi invece diffondeva panico proponendo fin da subito misure drastiche). Ci sono anche i social, che già fanno schifo a cose normali, ma che in queste circostanze fanno veramente venire il desiderio che la pandemia spazzi via dalla faccia della terra l’umanità intera.

La situazione che viviamo è estremamente complessa, la minaccia inedita ci coglie impreparati, persino gli esperti (e i governi) brancolano nel buio: dato tutto questo, non c’era affatto bisogno che chiunque potesse esternare la sua opinione e condividerla con il resto del mondo. Sfoghi deliranti, impeti di razzismo, fake news, meme idioti, gif animati, video di indubbio gusto, zuccherosi messaggi di speranza e, in generale, una retorica davvero stucchevole che ci avvolge e che in qualche maniera ci invischia in una melassa di psicosi collettiva e mediocrità.

Se è stato detto che un’epidemia è democratica nel senso che colpisce chiunque a prescindere dalla classe sociale di appartenenza e dal paese di origine, possiamo oggi sostenere che il coronavirus è l'ecatombe ed insieme l'apoteosi dell’uomo medio, perché è l’uomo medio che si erge indiscusso sulla Rete, fra post di Facebook, storie su Instagram, video su Youtube e catene di Sant’Antonio su WhatsApp, il tutto amplificato da una clausura forzata che costringe la gente a perdersi in praterie di tempo sconfinate.

Quel tempo che nella "vita normale" tanto desideravamo, che ci sfuggiva in una quotidianità di lavoro ed impegni più o meno indispensabili, adesso che c’è ed è a nostra disposizione, rimane un patrimonio sprecato, prelibatezza lasciata a marcire. E quando potremmo finalmente cimentarci in qualcosa di impegnativo  ma appagante come la lettura di un buon libro (non per fare gli antipatici a tutti i costi, ma non poteva essere la volta buona per "Alla ricerca del tempo perduto" di Proust?), oppure imparare qualcosa di nuovo tramite un corso online, ecco che preferiamo in modo compulsivo volgere lo sguardo ai nostri telefonini o sui nostri computer, a buttare letteralmente via quella vita che adesso, paradossalmente, abbiamo tanto paura di perdere o sacrificare.

E se dunque, fra le ultime notizie sul coronavirus, una serie su Netflix e la fitta rete di messaggi su WhatsApp, non abbiamo tempo per fare qualcosa di costruttivo o salutare, cogliamo almeno l'occasione che ci offre questa "Virus" per riscoprire una compilation esaustiva come "The Best of the Beast", perlomeno nella sua versione doppio-cd: ventisei brani che, dalla stessa "Virus e poi a seguire "The Sign of Cross", fino alla antesignana "Iron Maiden" (nella versione di "The Soundhouse Tapes"!), ripercorre curiosamente a ritroso la straordinaria storia della Vergine!

To be continued...

(Vedi le altre puntate della rassegna)