"Parlare di Musica è come ballare di architettura" Frank Zappa

6 giu 2015

BOLT THROWER: IL GRIND CHE MIA NONNA NON POTÈ MAI ASCOLTARE


Quando ero adolescente, mai stato in discoteca.
Una delle cose che mi piaceva fare il Sabato era ascoltare i racconti di mia nonna, racconti del passato. Erano sempre gli stessi, come rileggere un libro di fiabe. Sapevi che li avresti riascoltati immutati. Qualche variazione, dettagli, una serie infinita di possibili versioni intorno ad alcuni pilastri narrativi, talmente costanti da essere riprodotti con le stesse parole, le stesse espressioni, la stessa gestualità di accompagnamento. Insomma, molti credevano che io fossi il nipote buono che sopportava la nonna ormai demente. Assolutamente no: io ci andavo apposta a farmi raccontare sempre le stesse storie. Spesso fantasiose, con elementi inventati e futuribili, perché mia nonna in parte si era aggiustata il passato così come lo voleva raccontare, come lo avrebbe voluto. Un Fantapassato.
Ad esempio mio padre non era nato sotto i bombardamenti nel '43, ma a lei piaceva raccontare questo. Mia nonna era anche da tempo quasi completamente sorda, per cui ad esempio quando cucinava sbatacchiava le pentole con un fragore infernale.
Tutto questo per poi arrivare a dire come mai mi potessero piacere i Bolt Thrower, che come mia nonna cianciano di guerre reali o immaginarie, e fanno un gran fracasso assordante montando e rimontando le stesse costruzioni musicali.



Questo Lego-metal o brick-metal è la cifra stilistica dei Bolt Thrower che iniziarono come gruppo grind, o meglio di avanguardia rumoristica (scuderia Earache Records) e funziona così: i Bolt Thrower scompongono la struttura di un pezzo in mattoncini di lunghezza variabile, li colorano e assegnano un numero. Ogni tanto inventano un pezzo nuovo, oppure pezzi più complessi ma sempre assemblando pezzi più piccoli già disponibili. Pezzi di primo e secondo livello. I Bolt Thrower hanno un'autonomia per un numero di dischi enorme, per un meccanismo di moltiplicazione geometrica delle possibilità di assemblaggio.

Numerosi sono i gruppi che in teoria potrebbero fare questo, ad esempio gli AC/DC, i Motorhead, ma in questi casi il 90% dei possibili assemblaggi non funziona, non è orecchiabile, non intrattiene. Mentre ad un gruppo che intrattiene è paragonabile ad un'auto e quindi deve essere o veloce, o bella da vedersi, o curiosa nel design, insomma qualcosa deve avere di distintivo, un gruppo grind è paragonabile a un trattore, un tritare continuo e quadrato.
Questo il segreto dei Bolt Thrower, una fabbrica di trattori di colore e foggia diversa, teoricamente infiniti ed equivalenti.

Il grind dei Bolt Thrower era un po' diverso dal grind così come si definisce con i primi Napalm death, cioè veloce, furioso e minimalista.
Si potrebbe paragonare ad una sfera che racchiude il caos, come quel trucco magico della sfera con i fulmini dentro che partono dal centro luminoso e si appiccicano alle pareti, un giochino elettrico d'arredamento che usava qualche anno fa. L'illusione sta nel fatto che il fulmine, così nel gioco come nella realtà, non è una sfuriata del cielo, ma è il risultato di una differenza di potenziale tra due punti.
Senza l'ordine, nessun caos può esplodere, anzi può esistere, perché il caos esiste solo come moto disordinante. Nella musica dei Bolt Thrower la musica è il contenitore, il caos il contenuto immaginario e la reazione di scarica tra questi due elementi produce l'effetto desiderato, tutto “dentro” la cornice sonora proposta.

Bolt Thrower hanno spesso scelto immagini fantastiche di scenari bellici, medievaleggianti o futuribili, sempre sopra le righe per barocchismo degli armamenti e affollamento della scena da parte di anonime figure di combattenti. Pedine di un gioco di ruolo.
Il loro Universo è senza storia: un caos bellico che non si sa da dove viene, si affolla dentro una scena suggerendo un dardeggiare infinitamente fitto, e non va da nessuna parte.

Il titolo del primo disco è proprio un disco entropico “In battle there is no law”. Contrariamente alle assurdità secondo cui due persone che decidono di disintegrarsi nella guerra dovrebbero però farlo con stile (codice militare), i Bolt Thrower abbracciano un'idea entropica di guerra: la massima distruzione possibile, talmente iperbolica da essere metafisica.
Il piglio musicale è caratterizzato da un ordine e da una precisione talmente meccaniche e geometriche da creare una tensione totalizzante verso il caos, ma internamente alla scatola musicale.
Il tutto è riassunto anche da un simbolo che a un certo punto i Bolt Thrower fecero proprio: frecce che partono da un punto simmetricamente in tutte le direzioni, con un occhio centrale. Un principio statico e uno dinamico tesi tra coscienza centrale immutabile e definitiva e movimento incontrollato distribuito in ogni direzione. Una forza centrifuga e centripeta sintetizzate in uno stesso simbolo.

Quando li ascoltai per la prima volta rimasi perplesso: viste le copertine, mi aspettavo un qualcosa che somigliasse ad un power-speed ma in versione estrema, forse qualcosa di simile a quello che poi fecero gli Amon Amarth. Invece sotto quelle copertine epiche c'era una costruzione metafisica: le forme si tendono nella loro perfezione per far esplodere il caos dietro di sé.
L'idea di guerra è molto più simile ad un monolito che ad una tempesta: senza una tensione ideale così estrema l'effetto sarebbe quello di uno scherzo. Rappresentare il caos suonando caoticamente, come volevano fare i Venom, oltre un certo limite fa ridere e non rende l'idea (la guerra di "At war with Satan" dei Venom è semplicemente uno squallido bluff). Invece l'idea è resa rappresentando il caos come un poligono che ruota su se stesso, la ruota di un trattore.

Il messaggio dei Bolt Thrower è: c'è sempre una guerra, più che guerra è il caos della trasformazione su cui si regge l'ordine circostante. L'assenza di regola del caos racchiuso dalle forme è il motivo di essere delle forme stesse. Ordine e Caos sono quindi i due poli dell'esistenza: il rigore della forma, la caoticità della sostanza; la bontà del limite auto-imposto, la cenere olocaustica della libertà.

Questo confine tra il dentro caotico e il fuori ordinato è il confine su cui scorre la vita umana con le sue passioni, che hanno bisogno di un principio di aggregazione e di uno di disgregazione tra cui essere tese, un po' come il dualismo alchemico “solve et coagula” che permette la trasformazione della materia. Il paragone letterario cinematografico che mi viene in mente è la saga di "Hellraiser", con la scatoletta magica che si apre e chiude a incastro per aprire o chiudere la comunicazione con la dimensione parallela dei Supplizianti. La scatola permette di cavalcare il confine tra il sommo piacere, ovvero la massima espressione del piacere dentro la forma (corporea) e la disgregazione del corpo stesso scosso dal flusso del piacere. Gli uncini che dal nulla appaiono per agganciare la carne e straziarla sono gli stessi che incombono durante l'ascolto delle marce dei Bolt Thrower, ma l'abilità dei nostri sta proprio nel tenerli “dentro” la loro sfera.
Bolt Thrower smontano e rimontano la scatola magica di Hellraiser, facendo fare ai Supplizianti esasperati un'anticamera infinita.

Bolt Thrower spaziano senza soluzione di continuità tra guerre reali e fantastiche, da tavolo e sul campo, perché lo spunto storico (o fantastorico) è solo un pretesto per questo tema metafisico. Ogni epoca ha la sua guerra e ogni guerra il suo disco, come una medaglia al milite ignoto.
I Bolt Thrower hanno già pronto il medagliere per le prossime mille guerre. Segno questo che l'umanità non uscirà mai dalle sua pace ordinata alternata al caos distruttivo, ma segno anche che in questa continuo andare “avanti per battaglie senza fine” continuerà a trovare la sua ragione d'essere.

Grazie alla sordità di mia nonna potei apprezzare appieno i Bolt Thrower con l'impianto Pioneer dell'epoca. Mi accorsi anche più tardi che quel capellone del bassista, che pulsava onnipresente e spesso, era una donna, Jo Bench. Che se ti monta addosso con quei gamboni ti trita, ma le fantasie del metallaro medio non hanno mai valorizzato queste donne-trattore, privilegiando invece insulse bionde da palcoscenico.

A cura del Dottore