"Parlare di Musica è come ballare di architettura" Frank Zappa

30 giu 2020

LUCIFER: IL RICHIAMO IRRESISTIBILE DELLA...



Devo ammettere una cosa molto triste. Complice la vecchiaia, probabilmente, sto rinvenendo in me un approccio alla musica che mi era estraneo fino a qualche anno fa. Il fatto, ossia, di non saper resistere al richiamo della f...ehm, del fascino femminile. E questo accade sempre di più in modo palese e manifesto, come quei vecchi signori che non sanno trattenere un apprezzamento bonario innanzi ad una bella donna che incontrano, celando dietro a quella che vorrebbe essere galanteria un universo di percezione e pensiero radicalmente maschilista, ove la donna può e deve brillare più che altro per meriti estetici. 

Ho sempre apprezzato molto poco coloro che, nel metal, associano sistematicamente espressioni come “bella oltre che brava” ad una frontwoman, implicitamente confermando il maschilismo serpeggiante degli ambienti metal (due pesi e due misure, perché, per esempio, mai ci sogneremmo di descrivere come bello l’Axl Rose dei tempi d’oro, o sottolineare il bel fisico di Eric Adams o Joey DeMaiobrrrrrrr). Il mondo del metal, del resto, è anche mondo di repressione sessuale, fatto di uomini per uomini (almeno queste erano le condizioni iniziali) dove la donna (quella “strana cosa”) era esclusa come sempre accade in quelle serate fra adolescenti innanzi ad una maratona di Risiko. 

E c’è da dire che, in effetti, se sei nel metal, non ci sei per le donne. Ma quando capita una donna, non passa inosservata. Un esempio lampante è stata quel fenomeno da baraccone di Lita Ford, che riuscì a ritagliarsi la sua stagione di popolarità presentandosi come un’icona femminile nel metal, nonostante fosse artefice di un rock patinato che davvero non rapì il cuore di nessuno. Doro Pesch, vabbè, nemmeno la contiamo, in quanto la possiamo considerare, per attitudine e sensualità, un uomo a tutti gli effetti. Con gli anni novanta e con l’avvento delle “regine” del gothic e del symphonic-metal qualcosa cambiò. Ma dovettero sudarselo il rispetto, queste eroine, conquistarselo con bravura ed un talento fuori dal comune, come per esempio fece la divina Anneke Van Giersbergen, che trovò in me il primo dei fan più entusiasti, ma, attenzione, non perché fosse bellissima (e lo era, e tutt’ora lo è!), ma perché cantante ed interprete eccezionale.

Per tutti quegli anni ho dunque valutato le qualità di una donna al netto dell’aspetto esteriore, che certo non guastava nei casi in cui la bravura andasse di pari passo con la bellezza, ma insomma, sentivo dentro di me un contegno di persona seria, di ascoltatore critico, tanto da potermi guardare allo specchio e rispettarmi. Cosa che però è mutata vagamente negli ultimi tempi, ritrovandomi ad approfondire l’universo femminile nel mondo metal e para-metal con rinnovata morbosità (Chelsea Wolfe e Anna Von Hausswolff sono i nomi che ho più apprezzato), portandomi presso i palchi dove si sono esibiti Vuur, Epica, Myrkur, Imperial Age, Arch Enemy, Lingua Ignota ecc. E, cosa ancora più inquietante, ritrovandomi a guardare sempre più spesso su YouTube estratti dai concerti dei Nightwish, band che non mi ha mai appassionato in modo particolare, ma che da quando ha accolto in formazione la brava valchiriona Floor Jansen, ha iniziato ad attirarmi, tanto da farmi meditare di poter sfidare il Covid-19 ad un loro concerto il prossimo dicembre (se verrà confermato, ovviamente). 

L’ultima mia scoperta (fatta un inutile venerdì sera trascorso "passeggiando" senza meta sulla rete) sono  stati i Lucifer, capitanati dalla procace (avete visto?) Johanna Sadonis, tedesca di Berlino, sebbene il resto della band sia di stanza a Stoccolma (già, nei Luficer ci suona la batteria l’ex Entombed Nicke Andersson, da anni antiquario del rock con i suoi Hellacopters, ed oggi anche marito della stessa Sadonis). A portare lustro ai Lucifer c’è senz'altro l’etichetta Rise Above di Lee Dorrian, che li scoprì e supportò nei primi due album, ed un altro pezzo di Cathedral, ossia Gaz Jennings, che prestò le sue granitiche sei corde nel debutto del 2015. 

Di spunti di interesse sulla carta ce ne sono, dunque, spunti che in verità terminano con il primo ascolto della loro musica, visto che già dalle primissime note di qualsiasi loro pezzo si capisce che non si tratta altro che di un tributo (l'ennesimo!) a quelle sonorità hard-rock/metal, oscure e un po’ creepy, che fanno capo ai primi Black Sabbath (del resto cosa vi aspettavate da una band che decide di chiamarsi Lucifer nell'anno 2014?!?). 

La Sadonis, di suo, non si può certo dire che abbia un’ugola eccezionale, né come front-woman presenta particolare carisma. E tuttavia, video dopo video, si coglie tra le sue movenze ingessate (è scoordinata quasi quanto Ozzy, e in questo c’è perlomeno coerenza) una sorta di ortodossia "metallica" che ce la fa risultare comunque simpatica e di sicuro meno artefatta rispetto a molte altre donzelle dalle pose studiate e il look curato nel dettaglio. Quanto alla Nostra, per bucare lo schermo basta la lunga chioma bionda, una buona dose di matita intorno agli occhi e succinti abiti in pelle nera. 

Il tiro revival settantiano è chiaro fin da subito in videoclip volutamente pacchiani come “Izrael” e “California Son”, dove vediamo i Nostri aggirarsi in cimiteri di notte o sfrecciare in moto per assolate highway evocando certi b-movie degli anni sessanta e settanta. Quello che sembra un progetto creato a tavolino, mettendo insieme la biondona di turno con cliché cinematografici di facile presa e sonorità trite e ritrite, viene sconfessato dai trascorsi della Sadonis (classe 1979 - non proprio una giovincella), la quale non sembra nuova al mondo del metal e che aveva già militato nelle Oath, progetto diviso a metà con un’altra bella bionda (ci risiamo…): la chitarrista e polistrumentista svedese Linnéa Olsson, già attiva in precedenza con i Sonic Ritual e successivamente nei Maggot Heart

L’esordio “Oath” (2014), anch'esso prodotto dalla lungimirante Rise Above Records, suona decisamente più interessante dei Lucifer, che nel corso dei loro tre album hanno oscillato fra citazione e plagio (ascoltate l’incipit di “Dreamer" e ditemi voi se non vi viene in mente “Children of the Sea”!). Le Oath, invece, seppur fedeli agli intenti di riprodurre quelle sonorità malsane fra hard rock e metal professate dai soliti Black Sabbath, Mercyful Fate e Danzig, mostravano un piglio diverso, suonando meno caricaturali e sforzandosi di scrivere musica propria, pur lungo binari ben definiti. Peccato che l’esperienza si sia esaurita nell'arco di un EP e di un album. 

La Sadonis si sarebbe infatti poi dedicata anima e corpo ai Lucifer, che possono vantare un paio di album, sì derivativi ma comunque dignitosi (“Lucifer” e “Lucifer II”) ed un terzo indubbiamente meno riuscito ("Lucifer III"), figlio dell'approdo alla major Century Media: in esso la band non stravolge la propria missione artistica, ma si sposta su coordinate ancora più ammiccanti (si veda la groovyMidnight Phantom”) e a tratti persino commerciali (la semi-balladLeather Demon”), cosa che, volendo, rende ancora meno interessante una proposta già di per sé poco interessante. 

Eppure in qualche modo la Sadonic e i suoi Lucifer continuano ad esercitare sul sottoscritto un certo effetto, tanto che, anche per loro, mi sentirei di sfidare il Covid-19 e vederli il prossimo novembre sul palco dell’Underworld, che con la sua saletta risicata sottoterra è quanto di meno arieggiato ci possa essere in fase 3. Ma del resto è impossibile contrastare il richiamo irresistibile della….

...sempiterna leggenda sabbathiana... ;)