"Parlare di Musica è come ballare di architettura" Frank Zappa

15 nov 2015

QUEENSRŸCHE: "SUITE SISTER MARY"





I MIGLIORI DIECI BRANI “LUNGHI” DEL METAL CLASSICO

5° CLASSIFICATO: “SUITE SISTER MARY” (QUEENSRŸCHE)

Entriamo nella zona hot della classifica. Fino ad adesso abbiamo solamente scaldato i motori, ci siamo avvicinati al tema (quello del brano lungo nel metal) incontrando sia aspetti positivi che negativi. E non sempre ci siamo imbattuti in imprese scevre da critiche. Se la suite dei Manowar ci apparsa come un insieme di episodi un po’ scollegati fra di loro (e neppure sempre apprezzabili nella loro singolarità); se RunningWild e Virgin Steele hanno mostrato una “visione limitata” del brano lungo, limitandosi ad infarcire con qualche “aggiunta” la classica canzone dal ritornello anthemico; se i Blind Guardian sono letteralmente affogati in una grandiosità sinfonica che ha un po’ sepolto i contenuti, e gli IcedEarth sono stati invece i fautori di un brano dal procedere sconclusionato; se il materiale trattato fino ad adesso ci è servito a sondare il terreno, adesso, entrando nella top-five, iniziamo veramente a fare sul serio.

Quinta posizione: è la volta dei Queensrÿche.  

Sebbene i Queensrÿche non siano mai stati una band strettamente dedita al progressive, essi sono stati importantissimi per gli sviluppi del filone progressivo all’interno del metal, e, a torto o a ragione, “Operation: Mindcrime” viene comunemente considerato il primo album progressive metal della storia (correva l’anno 1988 e nessuno ancora aveva concepito e realizzato qualcosa di simile). Nella proposta della band, più correttamente, si viene a maturare un’idea complessa di metal che in “Operation: Mindcrime” si va a plasmare intorno ad un concept “stratificato” e dalle molteplici chiavi di lettura: un concept in cui le vicende narrate vengono collocate in una visione di più ampio respiro nella quale confluiscono suggestioni thriller e riflessioni di ordine sociologico, politico ed etico. Cosa ancora più importante, i singoli brani (che sono canzoni a tutti gli effetti e che dunque brillano di vita propria) vanno ad impregnarsi di un humus che è l’atmosfera della narrazione nel suo complesso: un’inquieta atmosfera “grigiastra”, una storia di solitudine ed alienazione calata in un mondo ostile (che sa anche di complotto) in cui l’umanità del protagonista non trova compimento e realizzazione. Inutile concludere che tutto questo, dal punto di vista concettuale come da quello formale, acquisisca un sapore squisitamente pinkfloydiano.

Il notevole tasso tecnico dei musicisti ed un Geoff Tate in stato di grazia (possiamo affermare che azzecca nove ritornelli su dieci?) fanno di “Operation: Mindcrime” un capolavoro assoluto. E fra i momenti cardine al suo interno troviamo proprio “Suite Sister Mary”, brano dalla considerevole durata (10:41).

La storia su cui si basa il concept è universalmente nota e già è stata trattata dal nostro blog in un paio di circostanze (qui e qui): basti ricordare che il disgraziato Nikki viene assoldato e manipolato dal sovversivo Dr X e costretto, sotto ipnosi ed incentivato dall’eroina, a commettere omicidi per la causa rivoluzionaria. In “Suite Sister Mary” Nikki apprende da Dr X che le sue prossime vittime saranno Padre William e Sorella Mary, l'ex prostituta, divenuta poi suora, di cui egli stesso si era invaghito. Dirò di più: disperato e tossico, Nikki ritrova nell'amore per Mary la sua umanità, sepolta dalla rabbia e dalla dipendenza dalle droghe.  Fatto sta che riesce ad eliminare il prete, ma non trova l'animo e la forza per uccidere Mary: scapperà dunque lasciando la missione incompiuta.  

Il sofferto dialogo fra il protagonista e Mary si sviluppa in un crescendo di tensione e struggimento degno di un musical di Broadway e il brano meriterebbe il massimo dei voti solo per gli istanti iniziali, quando, all'ordine perentorio di Dr X, Nikki risponde incredulo “Kill Mary?”: il groppo in gola che spezza e strozza la voce è una chicca interpretativa regalataci dal grande Tate (come del resto era stato il leggendario “I remember now, I remember how it started” con cui il flashback aveva avuto inizio). Piove a dirotto, l’ascoltatore è subito immerso in una notte da incubo. Ci s’immagina Nikki con le fattezze di Tate anni ottanta, chiodo e acconciatura del cazzo (capelli semi-cotonati davanti e coda di cavallo dietro) che si aggira irrequieto per le strade in preda a dilemmi insanabili: ucciderla o non ucciderla? 

Questa prima parte viene rappresentata da un inquieto arpeggio acustico scosso da cori sacri che introducono l'ambientazione mistica, il set in cui si svolgerà la scena: la chiesa dove risiedono Padre Williams e Sorella Mary (non è fuori luogo parlare di set, visto che il brano è di forte impatto cinematografico). Il soliloquio del protagonista si consuma stretto fra il battito della pioggia incessante e rumori urbani che evocano lo spettro di una caotica metropoli: l’amarezza e l’irrequietudine sono rese da una spettacolare prova teatrale di Tate, che quasi piange, finendo per assomigliare ad un Roger Waters a cui hanno scuoiato la sacca dei coglioni. Ma in verità tutto l’album emana uno straordinario fascino immaginifico: i musicisti con la loro musica sono infatti in grado di proiettare vivide immagini nella mente dell’ascoltatore, che, come il protagonista della storia, si troverà innanzi ad un’immensa chiesa gotica (come spesso se ne trovano nelle città degli Stati Uniti). E così il protagonista, come l’ascoltatore, è sgocciolante di pioggia fuori dalla porta dove lo accoglie una Mary ancora ignara delle intenzioni dell’uomo. A prestarle la voce troviamo una strepitosa Pamela Moore, turnista decisamente dotata in grado di tenere testa ad un gigantesco Tate.

Il tempo di un veloce botta-e-risposta ed il brano esplode in tutta la sua irruenza hard-rock (componente da sempre molto presente nell’heavy metal elaborato dei  Queensrÿche). Jackson e Rockenfield incalzano, DeGarmo e Wilton ci danno dentro, e Tate si alza di colpo di tonalità come solo lui sa fare. Il dialogo fra Nikki e Mary si fa serrato: a Tate le strofe, alla Moore un intenso bridge in cui rispuntano fuori le chitarre arpeggiate (colpo di scena: è la donna stessa a desiderare di morire e chiede di essere uccisa!). E poi, per riportare il tutto nuovamente nei ranghi, un ritornello meditativo, per niente plateale, ma intenso e pregno di quell'angoscia lucida e consapevole, ma anche visionaria, che è tipica della band di Seattle: e in un sol colpo s’inventano Fates Warning e metà del prog-metal che verrà.

Se mi è permesso, vorrei aprire a questo punto una parentesi: i Queensrÿche non sono Tate, non sono DeGarmo né tanto meno sono Wilton, Jackson e Rockenfield messi insieme. No, i Queensrÿche sono i cinque musicisti che hanno suonato fino a “Promised Land”: quelli che sono venuti dopo non ha più senso chiamarli così. Si è parlato recentemente di dispute legali fra Tate e il resto della band per l’utilizzo del monicker, si è anche detto che i Queensrÿche oggi vantano un cantante formidabile (tale Todd La Torre), ma sinceramente non capisco che senso abbia continuare a chiamarli Queensrÿche. Saranno gente onesta, bravi musicisti, ci potrà cantare sopra anche il padre eterno, Papa Francesco, il cazzo che vi pare, ma nessuno potrà mai sostituire Geoff Tate. Ecco, l’ho detto.

Tornando a noi, nonostante il nome, “Suite Sister Mary” non è una suite vera e propria, ma una “rock-operetta”, conservando essa la classica struttura strofa-ritornello, dilatata con dei pre-chorus, un break centrale e intro/outro acustici. E’ inoltre curioso constatare come nel brano non vi sia un vero e proprio assolo, cosa ancora più curiosa se si considera che tutto l’album ne è stracolmo (ed anche di molto belli) e che, più in generale, De Garmo e Wilton non sono certo due che si tirano indietro  quando c’è da sfoggiare tecnica e classe esecutiva. Evidentemente è stata una scelta volta a valorizzare il lato “sinfonico” del brano: esso è un saliscendi emotivo continuamente percorso dai vocalizzi del coro, il quale costituisce il degno contorno alla contesa, al misurarsi continuo dei due cantanti, bravi nel non scadere nel melenso o in leziosità da ballatone romantico in stile Meat Loaf.

Una base ritmica dinamica ma mai invadente, e fraseggi chitarristici che si intrecciano ed inseguono in sublimi incastri elettro-acustici definiscono il profilo di una maratona che sa far convivere hard-rock, prog-metal e musical: un brano immenso la cui grandezza si viene a ridimensionare solo perché contenuto in un album immenso. Tuttavia “Suite Sister Mary”, anche presa da sé ed estrapolata dal contesto, rimane indubbiamente un bel gran pezzo della storia del nostro genere musicale preferito.