"Parlare di Musica è come ballare di architettura" Frank Zappa

16 feb 2023

VIAGGIO NEL FUNERAL DOOM: FUNERALIUM

Trentaquattresima puntata: Funeralium – “Deceived Idealism” (2013) 

Non ne possiamo veramente più, ma la nostra missione deve essere portata avanti fino alla fine. Fino alla nostra fine. 

Altro giro altro album doppio: caliamo leggermente di minutaggio, dai centrotrenta di “Blood Geometry” passiamo ai quasi novanta di questo “Deceived Idealism”, ma non molliamo quanto ad efferatezza e capacità di fare del male. Anzi, i francesi Funeralium (potevamo del resto non considerare un nome così?) confezionano una delle opere più ostiche di sempre dell’epopea del funeral doom: un funeral doom bastardo, contaminato da dissonanze, destrutturazioni e sentori black metal. I più audaci si appropinquino all’entrata, gli altri si avviino pure verso l’uscita...

Attivi dal 2003, i Funeralium sembrano nascere come costola degli Ataraxie, o perlomeno come realtà alternativa (variante malata?) per certi loro membri. Dietro agli pseudonimi di Marquis (voce e chitarra) e Berserk (chitarra) si nasconde infatti il nucleo fondante degli Ataraxie, rispettivamente Jonathan Théry e Frédéric Patte-Brasseur. Ma a parte la predilezione per la lentezza e per i suoni pesanti, le due band hanno poco a che fare e sembrano rivolgersi a pubblici sostanzialmente diversi. 

Il debutto in full-lenght dei Funeralium risale al 2007 (l’omonimo “Funeralium”), ma i Nostri il meglio lo daranno sei anni dopo con il successore: meglio organizzato del tomo precedente, “Deceived Idealism” mette a punto una proposta innegabilmente originale senza perdere la caratterisitica spigolosità della band. Il quintetto non ne vuole infatti sapere di atmosfere accomodanti o di prelibatezze romantiche, puntando semmai su un suono aspro, ai confini con hardcore e sludge, che sa evocare tanto la vocazione disgregativa, l’indole caotica, le intenzioni disorientanti dei Khanate quanto la disperazione dilagante nei lavori dei Bethlehem (soprattutto nell’approccio vocale). 

Grida lancinanti, corde vocali tirate allo spasmo, gole che bruciano fino a sanguinare sono l'inevitabile condimento per movimenti lenti ed irrequieti ove la ruvidità delle chitarre si scontra sistematicamente con i tempi dispari delle percussioni. Non manca la melodia, disseminata fra le macerie e i lapilli di fuoco: una melodia che si esprime attraverso gli intrecci delle due chitarre, vuoi lungo geometrie tipicamente black-metal, vuoi attraverso temi lacrimevoli che chiamano in causa i nomi del doom death classico, My Dying Bride in primis. 

Della Sposa Morente, tuttavia, scordatevi la maestosità, l’eleganza, quel senso di ordine che caratterizza anche le composizioni più lunghe: i Funeralium danno fastidio proprio per quella carica eversiva che scuote le fondamenta dei loro brani ed esala sentori punk e post-hardcore. I Funeralium danno fastidio per le ritmiche instabili, per le frattaglie incandescenti disposte con scarsa premura e legate dai fischi delle chitarre, con lo screaming straziante di Marquis a gettare benzina sul fuoco: una apocalisse vocale che ricorda da vicino il mitico Martin Van Drunen degli Asphyx

Se questo senso di instabilità si respira a pieni polmoni nella partenza in medias res offerta da “Blood, Phlegm and Vomit” (nemmeno quattro minuti di durata), gli amanti del funeral doom potranno tranquillizzarsi ed "adagiarsi" nelle spire contorte del binomio costituito dall’iconica “21st Century Ineptia” e dalla title-track (con tanto di sfuriata black metal nel finale), rispettivamente di ventuno e venticinque minuti. L'impressione complessiva è che un album come "Forest of Equilibrium" sia re-interpretato dai Converge: i Funeralium si dimostrano dei maestri del free-form, imponendosi come irruenti costruttori di sentieri cacofonici dalla traiettoria imprevedibile. Nel folle circo dei francesi c'è spazio per riff al vetriolo come per assenze terrificanti; la violenza incontrollata può esplodere in modo repentino ed inaspettato, stravolgendo le carte in tavola ad ogni piè sospinto. 

E cosi il primo disco se ne va affanculo, non senza aver lasciato segni indelebili sulle nostre orecchie. Non che con il secondo tomo i Nostri mostrino clemenza, anzi, lo stesso schema dell’andata si ripresenta sadicamente con una traccia breve seguita da due dalla durata più consistente. “Hang These Bastards” (un titolo che ben descrive gli umori biliosi del brano) dura solo sei minuti ma dopo i cinquanta minuti non certo accomodanti del primo disco quei "miseri" sei minuti suonano più letali che mai, abbandonandosi la band ai tempi più lenti ed alle sensazioni più fangose ed asfissianti del platter

La musica non cambia con i diciotto minuti della successiva “Don’t Hope for Any Better Things Now” (altro titolo dalla grande eloquenza): la band sembra entrata in una ulteriore fase dell’opera, mettendo da parte il dinamismo che ancora animava il primo tomo, per dirigersi verso territori più propriamente doom, sempre innervati di quella rabbia fuori controllo che è il vero tratto peculiare del quintetto. Quando oramai ogni speranza sembrava perduta, ecco che il brano si concede una inaspettata accelerazione: un ostinato di batteria che fa da preludio ad un tesissimo crescendo che sa mischiare black metal e post-hardcore, fino alla stasi di un disorientato arpeggio e l’immancabile ripartenza a base di possenti e minacciosi riff

La lentezza torna sovrana con la conclusiva “The Higher We Climb, the Harder We Fall”, ultimo supplizio sonoro che almeno nel finale ci regala una coda melodica a base di chitarra arpeggiata e borbottii di voce pulita. Anzi no, tutto esplode nuovamente: mancano pochi minuti alla fine del viaggio ma c’è ancora il tempo per un ultimo affannato tour de force. Non lo avevamo richiesto, ma la band si prodiga in un altro impetuoso blast-beat con voci slabbrate a recitare i sanguinanti titoli di coda. Poi finalmente il silenzio. 

Ma la colpa è nostra, solo nostra, loro ci avevano avvertiti: più si sale in alto e più rovinosa sarà la caduta... 

(Vai a vedere le altre puntate della rassegna