"Parlare di Musica è come ballare di architettura" Frank Zappa

1 dic 2025

GUIDA PRATICA PER METALLARI: SHOEGAZE - 10 ESSENTIALS


Lo shoegaze non è certo un genere sconosciuto negli ambienti metal odierni, almeno per quanto riguarda gli appassionati di metal estremo, non fosse altro per l’affermarsi dell’apprezzata corrente del blackgaze, Il blackgaze è un filone tutt'oggi molto fecondo che, ridendo e scherzando, esiste da una quindicina di anni almeno, sdoganato e reso popolare da nomi come Alcest e Deafheaven e con un nutrito codazzo di realtà consolidate come Les Discrets, Amesoeurs, Lantlôs, Woods of Desolation, Ghost BathAn Autumn for Crippled ChildrenMØL, Agriculture, Sylvaine - giusto per citare i nomi più significativi.   
 
Sembra dunque più che opportuno andare ad approfondire l’argomento con una delle nostre imperdibili guide pratiche per metallari e capire come mai questo filone del rock alternativo esploso agli inizi degli anni novanta sia divenuto così importante per le evoluzioni del black metal del terzo millennio... 
Si potrebbe partire dicendo che lo shoegaze è anzitutto un linguaggio, anzi, l'espressione di un feeling: una "fisicità sonora" impregnata di una forte emotività
 
Date queste premesse, non ci si stupisce che le istanze stilistiche dello shoegaze si siano potute ben sposare con le prerogative del black metal, un genere che, anch'esso, metto al centro di tutto le emozioni. Potremmo quasi dire che shoegaze e black metal sono come parti della medesima entità separate alla nascita, fratelli che han vissuto per molto tempo in posti diversi e che nel momento in cui si incontrano riconoscono nell'altro una forte e reciproca affinità. O, per dirla più romanticamente, sono come anime gemelle che, entrando in contatto, ricompongono un insieme che era stato spezzato all'origine dei tempi. 
 
Shoegaze e black metal puntano entrambi sull'atmosfera e tendono a generare un'esperienza immersiva e totalizzante; entrambi modellano un suono rarefatto e frastornante gettando l'ascoltatore in uno stato di trance sonora ove melodia e ritmo si fondono in modo impalpabile; entrambi condividono una estetica della trascendenza e della alienazione, e, seppur in modi diversi e con sensibilità diverse, rappresentano una fuga dal Reale, dalla quotidianità, dalla mera materialità, incarnando una ricerca dell'Altrove che nello shoegaze coincide con la dimensione del sogno e che nel black metal assume invece connotazioni mistiche.   
 
V'è da dire che il suono dello shoegaze, rispetto al black metal, ha un carattere “ossimorico” che si spiega proprio con l'imposizione da un lato di incredibili muri di chitarre distorte e dall'altro di un tessuto sonoro emotivamente cangiante specchio di una dimensione intima, raccolta, di estrema fragilità ed introversione. Il nome stesso, shoegaze, venne coniato per descrivere quei musicisti che sul palco, piegati e con la testa china, erano più interessati a guardare le pedaliere e le manopole dei propri strumenti che rivolgersi al pubblico (to gaze at your shoes significa infatti “fissare le scarpe”), palesando una attitudine introversa e squisitamente nerd
 
In tutto questo la voce, spesso dimessa, viene sepolta nel mix, fungendo da elemento sonoro e perdendo la sua funzione narrativa. Quanto ai singoli brani, essi finiscono per confluire come rigoli di un unico flusso sonoro, tanto che potremmo definire lo shoegaze, in senso ampio, come una forma di psichedelia degli anni novanta: una forma musicale ibrida con un piede nella decade ottantiana ed uno in quella novantiana, sonorità che emergono da un retroterra culturale in cui ribollono post-punk, darkwave, dream-pop tendenze noise-rock e che si aggiornano agli umori del decennio delle nevrosi per eccellenza... 

Si intuirà anche che il genere non si prestava ad una facile commercializzazione: lo shoegaze, di fatto, avrebbe avuto vita molto breve, schiacciato in casa propria dal brit-pop (entro cui certi nomi sarebbero naturalmente confluiti) e travolto dal grunge, esploso invece dall'altra parte dell’oceano per poi dilagare un po’ ovunque. In quel pugno di anni, tuttavia, sarebbero usciti album di grandissimo valore che non solo sarebbero riusciti a sopravvivere alla prova del tempo, ma sarebbero tornati in auge in anni recenti grazie ad una esplosione revivalistica del gener che avrebbe sancito il ritorno sulle scene di molti nomi storici che nel frattempo si erano persi per la strada. 
 
Chi sono questi nomi storici? Quando si parla di shoegaze si finisce sempre per riferirsi alla sacra triade composta da My Bloody Valentine, Slowdive e Ride, gruppi che in effetti hanno detto tutto o quasi sull'argomento. Quello che abbiamo inteso fare, senza pretese di esaustività, è costruire intorno a questi tre nomi una mini-rassegna di dieci titoli fondamentali che contemplasse anche un paio di precursori e qualche esponente della seconda ondata, senza trascurare qualche chicca meno nota al fine di fornire al lettore neofita un’idea di ciò che è lo shoegaze e che tipo di contributo può aver portato al metal. 
 
Apriamo dunque questa nostra rassegna con un paio di nomi che non possono essere etichettati come shoegaze in senso stretto, ma che hanno saputo marchiare a fuoco la genesi del movimento ed anticiparne stilemi ed umori, tanto da meritarsi (a ragione!) l’appellativo di band proto-shoegaze.

Cocteau Twins – “Treasure” (1984) 
Il primo nome da fare è quello dei mitici Cocteau Twins, icona della darkwave in senso esteso e punta di diamante della stagione d’oro dell’etichetta 4AD. La formazione scozzese è stata un’entità ibrida e per certi aspetti inclassificabile che proprio in virtù di ciò ha rappresentato la scintilla iniziale per diversi generi come il dream-pop, l’ethereal-wave e - appunto - lo shoegaze. Dello shoegaze, sopratutto, troviamo le atmosfere sognanti, l’impalpabile malinconia imbastita dalla voce da fata di Elizabeth Fraser e dall'inventiva melodica del compare Robin Guthrie (chitarra e drum-machine): compenetrazione di talenti al servizio di una musica che puntava dritta al cuore. Della darkwave dei primi dischi questa opera terza eredita solo i ritmi sintetici e il corpulento basso, per il resto il suono di “Treasure” si fa più aereo e fanciullesco nelle atmosfere, ma senza disdegnare qualche fiammata di elettricità: un insieme di cose che darà il la al processo creativo di band come My Bloody Valentine, Slowdive e Lush, giusto per fare i nomi più noti.

The Jesus and Mary Chain – “Psychocandy” (1985) 
Se i Cocteau Twins rappresentano il versante dolce e sognante del proto-shoegaze, quello più caustico e rumoroso è senz'altro appannaggio dei Jesus and Mary Chain. Capitanato dai fratelli Reid (Jim alla voce e William alla chitarra) il gruppo scozzese, prima di altri e probabilmente in modo non del tutto consapevole, ebbe modo di mettere a punto una formula in cui potessero coesistere i selvaggi baccanali elettrici dei Velvet Underground ed inediti scenari melodici. Ramones, Sex Pistols, pop smithiano, darkwave e noise-rock copulano proficuamente nell'opera prima dei fratelli Reid, con il contributo non secondario della batteria meccanica di Bobby Gillespie, destinato a divenire in seguito il leader di una delle esperienze più esaltanti, innovative ed influenti del rock britannico degli anni novanta: i Primal Scream. “Psychocandy” è dunque un suono cosparso di miele e sangue: distorsioni di ruvide chitarre e voci spettrali si scontravano in brani che oscillavano fra furia punk, verve rock’n’roll e dolenti ballate animate dalla suadente voce di Jim Reid, con brucianti code di feedback che avrebbero fatto scuola. Una ricetta semplice che tuttavia porterà con sé un drastico cambio di paradigma: il caos, da espressione di rabbia, assumeva connotazioni catartiche, introducendo uno dei principi cardine sui cui poggerà lo shoegaze che verrà.

Ride – “Nowhere” (1990) 
Eccoci ai Ride. Sebbene sia pratica consolidata inserirli nella “Sacra Triade”, i quattro di Oxford rappresentano un fenomeno a parte nella breve storia dello shoegaze, incarnandone certamente molti tratti identitari, ma travalicandone nella sostanza i confini, finendo per costituire un qualcosa di più ampio. Abbiamo chitarre ruggenti e tendenti al frastuono, effetti, feedback e delay, ci sono le voci sornione dei due chitarristi Mark Gardener ed Andy Bell che si intrecciano o si danno il cambio su un corpus elettrico che si abbevera di una spiccata emotività e trasmette quel senso di disorientamento che diverrà tipico del genere. Ma i Nostri mostrano anche una indole melodica che ha saputo arpionarsi alla schiettezza degli anni ottanta, alla costruzione di gingle memorabili, il tutto mischiato agli umori trasognati di certo rock psichedelico degli anni sessanta ed alle dinamiche terremotanti di una sezione ritmica travolgente che guarda al punk come a certa rave culture prossima all'esplosione. Se lo shoegaze non si fosse poi conformato in un movimento, i Ride sarebbe oggi ricordati come una splendida realtà del rock alternativo britannico che ha saputo rappresentare alla perfezione il passaggio dagli anni ottanta agli anni novanta: una sorta di anticipazione di quel brit-pop che sarebbe salito alla ribalta di lì a poco (e non è un caso che avremmo ritrovato Bell nell'organico di certi Oasis...).

Chapterhouse –“ Whirlpool” (1991) 
Nell'aprile del 1991, dopo una manciata di EP, ecco che giunge il momento del fulminante full-lenght d’esordio per questi ragazzi di Reading. Ingiustamente sottovalutato e considerato ai margini dell’asse evolutivo dello shoegaze, l’album offre una ottima sintesi delle varie anime del genere che, nel 1991, era ancora in via di consolidamento stilistico. In certo qual modo influenzati dai ritmi danzerecci della scena di “Madchester” (per chi non lo sapesse, un movimento musicale e culturale nato alla fine degli anni ’80 a Manchester che ha combinato rock alternativo e ritmi acid house - Stone Roses il nome più rappresentativo), i Nostri sanno infatti individuare un giusto equilibro fra “rock e sentimento”: da un lato si ergono i consueti muri di chitarre e si sviluppano brani ritmati e travolgenti che ricordano i Ride; dall'altro si affermano le istanze della sponda più eterea e sognante del genere, la quale trova la benedizione nell'ospitata dietro al microfono di Rachel Goswell degli Slowdive.

My Bloody Valentine – “Loveless” (1991) 
Loveless” vede la luce nel novembre del 1991, ma la storia dei My Blood Valentine era partita molto tempo prima (dal 1982 per l’esattezza). L’album simbolo dello shoegaze è il frutto di una lunga gestazione rappresentando il punto di arrivo di una ricerca spasmodica del suono definitivo. Dalla madrepatria Irlanda ci si trasferisce alla più promettente Londra, e dal post-punk degli esordi si transita verso il goth-rock prima e il noise-rock dopo, passando per una manciata di EP e raggiungendo un buon equilibrio nell'apprezzato album di esordio “Isn’t Anything”, il quale già nel 1988 valse alla band lo status di punto di riferimento del neonato shoegaze. Ma è con l’opera seconda e capolavoro assoluto “Loveless” che quel suono avrebbe assunto la forma o la status che la Storia del Rock gli avrebbe riconosciuto. Ci sarebbero voluti tre anni, un’attesa estenuante spezzata via via dall'uscita di svariati EP atti a dare ossigeno a dei produttori oramai esasperati, fra ritardi e cambi di studio di registrazione, le bizze, le lungaggini e il perfezionismo del leader Kevin Shields, tanto geniale quanto intransigente ed autoritario nella gestione della sua creatura. Alla sua visione artistica dobbiamo “Loveless”, un suono che sa fondere in un unico impasto indistinto dolcezza e caos, melodia e rumore: un suono stratificato fatto di inusuali accordature di chitarra (ai limiti della scordatura), sovra-incisioni, utilizzo copioso di campionamenti, il tutto a spese della batteria e delle voci (quelle dello stesso Shields e della seconda chitarrista Bilinda Butcher), orpelli quasi aggiuntivi che affogano nel mix. Un suono ostico e respingente sulle prime, attraversato tuttavia da una magia intimistica che lo ha reso un modello, un ideal-tipo, uno dei lavori più saccheggiati ed imitati da chi avrebbe deciso di cimentarsi in certe sonorità. Imprescindibile.

Lush – “Spooky” (1992) 
Nel gennaio del 1992 esordiva sotto i migliori auspici questo quartetto per metà femminile con ben due gentil donzelle a ricoprire i ruoli forti della squadra, ossia Miki Berenyi (voce e chitarra) ed Emma Anderson (chitarra, seconda voce e composizione). Dico migliori auspici perché dietro all'operazione troviamo la leggendaria etichetta 4AD (garanzia di qualità) e il produttore Robin Guthrie (mente dei seminali Cocteau Twins). E il debutto dei Lush, di stanza a Londra, non tradisce le aspettative, confermandosi nel tempo come una pietra miliare dello shoegaze, sebbene in seguito la band si sia perduta nella ricerca ostinata e snaturante della hit di successo. Ispirati dagli imprescindibili My Bloody Valentine, ma anche da vecchie glorie al femminile come Siouxee and the Banshees e gli stessi Cocteau Twins (in particolare per le linee vocali che ricordano non poco la mitica Frazer), i Lush offrono il lato più melodico e se vogliamo pop dello shoegaze, senza perdere quel carattere sognante e quella cura nei suoni che da sempre caratterizza il genere.

Slowdive – “Souvlaki” (1993) 
"Souvlaki" gode della fama di “miglior album dello shoegaze” e, indipendente dall'incontestabile valore storico ed artistico di un “Loveless” (ma potenzialmente ostico per i suoi sperticati sperimentalismi), possiamo ritenerci pienamente d'accordo con tale affermazione. Mettiamoci dunque comodi, inforchiamo le cuffie e perdiamoci nei vaporosi paesaggi onirici intessuti abilmente da questo quintetto inglese (da Reading come i Chapterhouse) che, con la benedizione del guru Brian Eno (loro fan ed ospite in un paio di brani), giunge alla seconda prova discografica dopo il brillante debutto “Just for a Day” del 1991, anch'esso pietra miliare per il genere. Rispetto al già validissimo predecessore, i toni si smorzano scivolando spesso e volentieri in evanescenti territori dream pop o addirittura ambient (influenza portata in dote da Eno). La svolta stilistica non mancò all'epoca di attirare qualche critica da parte dei fan più integralisti, ma a guardar bene le chitarre elettriche non svaniscono nel nulla, a tratti tornano a ruggire distorte, preferendo tuttavia indugiare su soavi intrecci di arpeggi e fraseggi solisti, echi ed effetti dalla forte carica visionaria: il palcoscenico ideale su cui si possono adagiare le due voci, quella del leader Neil Halstead (nonché chitarrista, tastierista e principale compositore) e della iconica Rachel Goswell (anche lei alla chitarra ed alle tastiere), complementari e impregnate del medesimo languore e senso di nostalgia (i due - in precedenza una coppia - si erano separati da poco). Come suggerito dal monicker della band, la musica degli Slowdive possiede i connotati di un tuffo nel vuoto, una lenta caduta, una vertigine che ti fa perdere il contatto con lo spazio e con il tempo. Shoegaze all'apice di se stesso.  

Alcest – “Souvenirs d'un Autre Monde” (2007) 
Lo shoegaze non ebbe grande fortuna e nei fatti durò una manciata di anni, con gli esponenti di punta - chi per un motivo chi per un altro - destinati a dissolversi in modo precoce. Chi lo avrebbe detto che, in un certo senso, il movimento sarebbe rinato molti anni dopo grazie ad un ragazzo francese poco più che ventenne, peraltro operante in ambito black metal? Con trascorsi anche in band di grande efferatezza come Peste Noire e Mortifera, Stéphane Paut – in arte Neige – nell’anno 2007 rilasciava il full-lenght d'esordio del suo progetto prediletto, gli Alcest, producendo significativi cambiamenti sia dentro che fuori il metal. L'intuizione fu di mettere in contatto l’intensità del black metal e l’impeto malinconico promosso da band come My Bloody Valentine e Slowdive. In altre parole, con le sue composizioni eteree e sognanti, il buon Neige creava un ponte fra i suoni marci e stratificati del black metal e la rarefazione sonora dello shoegaze: generi sulla carta lontanissimi ma uniti dalle stesse intenzioni e finalizzati a rappresentare mondi interiori. E così, per magia, i riff al tremolo divennero l’anima pulsante di un wall of sound che sapeva coniugare potenza e melodia, introspezione e poetica burzumiana. Neige, armato di una penna ispirata e di una voce versatile che sapeva farsi dolce e vellutata, diveniva così il padre di un nuovo sotto-genere, il blackgaze, destinato a proliferare nel panorama metal degli anni zero.

A Place to Bury Strangers – “Exploding Head” (2009
)
 
Fra le varie estrinsecazioni dello shoegaze della seconda ondata, gli americani A Place to Bury Strangers rappresentano senz'altro la controparte più caustica, e non è un caso che i Nostri siano stati salutati come la band più chiassosa di New York! Eloquente un titolo come “Exploding Head”, opera seconda che va a migliorare di molto l'omonimo esordio del 2007. Fondamentale nella visione artistica della band la figura del leader Oliver Ackermann, sorta di Kevin Shields del terzo millennio. Attentissimo agli aspetti tecnici, ai suoni ed alla produzione, il cantante/chitarrista è anche il fondatore della casa produttrice di effetti per chitarra Death by Audio (un nome un programma!) e certo questo spiega molte cose. Il suono caotico e stratificato fa incetta in modo virtuoso di un vasto range di effetti chitarristici che vede le sei corde mutare continuamente forma fra riff affilati e dissonanti feedback: un suono tanto corrosivo quanto ombroso che sa mettere insieme The Jesus and Mary Chain, Sonic Youth e Joy Division, vale a dire lo shoegaze più virile, il noise-rock più incendiario e lo spleen decadente della migliore darkwave, ovviamente sotto lo sguardo benevolo del “king of New York” per eccellenza Lou Reed e dei suoi Velvet Underground.  

Nothing – “Guilty of Everything” (2014) 
E’ indubbio che nella fase revivalistica dello shoegaze il focus si sia spostato dal Regno Unito (che è comunque rimasto il campo d’azione privilegiato per le antiche glorie restituite a seconda vita) agli Stati Uniti, terreno fertile per l’emersione di nuovi nomi e con una spiccata predilezione per suoni pesanti ed ai limiti del post-metal. Fra queste realtà vanno sicuramente menzionati i Nothing di Domenic “Nickey” Palermo, una esperienza artistica che scaturisce dai travagliati trascorsi personali del proprio leader. Palermo ha infatti trascorso due anni in gattabuia accusato di lesioni aggravate e tentato omicidio in quanto coinvolto in uno scontro fra gang (lui parla di legittima difesa e si è sempre professato innocente – da qui il titolo dell’album di esordio). Inevitabile dunque che il progetto porti con sè un grosso carico emotivo che va a spartirsi nella classica alternanza fra low & loud, ossia fra momenti di raccolto intimismo e possenti detonazioni chitarristiche, attraverso le quali si fa spazio il flebile canto di Palermo, mai sopra le righe ed in linea con i canoni rarefatti del genere. Animato da una grande ispirazione, l’album rappresenta il perfetto ponte fra le due epoche dello shoegaze, ossia la scuola degli anni novanta (oltre ai soliti My Bloody Valentine, vengono tirati in ballo anche nomi come Smashing Pumpkins e Dinosaur Jr.) e le nuove tendenze post-metal.

Dopo il lungo oblio che ha seguito la fiammata di inizio anni novanta, possiamo dire che oggi il genere gode di buona salute, con nuove band che attualizzano quel linguaggio (incluso il filone metallico del blackgaze) e i vecchi nomi che son tornati sia a livello discografico che concertistico, offrendo sul palco prove degne della loro fama (una menzione d'onore per le performance incendiarie dei My Bloody Valentine, portatori tutt'oggi di prove di forza sonica ai limiti della sostenibilità uditiva sia per volumi che per intensità esecutiva). 

Come da nostra abitudine consolidata, a questo punto ci congediamo con una decina di brani che, per il neofita, possono rappresentare un utile viatico per addentrarsi nel mondo impalpabile dello shoegaze... 

Playlist essenziale:
1) “Ivo” (Cocteau Twins, “Treasure” - 1984)
2) “Just Like Honey” (The Jesus and Mary Chain, “Psychocandy” - 1985)
3) “Decay” (Ride, “Nowhere” - 1990)
4) “Only Shallow” (My Bloody Valentine, “Loveless” - 1991)
5) “Pearl” (Chapterhouse, “Whirlpool” - 1991)
6) “Nothing Natural” (Lush, “Spooky” - 1992)
7) “When the Sun Hits” (Slowdive, “Souvlaki” - 1993)
8) “Printemps émeraude” (Alcest, “Souvenirs d'un Autre Monde” - 2007)
9) “Deadbeat” (A Place to Bury Strangers, “Exploding Head” - 2009)
10) “Dig” (Nothing, “Guilty of Everything”, 2014)