Contemplando la pastorella...: Vindkaldr, "Ambient I" (2015)
Vindkaldr significa “vento freddo” in antico norreno: un monicker dunque nordico che potrebbe farci esclamare "Oooh, eccoci tornati finalmente in Norvegia, la patria di Mortiis e Burzum, dove tutto era iniziato!". Ed invece nulla di tutto questo: il progetto ha base nella parte opposta del globo terracqueo, per l'esattezza nella ridente città di Brisbane, capitale del Queensland, niente meno che in Australia! Ma non ci si stupisce oltremodo: l’Australia è sempre stata in grado di lasciare la zampata vincente un po’ in tutti gli ambiti del metal estremo. Una presenza discreta ma significativa: senza tirare in ballo act storici come Sadistik Exekution, Deströyer 666 e The Berzerker, e limitandoci alle nostre rassegne, possiamo dire che: 1) parlando di atmospheric black metal ci siamo imbattuti nei grandiosi Midnight Odissey; 2) fra i dieci nomi essenziali del funeral doom indicammo i Mournful Congregation; 3) in campo depressive abbiamo addirittura un pezzo da novanta del suicidal, ossia Abyssic Hate (senza contare nomi come Woods of Desolation ed Austere). Ovviamente nemmeno il dungeon synth poteva esimersi dall'annoverare fra le proprie file un degno rappresentante dalla terra dei canguri, a dimostrazione anche che il dungeon synth, come il black metal, sa attecchire in ogni angolo del Pianeta Terra e restituirci proposte credibili.
Ma non solo: siamo ancora in anni in cui il fenomeno non era ancora molto diffuso (del 2015 è l’album di cui parleremo oggi), cosicché possiamo inserire questi vichinghi che hanno sbagliato rotta all'interno del novero dei pionieri della second wave del dungeon synth.
Mauhulakh, il titolare del progetto, dev’essere uno di quegli ammiratori patologici del black metal nord-europeo tanto da ricreare alle sue latitudini un gelido, evocativo e furiosissimo viking (per quel che ho potuto ascoltare). I Vindkaldr - sia chiaro fin dall'inizio - sono principalmente una band black metal le cui influenze (dichiarate) sono Burzum e Windir, oltre che gli elvetici Paysage d'Hiver e i connazionali Striborg. Ok, fantastico, ottimi gusti, tutto bellissimo, ma perché allora ne parliamo all’interno della nostra rassegna sul dungeon synth?
Perché nel corso della sua carriera decennale il buon Mauhulakh non si è fatto mancare incursioni significative nel mondo dell’ambient. Dopo l’EP di esordio “Their Ships Sail from the Moon” (del 2014) e i due full-lenght “Stoned as Flesh” del 2014 e “Önd” del 2015, esce sempre nel 2015 “Ambient I” con il quale il Nostro decide di riporre la chitarra nella custodia e cimentarsi in un album di sole tastiere, probabilmente - anzi sicuramente - ispirandosi al maestro Burzum.
Dico sicuramente perché la copertina (bellissima) è un richiamo palese a quella di “Filosofem”: nello stile, nei colori e nella ambientazione, tanto da sembrarne una continuazione, con il tizio assorto che osserva un punto imprecisato alla sinistra di chi guarda dove presumiamo, fuori campo, vi sia l’oramai iconica pastorella ritratta da Theodor Kittelsen.
E proprio come la copertina, anche la musica di Vindkaldr si rivelerà essere una espansione/contemplazione della musica di Vikernes, riletta ed ampliata grazie ad una discreta padronanza dei mezzi: Mauhulakh è infatti un musicista dotato tecnicamente, un abile produttore ed arrangiatore e, dal punto di vista dell’ispirazione, si trovava evidentemente in un clamoroso stato di grazia, almeno in questa circostanza.
Il linguaggio adottato, si diceva, è indubbiamente burzumiano, quello delle lunghe suite cosmiche à la “Tohmet”. Le composizioni realizzate dai Vindkaldr in veste ambientale procedono lentamente avviluppandosi intorno a poche note ma buone, fra temi melodici memorabili e momenti di maggiore rarefazione. Il suono però non è aspro e spigoloso come lo sono certe produzioni dungeon targate Burzum, ma è caldo ed avvolgente, intimo e ha un effetto calmante sull'ascoltatore.
L’opener “Moon Snatcher” è quasi commovente e con le sue tastiere soffuse, le note ovattate che danzano placide su uno sfondo di struggenti accordi, mi ha quasi ricordato l’estro romantico dell'Angelo Badalamenti di Twin Peaks. Ma la reale forza di questo lavoro (dalla durata di un’ora e cinque minuti suddivisa in nove tracce di lunghezza variabile) è quella di non limitarsi a crogiolarsi nella dimensione della suggestione, ma di saper costruire ed edificare momenti di grande intensità.
Vi sarebbero molte cose da dire e molti dettagli da scandagliare, perché nonostante la coerenza, il rigore e la naturalezza con cui il Nostro si muove all'interno di coordinate stilistiche ben precise, le composizioni presentano una certa varietà, oscillando armoniosamente fra il polo dell’ambient più impalpabile e quello opposto delle tronfie trame medievaleggianti tipiche del dungeon synth.
Basti citare un trittico di brani mozzafiato come “The Fairy that Disapppeared”, “The Lonely Steed” e “Dance of the Elves”. La prima, dall'alto dei suoi 13 minuti e mezzo, è qualcosa di monumentale: inizia pacata ed erra per una decina di minuti lungo chiaro-scuri emozionali dal grande impatto visivo: un clima di curiosa attesa e di eccitante sospensione che troverà sfogo nell'imponente giro di sintetizzatori dallo squisito sapore ottantiano che compariranno nel finale. La seconda abbassa i toni e si chiude in se stessa, calandosi in un dimesso gorgoglio ambient pregno di tensione inesplosa che non lascerà indifferente nel suo susseguirsi ispirato di note: l'ideale preludio alle incalzanti e vivaci geometrie melodiche della terza, che esprimerà il lato più fiabesco e fantasy-oriented del progetto. Il tutto connesso da un sottile filo onirico che, fra la descrizione di toccanti paesaggi dell’anima ed affondi nella mitologia norrena, rende tanto inafferrabile quanto fascinosa la narrazione sapientemente portata avanti da Mauhulakh.
Un lavoro bellissimo, questo “Ambient I”, che a suo modo è divenuto un piccolo classico del dungeon synth ed amatissimo sia da addetti ai lavori che da appassionati del genere (che spesso coincidono nel dungeon synth...). Il fatto che il Nostro abbia chiamato il suo esperimento semplicemente “Ambient I” la dice lunga sul fatto che probabilmente del dungeon synth in quanto genere egli non avesse grandi consapevolezza e cognizione. E che dunque, ancora nel 2015, la rinascita del dungeon synth passava da slanci isolati che consideravano l'approdo a quel tipo di ambient, non come l'adesione ad un genere specifico e a sé stante, ma come la controparte coerente e complementare del linguaggio intrinsecamente atmosferico del black metal.
Un titolo come “Ambient I” faceva anche presagire che ci sarebbe stato un seguito. E se ad oggi non abbiamo ancora la fortuna di poter contemplare un “Ambient II” fra i titoli della nutrita discografia dei Vindkaldr, il buon Mauhulakh sarebbe tornato più volte a parlare il linguaggio delle tastiere e con esiti esaltanti. Dopo la pubblicazione di un altro lavoro di marca black metal (“Sword of Moses”, sempre del 2015), avrebbe infatti rilasciato l’altrettanto valido “Enchantments of Old Lore”, che vide la luce più tardi nel medesimo anno (e sì, un anno decisamente prolifico il 2015 per il Nostro, con ben cinque pubblicazioni se si conta anche l’EP “VII”, uscito successivamente). “Enchantments of Old Lore”, dalla durata pantagruelica di un’ora e 24 minuti, si muove sugli stessi livelli qualitativi di “Ambient I”, offrendo un suono un po’ più austero e pragmatico, forse meno sentimentale, ma altrettanto pregno di momenti memorabili (segnatevi “Sword of Saxonland” e godete della bellezza dell'epico tema melodico che più volte affiora lungo lo sviluppo della traccia).
La carriera del Nostro sarebbe proseguita alternando album black metal a lavori più atmosferici, a mio parere convincendo più con i secondi che con i primi. Per questo motivo a noi piace vedere il progetto Vindkaldr indissolubilmente legato ad un paio di lavori superlativi di dungeon synth e cruciali nel rinforzare le fila di un movimento che stava guadagnando sempre più ammiratori e seguaci anche al di fuori del black metal...
