L'heavy metal ha conosciuto ambientazioni storiche, fantasy, horror, ha trattato tematiche mitologiche, occultistiche, letterarie ed anche sociali: ha in pratica privilegiato tutti quegli ambiti che potessero in qualche modo valorizzare quel suo carattere aggressivo, minaccioso, epico. Quanto alla fantascienza, che sulla carta avrebbe potuto offrire molti spunti (dalla sua accezione più avventurosa a quella più filosofica, con sullo sfondo scenari distopici o apocalittici di indubbio fascino), per molto tempo non ha costituito altro che una variazione tematica fra un colpo di spada ed una sgassata di motocicletta.
Storicamente parlando, Metal & Fantascienza è un binomio che è emerso timidamente, in modo sporadico, per poi affermarsi progressivamente ed esplodere negli ultimi anni, tanto che potremmo oggi parlare di sci-fi metal come genere a sé stante (sebbene come etichetta non sia comunemente utilizzata). Un filone, questo, che andrebbe trattato con accuratezza, e se qualcuno volesse scriverci un libro sopra, lo pregherei di farsi avanti, perché sarebbe un argomento davvero meritevole di approfondimento. Quanto a noi, ci limitiamo a lanciare il sasso con una ricostruzione sommaria del fenomeno, senza ovviamente coltivare pretese di esaustività.
La prendo larga e parto dai Pink Floyd. Da “Astonomy Domine” per l’esattezza: siamo nel 1967, in indubbia epoca pre-metal, ma qui probabilmente vanno rinvenuti i primi, primissimi germogli di quella che, in futuro, sarebbe divenuta l’applicazione degli stilemi dell'heavy metal alla narrazione fantascientifica. Al netto delle bizzarrie freak del genio fanciullesco di Syd Barrett (espressione sublime della stagione psichedelica del rock della seconda metà degli anni sessanta), il brano offriva un portentoso e dissonante riff di chitarra, ritmiche incalzanti, tastiere allucinogene ed atmosfere stranianti fra il cosmico e il trip lisergico. Tale sensazione di "perdizione siderale" verrà poi portata all'eccesso nella incredibile suite strumentale “Interstellar Overdrive” (sempre da “The Piper at the Gates of Down”) che si presta all'orecchio (ed alla mente) come un delirio cacofonico di dieci minuti fra riff al vetriolo e balletti dissonanti di tastiere. In questi saggi di rock allucinato già si respirava quell'epica spaziale che avrebbe illuminato la stagione dello sci-fi metal.
Si fa risalire le origini del filone ai Black Sabbath di “Into the Void”, possente brano di chiusura di “Master of Reality” (1971). Se ad un primo ascolto tutte 'ste fascinazioni sci-fi non è che siano così palesi, c’è da dire che il riffing claustrofobico di Iommi va a supportare con coerenza le liriche di Ozzy incentrate sulle angoscianti vicende di una astronave spersa nello spazio.
Ovviamente i Black Sabbath non avevano l’ambizione di forgiare un metal dalle tinte cosmiche. Ci andarono più vicini gli Hawkwind, i primi a manifestare l’intento di coniugare rock duro e scenari spaziali, tanto che dal loro operato sarebbe scaturito un genere a sé stante: lo space-rock. Complice un genuino approccio psichedelico, gli inglesi edificavano cattedrali sonore che vedevano convivere impatto frontale ed espansione del suono: un vortice sonoro che aveva effetti stordenti sull'ascoltatore e che sulle assi del palcoscenico assumeva dimensioni imponenti che finivano per lambire la sfera trascendentale. Impossibile, a questo punto, non menzionare il mitico compendio live “Space Ritual”, registrato nel 1972 ed edito l’anno successivo.
Si parla di suono, ma c'era anche chi guardava al lato concettuale della faccenda. Nel 1976 i Rush con approccio ben più intellettuale davano alle stampe “2112”, dominato dalla mastodontica title-track: una suite di venti minuti che introduceva visioni distopiche che sarebbero divenute seminali nell'universo prog-metal, di cui i canadesi sono considerati pionieri. Vero è che la componente fantascientifica trapelava più dai versi che dalle sonorità esplorate, comunque pregne di quelle intuizioni progressive che supportavano egregiamente una visione cotanto ambiziosa.
Nella stagione della New Wave of British Heavy Metal, il metal si sarebbe necessariamente sganciato da quella componente psichedelica che era stata ereditata dagli anni sessanta, ma che per diverso tempo aveva costituito un compendio sonoro fondamentale alla trattazione di tematiche fantascientifiche. Ne sarebbe conseguito che la connessione a tali tematiche, se questo doveva accadere, sarebbe avvenuto per lo più a livello lirico, senza che la dimensione prettamente musicale venisse in qualche maniera impattata. Gli stessi Judas Priest, che più di ogni altro hanno concorso alla creazione degli stilemi classici dell'heavy metal, mostravano scarsa padronanza nel trattare quei temi, nonostante la passione di Rob Halford per la narrativa fantascientifica. E così “Invader” (da “Stained Class”, 1978), al netto di un intro di chitarra effettata, si assesta sulle classiche sonorità hard & heavy espresse dalla band in quel periodo, anzi, con un piglio on the road davvero fuori luogo.
Il fatto è che in uno stesso album potevi trovare il brano che parlava di fantascienza accanto a quello che raccontava le imprese di un celebre condottiero greco, e le nostre allusioni vanno chiaramente a “Somewhere in Time” (1986): dietro alla copertina che vedeva un Eddie mezzo cyborg passeggiare in una gremita metropoli del futuro, si nascondeva la classica raccolta di brani degli Iron Maiden, dove, appunto, quello fantascientifico era solo un tema fra gli altri, come, per esempio, lo era stato quello egizio in "Powerslave". Steve Harris e soci nelle foto del booklet confermavano l’immaginario della copertina facendosi ritrarre alla guida di improbabili autovetture futuristiche ricoperte di carta stagnola, ma poi, musicalmente parlando, la solfa rimaneva sempre la stessa. Facevano capolino qua e là delle synth-guitar che volevano dare a certi passaggi un effetto avveniristico (suscitando peraltro l’ansia dei soliti idioti), ma che nei fatti stravolgevano di ben poco il sound classico della Vergine.
Anche gli Helloween vantavano il loro brano ambientato in un futuro distopico, "Future World" (da "Keeper of the Seven Keys: Part 1", anno 1987): un bel pezzo indubbiamente, ma c'è anche da dire che le sfumature inquietanti conferite dal tema trattato poco donavano allo stile di solito allegrotto delle Zucche di Amburgo. In generale, vi era scarso interesse, da parte di tutti, a tradurre il proprio suono (anche solo per lo spazio di un brano) in un adeguato formato sonoro che richiamasse in qualche modo le suggestioni sci-fi trattate nei testi.
Erano pochi quei gruppi che programmaticamente si proponevano come alfieri di "sonorità fantascientifiche" con un adeguato apparato concettuale ed iconografico. Fra questi pochi vi erano senz'altro i Voivod, i quali, dalle copertine e dai testi (entrambi appannaggio del batterista Michel Langevin) fino alla musica vera e propria, hanno rappresentato il vero primo esempio di "sci-fi metal band" della storia. Lavori come “Dimension Hatross” (1988) e “Nothingface” (1989) si presentavano come labirintici ed alienanti assalti sonori in cui la materia thrash metal veniva rimodellata alla luce del progressive rock e della psichedelia pinkfloydiana (molto del merito andava all’estro ed agli effetti della chitarra del geniale Denis D’Amour). Il metal dei canadesi era qualcosa di assolutamente imprevedibile e frastornante in cui trionfava una ossessione per la tecnologia che richiamava inevitabilmente l’arte del regista David Cronemberg, illustre conterraneo della band.
I Voivod, tuttavia, sarebbero rimasti una mosca bianca nel panorama del periodo e, nonostante la bontà del loro operato, non sarebbero stati in grado di lanciare in orbita un nuovo sotto-genere del metal. Paradossalmente sarebbe stato il truce death metal a raccogliere il testimone e a prendersi carico dell'intero filone fantascientifico.
Soprassediamo sui Bolt Thrower di “Realm of Chaos: Slaves to Darkness” (1989) che sì, confezionavano un concept a sfondo fantascientifico, ma che musicalmente continuavano a marciare dietro alla corazza di un death metal di stampo tradizionale (peraltro il concept era tratto da un game book – a dimostrazione di come l'argomento venisse trattato ancora in modo puerile). Sono i Nocturnus di Mike Browning i primi ad offrire una formula veramente inedita, impacchettando il loro elaborato death metal con effetti e tastiere (finalmente innalzate a ruolo di protagoniste) ed ideando concept fantascientifici originali (ok, spesso di estrazione anticristiana – del resto non stiamo parlando di death metal?): lavori come “The Key” (1990) e “Thresholds” (1992) erano in effetti quanto di più fantascientifico all’epoca si potesse trovare in giro, non solo in ambito estremo, ma nel metal in generale.
Erano i primi colpi: il tema fantascientifico si sarebbe infatti rivelato congeniale alle geometrie di un death metal sempre più maturo, tecnico e che intendeva emanciparsi dalle classiche tematiche horror e splatter. E così nel 1991 i Death di “Human” inserivano in scaletta una strumentale intitolata “Cosmic Sea”, ove la classe chitarristica di Chuck Schuldiner andava ad immergersi in misteriche atmosfere spaziali, con una introduzione ambient ed un intermezzo che odorano di kosmische musik, ed una coda che si affida ad una estraniante psichedelia. Che non si trattasse di una sbandata momentanea lo dimostrava la seguente, più dura ma tematicamente coerente, “Vacant Planets”.
Sarà stato sicuramente l’influsso di Paul Masvidal e Sean Reinart che provenivano dai Cynic. Già i Cynic, quei Cynic che nel 1993 avrebbero dato alle stampe il capolavoro “Focus”, opera tanto breve quanto pregna di contenuti e seminale per lo sviluppo del death metal in direzione jazz/progressive. La tecnica sopraffina ed una inventiva fuori dal comune permetteva ai musicisti di districarsi fra tematiche filosofiche ed astronomiche, fra chitarre fusion e i vocalizzi alieni di un vocoder. Ma erano gli anni in cui il genere esprimeva il suo meglio, basti pensare a “Spheres” dei Pestilence, uscito nello stesso anno. Dal death metal tecnico alle sperimentazioni jazz/fusion il passo era evidentemente breve, data la preparazione dei musicisti. Non meno importante era l'apporto concettuale della penna del batterista Marco Foddis, paroliere della band e autore di testi illuminati chiamati a rappresentare un cosmo che diveniva metafora dell’interiorità. L’esplorazione dell’ignoto da parte degli olandesi si sviluppava attraverso un suono claustrofobico ed oppressivo, dominato da tempi dispari e chitarre che sembravano mimare i suoni spettrali di sintetizzatori.
La stagione del death metal sperimentale fu relativamente breve, ma gettò semi che avrebbero attecchito molti anni dopo. Nel frattempo si stavano sviluppando altri filoni come il melodic death metal e il black metal sinfonico. Nel primo caso gli Hypocrisy si imposero con un inquietante immaginario fantascientifico che si sposava alla perfezione con un suono feroce e minaccioso a metà strada fra death e doom, ma addolcito dal tocco di ariose
tastiere ed influssi pinkfloydiani che davano una certa connotazione spaziale ai brani. Fra "quarte dimensioni" e rapimenti di umani ad opera di sadici alieni, l'universo ritratto da Peter Tagtgren ha contribuito di molto ad approfondire il tema fantascientifico nel metal. Dei tanti buoni lavori rilasciati dalla band svedese, “Abducted” del 1996 è quello che ci sentiamo sempre di consigliare. Rimanendo in Svezia, e in tema di melodic death metal, non possiamo certo omettere gli Edge of Sanity di “Crimson”, la loro opera più ambiziosa, costituendo essa un unico brano di quaranta minuti. Anche qui il suono era ruvido e melodico al tempo stesso, ricalcando il carattere tumultuoso delle vicende narrate. Di "sci-fi" vi era poco, ma il concept, una storia distopica ambientata in un futuro remoto, rimane uno dei momenti più avvincenti del filone fantascientifico del metal.
Per quanto riguarda il black metal, esso avrebbe dimostrato negli anni a venire un particolare interesse per le tematiche spaziali, le quali sarebbero state approcciate nella loro accezione filosofica ed esistenzialista, in linea con la vocazione trascendentalista del genere. E così, a partire dagli Emperor di “In the Nightside Ecplipse” (1994), si andava a sdoganare un sound sì violento ed impetuoso, ma anche atmosferico, che in certi casi andava a supportare versi dedicati al cosmo (la celeberrima "Cosmic Keys to My Creations & Times"). Gli Arcturus, che portavano il nome di una costellazione e che avevano intitolato il loro primo EP proprio "Costellation" (era ancora il 1994), disponevano di musicisti dotati di una tecnica fuori dal comune, cosa che permise loro di coniugare black sinfonico e progressive, sempre con un occhio rivolto alle stelle. Anche i Covenant, che all'epoca erano percepiti come costola di Arcturus e Dimmu Borgir, si fecero notare con il bel "Nexus Polaris" (1998), riuscita variazione di black sinfonico in salsa "Guerre Stellari". I Samael, dal canto loro, andavano nella direzione esattamente opposta, preferendo puntare su freddi suoni industriali ed un impiego massiccio di sintetizzatori e drum-machine (“Passage”, anno 1996, era stato l'album della svolta verso il paradigma elettronico, poi abbracciato con maggiore convinzione nei lavori successivi). Più avanti avrebbe preso corpo anche il cosiddetto filone atmosferico del black metal, che vedremo successivamente.
Quel che era certo fino a questo momento è che, a prescindere dal genere suonato, chi intendeva cimentarsi in tematiche fantascientifiche e ambisse a riversare tali suggestioni nel proprio suono, aveva indiscutibilmente bisogno di solide competenze tecniche per realizzare i propri intenti.
Siamo ancora negli anni novanta, si è visto che death e black seppero costruire un vero e proprio percorso all’interno dell’universo sci-fi, mentre vi sarà poco da aggiungere sul fronte del power metal, rimasto radicato alla concezione avventuristica della saga spaziale. Come nel metal classico, si continuava a parlare di spazio con lo stesso registro con cui si poteva descrivere un evento storico o una vicenda fantasy, mentre musicalmente la dimensione spaziale non veniva più di tanto approfondita. Si prendano ad esempio i Gamma Ray e gli Iron Saviour, forse i più "spaziali" fra i protagonisti del power metal di quegli anni: lavori come "Somewhere Out in Space" e "Iron Saviour" (entrambi del 1997) certificavano un indubbio interesse per determinate tematiche; tale interesse, tuttavia, si fermava in superficie, all'immaginario rappresentato tramite concept di carattere epico-fantascientifico, ma con sonorità che continuavano ad aderire ai cliché del power melodico.
Non faceva maggiori sforzi lo stoner che tramite gente come Monster Magnet, Orange Goblin e in parte anche i desertici Kyuss (ricordiamo la loro “Space Cadet”, lisergica ballata contenuta nel capolavoro “Welcome to Sky Valley", del 1994) si limitava a riallacciare i legami con il rock psichedelico di settantiana memoria, senza però avventurarsi più di tanto nella codificazione di stilemi innovativi capaci di rileggere in chiave metal il paradigma fantascientifico. Se si parlava di spazio, lo si faceva in un'ottica "dopata": una scusa come un'altra per far "viaggiare" musicisti ed ascoltatori. C'è comunque da dire che il recupero della tradizione psichedelica avrebbe fornito un assist fondamentale alle nuove generazioni.
Eccoci dunque, signore e signori, al terzo millennio, palcoscenico strabiliante ove tutto e il contrario di tutto può accadere con estrema facilità. Nell’ultimo ventennio il filone spaziale ha preso progressivamente piede, diramandosi in più direzioni, facendo leva su quanto introdotto nelle decadi precedenti. Un elemento da rilevare è che l'adozione di ambientazioni spaziali ha coinciso con una estensione/dilatazione dei suoni, attraverso il medium di brani lunghi, elaborati e ricchi di sorprese. Sono passati i tempi in cui Cynic e Pestilence racchiudevano i "segreti del cosmo" in tracce di tre minuti e mezzo!
Sono questi gli anni in cui il post-metal indietreggiava al rock settantiano, e c'è da dire che accadevano cose bellissime. Fra gli autori più brillanti di questa stagione vanno certamente annoverati i Mastodon che, fra forza d’urto, epicità e verve progressiva, davano alla luce il capolavoro “Crack the Skye” (2009), da vivere come un trip allucinogeno dalla prima all'ultima nota. Anche in questo caso il taglio fantascientifico veniva dato dal concept (ove psicoanalisi e sostanze stupefacenti giocavano un ruolo non secondario), ma anche musicalmente si percepiva lo sforzo della band nel voler dipingere paesaggi astrali mozzafiato, come al solito grazie a tecnica, inventiva ed uno sguardo nostalgico ai viaggi mentali suscitati dalla musica di Hawkwind e Pink Floyd.
Il nuovo millennio forse non avrà forgiato stilemi nuovi di zecca, ma di certo ha saputo frullare tutto con grande perizia: ne sono una espressione entità come Oranssi Pazuzu e Waste of Space Orchestra (ma la lista potrebbe andare avanti), artisti che, come gli stessi Mastodon, si sono dimostrati abilissimi nel gettare un improbabile ponte fra metal estremo ed esplorazioni psichedeliche. Da rimarcare, ma solo per inciso, che la dimensione spaziale avrebbe incontrato anche le sensibilità del post rock e dello shoegaze, generando visioni che a volte hanno saputo raggiungere vette di lirismo davvero elevate, come successo con gli Ison.
Anche il cosiddetto movimento del neo-progressive fornirà un grande contributo alla causa fantascientifica. Ci sarebbero molti nomi da menzionare, ma in questa sede ci limiteremo a citarne un paio. Uno di questi è quello di Arjen Anthony Lucassen , diviso in una miriade di progetti, tutti più o meno collocati ad "alta quota". Ovviamente le sontuose metal-opere degli Ayreon (citiamo almeno la spazialissimo "The Universal Migrator", 2000) sono nelle nostre orecchie e nei nostri cuori, con storie avvincenti e dalle molteplici chiavi di lettura, raccontate da ospiti d'eccezione e poggiando su una tradizione rock e metal lunga cinquant'anni, ove le influenze più disparate copulano armoniosamente con l'intento di emozionare l'ascoltatore ed edificare strabilianti landscape sonori. E come non citare gli Space One, sempre partoriti dalla mente e dalla mani di Lucassen, che nel 2002 davano alle stampe un lavoro che si intitolava niente meno che “Space Metal”?
Le tematiche fantascientifiche sono evidentemente appannaggio di chi ha fantasia e visioni ambiziose da esprimere (non era del resto partito tutto da Syd Barrett?), per questo è da mettere nella lista della spesa anche l’incommensurabile Devin Townsend, che, fra le infinite diramazioni della sua incontenibile creatività, di certo la "metal-opera spaziale" “Ziltoid The Omniscent” (2007) è uno dei suoi esperimenti più stravaganti. In esso si manifesta il lato goliardico della sfaccettata visione dell'artista canadese (per la cronaca: Ziltoild è un extraterrestre che dichiara guerra al pianeta terra perché deluso dalla qualità del caffè offertogli dagli umani), ma musicalmente è quanto di più compatto il buon David abbia confezionato nella sua carriera solista: drum-machine caricate a bomba, riff come macigni, maestose tastiere, brani dagli sviluppi imprevedibili e solita schizofrenia vocale fra growl, screaming, bizzarra teatralità ed improbabili monologhi/dialoghi. Ennesima dimostrazione della versatilità offerta dall'ambientazione spaziale: per taluni un luogo denso di drammi, misteri e quesiti insolubili; per altri un palcoscenico ove inscenare le avventure più strampalate.
C’è anche chi nel terzo millennio decide di esplorare il cosmo rispolverando il vecchio thrash metal: è il caso dei Vektor che, prendendo spunto da certe intuizioni degli imprescindibili Voivod, mettono a punto una proposta che vede convivere pacificamente un thrash metal veloce e spigoloso e passaggi strumentali funambolici, con testi e copertine a supportare l'immersione completa in tematiche squisitamente fantascientifiche (mi raccomando segnatevi “Terminal Redux”, del 2016!).
Ma al di là della proliferazione di metal fantascientifico da ogni dove, se oggi esiste uno sci-fi metal in senso stretto, quello è degnamente rappresentato da una folta, anzi foltissima schiera di band che suonano o technical death metal o atmospheric black metal.
Nasce nel terzo millennio una nuova concezione di death iper-tecnico che sa coniugare alla perfezione brutalità e complessità: un sound claustrofobico ed oppressivo che si costruisce tramite bagagli tecnici importanti, fitte trame di riff che corrono perennemente sul filo della dissonanza e growl ottenebranti che recitano versi che descrivono ogni sorta di menata che puoi avere nello spazio. Non sono secondari i rimandi al suono schizoide dei Morbid Angel, non certo estranei a determinate sperimentazioni, e che nel 2000 si erano lanciati nello spazio con l'ottimo "Gateways of Annihilation" (eloquente la copertina). Si compiva così la perfetta fusione fra le torbide atmosfere del cosmo e la mitologia lovecraftiana, che con il death metal si è sempre accompagnata come il cacio con i maccheroni. Portal, Blood Incantation, Artificial Brain, Tomb Mold, sono i nomi più rappresentativi di un gruppo ben più numeroso.
Quanto al black metal, si era accennato al filone atmosferico che dalle impetuose sinfonie emperoriane si sarebbe proiettato sempre più in alto, conservando l’imponenza e la maestosità che sono tipiche del genere: Darkspace, Mare Cognitum, Midnight Odyssey, Lunar Aurora sono solo i primi nomi che vengono in mente. Tutti artisti, questi, che si muovono attraverso il modulo del brano lungo, disorientante, imprevedibile, capace di annullare le comuni coordinate spazio-temporali con l'intento manifesto di sradicare l'ascoltatore dalla sua dimensione terrestre e lanciarlo fra le insidie del cosmo. Il linguaggio si arricchisce di prelibatezze progressive, di suoni psichedelici, di progressioni post-metal e persino del respiro inquieto della musica ambientale. A tal riguardo vorrei citare l’esperimento in direzione drone-ambient dei superbi Wolves in the Throne Room che, dismessi i panni dei lupi famelici, con “Celestite” (2014) si accomodavano dietro ai sintetizzatori, facendosi ispirare dai signori della musica cosmica, Tangerine Dream e Popol Vuh in prima fila.
Un approccio, quest'ultimo, importante ma minoritario, in quanto la visione che oggi va per la maggiore, forse specchio dei tempi caotici ed alienanti che viviamo, è piuttosto quella dello spazio come luogo inospitale e denso di insidie, quello che viene dipinto con precisione da una miriade di band che hanno adottato l’immaginario fantascientifico come propria ragion d’essere. Un fenomeno, questo, oramai del tutto fuori controllo e a cui è difficile stare dietro: Fractal Generator, Zetar, Galactic Mechanics, Vorga, Journey into Darkness, Arcanum Sanctum, Nebulium, Omega District, Nucleus, Praesidium, Mesarthim, Deathcomet sono solo dei nomi di una lunghissima lista.
Insomma, il metal ha oramai mollato gli ormeggi ed è decollato oltre la volta celeste. Al di là delle stelle c'è un intero universo che ci attrae ed atterrisce al tempo stesso, ed anche il metal, a modo suo, ha provato a raccontarcelo. Per chi fosse interessato ad approfondire l'argomento, quelli sotto riportati sono dieci titoli che rappresentano, pur sommariamente, il fenomeno e la sua evoluzione nel corso dei decenni. Ma, vi assicuro, c'è molto altro da ascoltare....
Voivod: "Dimension Hatross" (1988)
Nocturnus: "The Key" (1990)
Pestilence: "Spheres" (1993)
Samael: "Passage" (1996)
Ayreon: "The Universal Migrator" (2000)
Devin Townsend: "Ziltoid the Omniscient" (2007)
Mastodon: "Crack the Skye" (2009)
Vektor: "Terminal Redux" (2016)
Portal: "Ion" (2018)
Mare Cognitum / Spectral Lore: "Wanderers: Astrology of the Nine" (2020)