I 10 MIGLIORI
ALBUM DELLE CULT BAND (ANNI ’90)
1990: “THE KEY”
Prima che diventassero capofila
del movimento Death Metal mondiale, deflagrando col seminale “Altars of
Madness” (1989); prima che l’istrionico David Vincent vi si unisse mettendosi
dietro al microfono; prima di reclutare alla batteria il grande Pete Sandoval e
diventare un four-piece…prima insomma di diventare i Morbid Angel che tutti
conosciamo, il gruppo floridiano all'origine era un trio che annoverava tra le proprie fila
un certo Mike Browning.
Per un paio
di anni, agli albori della vita dell’Angelo Morboso, egli rivestì il singolare ruolo
di batterista/cantante (“mosche bianche” i batteristi/cantanti, seppur, caso
vuole, recentemente il nostro Blog ne abbia ricordato un altro, cioè Chris Reifert
degli Autopsy). Con quella formazione a tre, i Morbid Angel pubblicarono
“Abominations of Desolation”, demo del 1986 che però non soddisfò minimamente
il padre-padrone Trey Azagthoth. Effettivamente la voce di Browning non si può
dire che fosse memorabile…
A cura di Morningrise
Risultato? AOD venne ristampato e
commercializzato solo nel 1991, dopo i tranquillizzanti fasti di “Blessed are
the Sick”, e Browning venne silurato dalla band senza colpo ferire…
Che fine fece il buon Mike? Non
si perse d’animo, continuò a essere operativo nella ribollente scena death
floridiana e trovò la sua rivincita in “The
Key”, fenomenale debut album della sua nuova creatura, i Nocturnus.
Pionieri. Non possiamo definirli
diversamente. Assieme ai Pestilence e addirittura
prima ancora degli Atheist (il cui
debut, “Piece of Time”, venne pubblicato in Europa sì un anno prima di “The
Key”, ma negli States solo tre mesi dopo) i Nocturnus sono gli alfieri del
death più vario, tecnico e progressivo.
Oramai lo sanno anche i muri: ciò
per cui la band floridiana passerà meritatamente alla Storia del Metallo è per
aver inserito nel disco in oggetto un costante uso di
tastiere all’interno di un sound
violentissimo; una violenza sia sonora che psicologica.
Un uso, quello
delle keyboards, inquietante, centellinato, inserito o nei diversi intro dei pezzi oppure
volto a sottolineare i momenti e i passaggi più significativi degli stessi; partiture fuse perfettamente con i neonati stilemi death, rivisitati in chiave
technical dallo straordinario lavoro dei due axe-man, Mike Davis e Sean McNenney.
Le dieci tracce dell’album, molte
delle quali riprese dalle prime due demos della band del 1987 e ’88, filano via
in modo fluido nonostante turbine di riff claustrofobici, spesso lanciati alla
velocità della luce, come nella travolgente “Standing in Blood” o l’alienante
“Andromeda Strain”. E nei rari casi in cui le tastiere di Louis Panzer prendono il sopravvento sulle sei-corde, come nel caso
di “Neolithic”, il risultato è da brividi (sarà una mia fantasia ma immagino
che l’allora diaciassettenne Dani Filth
abbia ascoltato parecchio questo pezzo prima di fondare i Cradle…).
Nonostante la proposta della band quindi non sia delle più semplici, il songwriting vario ed ispirato fa sì che la noia non
faccia mai capolino. Anzi, i geniali rallentamenti alternati alle parti più
tirate, squarciate quando meno te l’aspetti da assoli lancinanti in kerryking-style, fanno sì che il livello si mantenga ottimo, senza cadute di
tono. Non ci sono filler quindi, tracce skippabili: si rimane avvolti per tutti
e 48 i minuti di durata in questo flusso sonoro avvolgente, freddo, straniante,
quasi “stellare”. Cosmico, direi.
La peculiarità del disco è quindi
proprio questo suo mood da film a metà tra l’horror e la Sci-fi, tant’è che le atmosfere generate fanno sì che più
di una volta sembra di ritrovarsi nel bel mezzo di una guerra cosmica tra forze
del Bene e forze del Male.
A dimostrazione di quest’ultima
sensazione è utile e interessante soffermarsi sulle lyrics. Leggendole nella
loro interezza sembra che ci si trovi di fronte a un concept, anche se sui
generis. Un po’ naif diciamo…
Al centro c’è il non troppo
originale tema della vittoria di Satana sulle forze del Paradiso. In
particolare la distruzione del Regno dei Cieli è fatta coincidere con la
liberazione delle anime dei morti che possono trovare, appunto, la chiave per arrivare “a casa”, cioè
all’Inferno. Dove le aspetterà l'immancabile Caronte pronto per traghettarle sull’altra sponda dello
Stige (“Standing in Blood”).
Ma è solo nei pezzi finali che la
trama si fa più chiara: il protagonista della storia, (un non-morto?) grazie al
potere satanico che glielo consente, si risveglia nella sua tomba, ne fuoriesce
e come prima cosa, mosso da una notevole e comprensibile fame arretrata, banchetta
allegramente con la carne della prima malcapitata ragazza che incontra per
strada; il che gli restituisce linfa vitale, il sangue caldo torna a fluire nelle vene e
questa nuova giovinezza lo renderà pronto per la sua missione (“Undead Journey”). E in cosa consiste la missione?? Qui i Nocturnus vanno a
scopiazzare allegramente “Terminator” (che ricordiamo uscì già nel 1984 e, com'è noto, ebbe un impatto incredibile sull'immaginario popolare). Si,
perché il nostro redivivo cadavere, mette i panni di una sorta di cyborg e
viene rispedito indietro nel tempo, ovviamente all’Anno Zero (“Before Christ /
After Death”), per “distruggere la mangiatoia” (“Destroy the Manger”), cioè
ammazzare il neonato Gesù Cristo e porre fine alla Cristianità; anzi non consentirne neppure la nascita.
A questo punto del plot la
domanda sorge spontanea: se Satana ha già conquistato il Paradiso e domina
sulla terra promessa (Now heaven is destroyed by Satan / He will rule the
promised land), e addirittura un Cristo piangente invoca la morte come una
liberazione, immerso in un lago di sangue davanti al trono di Lucifero (Kneel
before Lucifer’s throne / Jesus wept – Standing in blood / Praying to die – Standing
in blood), come ci era già stato detto alla traccia numero 3 (la già citata “Standing
in Blood”, appunto…), a che cazzo serve tornare indietro nel tempo per farlo
fuori ancora in fasce (traccia numero 9)??
Vabbeh…poco importa. Anche
perché, come detto sopra, non siamo di fronte a un vero e proprio concept
unitario. Quanto ad un alternarsi di pezzi con testi canonicamente death (come ad esempio la
splendida opener “Lake of Fire”) ad altri più fantascientifici (“Andromeda Strain”,
“Droid Sector”, “Empire of the Sands”).
Comunque: alla fine della fiera,
fatti fuori Gesù, Giuseppe e Maria “sotto il segno della chiave” (il nostro
cyborg, nel momento di pulling the trigger verso la Sacra Famiglia al
completo, urla loro, ridendo istericamente: Die by the Sign of the Key!), le
porte del Regno del Male si spalancano e l’esito della Battaglia è finalmente chiaro: Your savior has now fallen / My reign of Evil has only just begun.
Consiglio ad ogni modo di leggersi l’intero testo di “Destroy the Manger” perché tocca un lirismo
davvero notevole, intriso di un’aura misteriosa che sarà il minimo comun denominatore
dell’intero immaginario concettuale sviluppato nel corso degli anni dai
Nocturnus.
Sul versante “sfighe”, che
accompagnano sempre le nostre band cult, va detto come per i Nocturnus non ve
ne siano state di particolari. Cioè: ebbero sempre un successo più che buono,
sia di critica che di pubblico; non solo per il qui presente album, ma anche
per il successivo “Thresholds” (1992), che si presentò ancora più sperimentale
e ardito del precedente.
Ciò che quindi ne minò la
longevità fu invece una sorta di irrequietezza di fondo, un’insoddisfazione tra
i diversi membri della band (per il secondo full-lenght venne assoldato un
cantante vero e proprio e Browning cominciò a non avere più il totale controllo
del progetto).
Attriti sia interni (soprattutto tra il batterista e la coppia
McNenney / Panzer,) che direttamente con la Earache Rec., accusata di una
scarsa promozione del loro ultimo tour europeo, minarono irreparabilmente la
coesione. Il risultato fu la clamorosa cacciata di Mike (…e due!). Da lì il passo che
portò allo scioglimento della band fu breve, nonostante una fugace reunion voluta sempre
dal duo McNenney/Panzer nel 1999 per dare alla luce il cupissimo “Ethereal
Tomb”, pubblicato nel 2000.
I Nocturnus sono probabilmente un
caso idealtipico di quanto sia grande il cuore di noi metallari dalla memoria
lunga: anche quando sembrerebbero destinate all’oblio perché sciolte, questo
tipo di band non vengono mai dimenticate dai fan della prima ora, nonché omaggiate
dal mondo underground del metallo.
Spesso ci bastano, per rimanere
grati a gruppi così, poche ma significative gesta…e “The Key” è senza dubbio
una di queste.