Nella nostra spasmodica ricerca
di una credibile via futura alla rigenerazione del metal probabilmente non
inseriremmo gli australiani Ne Obliviscaris. E ancor più probabilmente saremmo
tra i pochi a non farlo, date le entusiastiche recensioni e gli incensanti commenti che si
leggono su tutti i siti specializzati della rete.
Evidentemente nella città di
Melbourne si deve respirare un’aria particolare se negli ultimi 15 anni sono
fiorite diverse band di spessore, posto che ai Ne Obliviscaris fanno compagnia, seppur su
coordinate musicali parecchio diverse, gli ottimi Be’lakor e i pazzoidi King
Gizzard & The Lizard Wizard.
Ma torniamo al nostro quintetto e
partiamo dalla “forma”. Lo diciamo subito, i Ne Obliviscaris hanno tutto per sfondare: un
nome in latino originale ed attraente, covers splendide, ricche di colori e
simboli suggestivi; booklet e artwork accattivanti che danno da subito un senso
di soddisfazione dopo aver acquistato il CD. E poi: un tenebroso frontman nerovestito, dal misterioso nickname (Xenoyr, capello lungo e liscio che mette sempre in mostra i bicipiti ben
tatuati); un’etichetta, la Season of
Mist, seria, affermata e con alle spalle un’esperienza ultraventennale;
testi misteriosi ed ermetici ma che fanno sottintendere una ricerca filosofica non banale.
E ora passiamo alla “sostanza”
prettamente sonora. Nella proposta dei N.O. ci troviamo tantissime cose in un
contesto di totale destrutturazione del formato-canzone: da sinfonismi
assortiti a partiture technical-jazz; da devastanti accelerazioni extreme/death
metal, a suadenti intermezzi folk; da momenti classicamente prog fino a
modernismi djent.
L’uso della doppia voce clean&harsh, la presenza del violino (che intriga sempre noi metallari, anche se nel metal il suo utilizzo è ormai datato e non costituisce di per sè una novità); i continui cambi di
ritmo e di umore e un’intelligente gestione dei pieni e dei vuoti aggiungono
sale ad una pietanza di per sé già ultra saporita. Se a tutto questo
consideriamo una sensibilità palesemente progressiva e una tecnica di base
notevolissima di tutti i musicisti coinvolti, possiamo facilmente capire come
il successo peri Nostri sia quasi “scritto” in partenza.
Insomma, il terzo full lenght della loro carriera, “Urn” si candidava prepotentemente come “album of the year”, posto che alle spalle aveva già due dischi (che, con qualche variazione sul tema, si muovevano sulle stesse coordinate) che avevano fatto gridare al miracolo (soprattutto il mastodontico debut del 2007 “Portal of I”). Tant’è che anche Metal Mirror l’ha inserito correttamente nella top ten del 2017.
Ma…
Ma cosa c’è che non va allora?
Cosa vogliamo ancora, noi inutili scribacchini pieni di paturnie e seghe
mentali? Cosa ci fa storcere snobisticamente il naso?
Per quanto mi riguarda c’è che
“Urn” è un disco freddo come un ghiacciolo, che non riesce a darmi, se non in
rari e fuggenti momenti, emozioni e vibrazioni dell’anima. Troppo cervellotico
e con un odore, neppur troppo vago, di studiato a tavolino.
Nessuna canzone brutta, sia ben
inteso: il tutto è stra-ben suonato, l’assenza dello storico
bassista Brendam Brown è sopperita in maniera ottimale dal tecnicissimo
bassista olandese Robin Zielhorst
(non a caso un ex-Cynic…ed è tutto dire). E, cosa molto apprezzabile, il
minutaggio viene contenuto a 46’ (corretta tendenza che, rispetto ai 71’ del
debut, avevamo già riscontrato nel precedente “Citadel” che rimaneva anch’esso sotto i 50’).
Il problema è che questo “Urn”, a
differenza dei due fratelli maggiori, non “buca” quasi mai, non
entra mai nel profondo. Neppure quando si vorrebbe creare delle atmosfere
sognanti, eteree o malinconiche (vedasi la breve strumentale “Libera – Part II”).
Questo perché i virtuosismi dopo poco annoiano, perchè ormai le nostre orecchie son troppo sgamate e certi barocchismi ci stuccano, perché la doppia cassa lanciata
a mille all’ora, che pare quasi una drum machine, ci ha frantumato gli zebedei,
perché il growl di Marc Campbell…ehm,
pardon, Xenoyr, seppur tecnicamente valido, è monocorde e a tratti persino fuori luogo; perché la
voce pulita di Charles è impostata e quindi “distante”; perché questa produzione
così pulitina rende il tutto emotivamente frigido, perchè anche quando i Nostri fanno i violenti e gli estremi rimangono composti ed "educati". In
questa cascata di note e di suoni, pure il violino di Tim Charles, sia quando ruba la scena agli altri strumenti, sia quando funge da
contorno, rimane algido. E un violino algido non è altro che un ossimoro. Un
nonsense…il violino se non emoziona, se non funge da supporto a una musica struggente e ricca di pathos, ha poco senso, quantomeno in ambito metal. Charles per carità fa il suo. Si sbatte e dimostra qualità da vendere. Ma cazzo
Tim…meno note, meno note ma più sentite!
Che poi sapete che vi dico? Che se smetto i panni del rompicoglioni e dello scribacchino da strapazzo, se non penso al fatto che in vecchiaia tendo a ricercare altre sonorità...il disco mi piace. E non poco. E, soprattutto, cresce col passare degli ascolti. E tutti gli pseudo-difetti su elencati, si sgonfiano; li avverto sempre ma depotenziati, non molesti.
Promossi quindi, seppur con qualche riserva. Se poi, col prossimo disco, riusciranno a contemperare le tante idee e le indubbie qualità tecnico-compositive con un cuore caldo e ricco di sentimento, beh...state certi che mi unirò alla schiera dei loro fan indefessi...
Promossi quindi, seppur con qualche riserva. Se poi, col prossimo disco, riusciranno a contemperare le tante idee e le indubbie qualità tecnico-compositive con un cuore caldo e ricco di sentimento, beh...state certi che mi unirò alla schiera dei loro fan indefessi...
Voto: 7,5
Canzone top: “Libera – Part I- Saturnine
spheres”
Momento top: i lancinanti ultimi 2’ di “Urn –
Part I – and within the void we are breathless”
Canzone flop: nessuna
Etichetta: Season of Mist
Dati: anno 2017 - 6 canzoni - 46’
A cura di Morningrise