"Parlare di Musica è come ballare di architettura" Frank Zappa

16 feb 2018

VIAGGIO NEL METAL AFRICANO - EPILOGO: SCAMPOLI D'AFRICA



Ci sono alcune realtà che meritano di essere menzionate, che esistano o meno. Così potrebbe iniziare un racconto di Lovecraft, e invece siamo qui a parlare di amenità del metal africano trovate raschiando il fondo del barile.

I Giza Uchawi hanno tutta l'aria di una montatura. Esistiti o meno a Dar es Salaam, risultano estinti, e autori di un unico demo nel 2002. La loro musica è apparentemente ospitata da alcuni archivi a pagamento, ma non ci giurerei che poi uno trovi veramente gli mp3 in questione. Anche la dicitura di “true tanzanian black metal”, e una specie di Tony Iommi tanzaniano in copertina (presumiamo l'unico membro tuttofare, Benjamin Mika) non fanno pensare bene. "Kizuu" è un demo di tre tracce, che rimarrà circondato da un alone di mito finché qualche tanzaniano di buona volontà no si deciderà a suonare davvero metal. Non esiste infatti altro collegamento tra metal e Tanzania al momento.

Un artista olandese, appassionato di metal, ha una sua teoria sulla sua natura essenziale. Niente rabbia giovanile, come sentenzia Ozzy, ma un sentimento arcaico di sacralità, terrore e fascino insieme per la natura dei luoghi in cui si è cresciuti. Secondo questa teoria ogni territorio può produrre Metal, e la tradizione popolare, con le sue storie di fantasmi, può essere il giusto spunto per costruire “a tavolino” un disco metal a partire da un territorio ancora vergine. In Camerun, per esempio. E allora via con l'esperimento. Si prendono dei musicisti camerunensi e si fonda un gruppo col nome ispirato ad una ghost-story del luogo, Ngos 'a Bedimo. Le cavie umane non hanno idea di cosa sia il metal, ma secondo questa teoria dovrebbe per loro essere spontaneo suonarlo se provano a fare qualcosa che rappresenti la mitologia popolare locale. Furono creati dei mostri, dei disadattati dal destino triste, come il classico Frankenstein, che a esperimento concluso furono poi abbandonati ed evitati da tutti, conservando le orribili cicatrici di quell'esperimento di ingegneria antropologica. Gente che emette sonorità metal per automatismo, meccanicamente, privata della propria volontà. Si conserva una foto di uno di loro, che indossa, chiaramente inebetito e inconsapevole, una maglietta con il logo del gruppo. Il gruppo ebbe vita breve, tre settimane, in cui produsse qualche brano e suonò dal vivo. Si trova un raccapricciante documentario fatto di tre spezzoni in croce delle prove e dell'esibizione. Dopo lo scioglimento, prematuro diremmo, del gruppo i membri continuano a sopravvivere, ormai emarginati dalla comunità, producendo riff classic-power che da anni vendono poi a prezzi irrisori a Rock and Rolf. Pare che da allora il metal in Camerun sia ufficialmente vietato. Scherzi a parte, la storia così come è andata secondo me è ugualmente triste.

In Etiopia i Nishaiar giocano la carta del black metal atmosferico. Ammesso che siano etiopi, perché qualcosa mi fa dubitare di ciò: “I Nishaiar sono un gruppo formato nel caos di Zenadadz, anno terrestre 2016”. Zenadadz, per chi eventualmente non lo sapesse (in Etiopia tutti lo sanno) è una dimensione superiore che esiste solo in stati superiori di consapevolezza. Il tema atmosferico dei Nishaiar è appunto cosmico, così come le immagini di copertina e i misteriosi titoli, che a tratti suonano come i nomi di lontani pianeti. La mia perplessità riguarda il fatto che di solito queste cazzate le sfornano personaggi del Texas, tipo gli Absu. Quale il nesso tra cosmo infestato da entità superiori e l'Etiopia?

Lasciamo aperto l'interrogativo per spostarci su realtà più verificabili, come gli Iron Sliver. Alternative and Gothic metal band....avete dieci secondi di tempo per evacuare l'area. Peggio per voi! Sarete investiti da quel favoloso genere-calderone che è il il metal “alternativo” africano, in cui il termine “gotico” ha un'accezione incerta. Trattasi di pop metal, con il vezzo idiosincrasico africano di infilare del growling a sorpresa in brani che altrimenti sarebbero sulla linea di Poison o Quireboys. Roba che fa rimpiangere sicuramente il materiale inesistente dei Giza Uchawi, e perfino il black metal cosmico etiopico. Ma ahimé questo è tutto quello si può trovare in tutta l'Africa Centrale, qui siamo nel Gabon per essere precisi.

Se si escludono gli Arka'n, dal Togo. Perché escluderli, allora, direte? Ci sarebbero ottimi motivi, primo tra tutti quello di definire la propria musica su Facebook come “hard metal”. Un brano di pop metal, se volete fusion, introdotto da percussioni etniche (un membro appositamente è addetto al bongo), con video performance tutti chiusi in quella che sembra una cabina balneare.

Temevamo di dover concludere in tristezza l'avventura africana, ma siamo stati salvati da un gruppo spuntato da una costola dei Vale of Amonition, i Doomcast. Doom d'annata, dalla lentezza innaturale, come deve essere il doom qualunque ne sia la velocità effettiva. Antichi nello stile del logo, e anche nelle sonorità, si proclamano “anticolonialisti” e “antisuprematisti bianchi”. Un titolo, un programma: Addio alla carne ("Farewell to the flesh"). Possiamo comprare le singole canzoni dalla pagina su bandcamp per “un dollaro o più”, della serie “hai un euro per un panino?”. Ad una sommaria lettura, i testi ricordano il classico sentimento doom alla My Dying Bride, con questi versi programmatici

Il mio cuore è disperato nel sentire la mancanza che tu mi riveli
La mia arte si nutre del dolore che tu illustri con tanta bellezza
La mia strada è lastricata dalle paure che anneriscono le tue notti
La mia gioia è raggiunta soltanto con la rabbia che sono obbligato a sentire

In generale, c'è una maggiore tendenza all'unione del destino individuale a quello collettivo, in una specie di “doom sociale”, il che costituirebbe una diversità lirica rispetto al doom occidentale, in cui l'individuo soffre e decade insieme al mondo, ma spiritualmente distaccato da esso. Inoltre questo sentimento di disperazione è storicizzato, e in più di un passo riferito ai colonizzatori stranieri, o a chi promuove guerre di religione.
Che dire...un'isola felice rispetto a quel fastidioso ottimismo che si respira spesso nel metal africano, anche se perfino nel doom non mancano sprazzi di ottimismo nella forza della ribellione.

Chiudiamo quindi in bellezza, e questo ci riporta a due verità: la qualità nel metal africano non manca, e neanche le basi per un futuro ancora più importante, visto che non facciamo in tempo a passare, che già sono nati altri progetti.

A cura del Dottore