"Parlare di Musica è come ballare di architettura" Frank Zappa

27 feb 2018

VIAGGIO NEL BLACK METAL CONTAMINATO ATTRAVERSO VENTI OPERE SEMINALI (parte seconda)



Black metal: un genere che negli intenti si è sempre dichiarato elitario, "eletto", appartenente ad una “categoria superiore”, ma che nei fatti si è trovato a copulare con praticamente chiunque abbia incrociato la sua strada: folk, psichedelia, progressive, post-rock, shoegaze, industrial, elettronica, techno, ambient e chi più ne ha più ne metta!

Eccovi dunque serviti altri dieci album per comprendere cosa sia il "black metal contaminato": se vi siete persi la prima puntata, cliccate qui, altrimenti... che diavolo state aspettando? Buona lettura!

Satyricon: "Volcano" (2002)

Si è visto come in Norvegia certi esponenti delle vecchia guardia, già verso la metà degli anni novanta, avessero saputo smarcarsi dagli stilemi classici del black metal. A Satyr e Frost ci volle un po' di più: ecco che nel 1999 se ne uscivano con quel "Rebel Extravaganza" che, marchiato da influenze industrial, avrebbe deluso gran parte della fan-base, ma che avrebbe gettato semi importanti per le evoluzioni del black metal a venire. Con "Volcano" l'affrancamento dal passato si fece ancora più netto, ma ciò permise ai Satyricon di accattivarsi le simpatie di nuovi ammiratori, soprattutto fra i più giovani. I tempi rallentavano, la scrittura veniva notevolmente semplificata e da questo processo di "riduzione all'osso" scaturivano brani diretti e talvolta orecchiabili: emblema di tutto questo è il singolone "Fuel for Hatred", dove le influenze dei Motorhead divenivano ben più di un background dettato dagli ascolti di gioventù. Il termine black'n'roll esisteva già, considerato che in precedenza Darkthrone e Carpathian Forest si erano mossi in codesta direzione, ma i Satyricon, forse in modo più ruffiano, cavalcarono l’onda con maggiore efficacia, riscuotendo consensi fra coloro che, senza i pregiudizi dei fan della prima ora, vedevano il rock come un mondo indistinto in cui potessero convivere black metal e i Foo Fighters.

Blut Aus Nord: "The Work which Transforms God" (2003)

Il controverso progetto francese capitanato da tale Vindsval è comunemente considerato uno dei più geniali rinvenuti nel calderone del "dopo" black metal. Prese le distanze dagli stereotipi del genere (ed in particolare dall'iconografia satanica), i Blut Aus Nord accolsero solamente il carattere concettualmente sovversivo del "metallo nero", preferendo guardare oltre ed in particolare all'industrial-metal dei Godflesh. Un sound deviato, forgiato in una fucina in cui furia senza compromessi veniva combinata con inquietanti liturgie doom e morbosi impasti sonori pregni di dissonanze e riverberi. A distinguerli da molti altri sperimentatori fu un uso creativo delle tecniche di registrazione: i suoni venivano manipolati e trasfigurati in studio (le chitarre rallentate o velocizzate a seconda della convenienza, le voci filtrate dagli effetti più svariati ecc.), generando sensazioni di tremenda claustrofobia, ma di fatto aggiornando la spiritualità del black metal alla luce delle nevrosi del terzo millennio. In questa sorta di rituale, in cui convivevano spossanti rallentamenti, accelerazioni letali, ma anche momenti di grande ispirazione melodica e persino interludi ambientali, l'essenza del black metal sopravviveva conservando la sua vocazione alchemica ed occultista, ma soprattutto la capacità di sondare i recessi più oscuri dell'umana interiorità.

Sunn O))): "Black One" (2005)

Paradossalmente sarà una band non-black metal a formalizzare le novità più significative e ricche di implicazioni della storia recente del genere. I primi tentativi compiuti verso una concezione di musica ambient e dilatata erano stati tentati molti anni prima da entità come Burzum e Abruptum, ma Anderson e O' Malley seppero rimaneggiare le intuizioni dei protagonisti della Norvegia degli anni novanta con l'approccio dell’intellettuale (citando, fra le altre cose, i Mayhem con il testo di “Freezing Moon” e gli Immortal con una cover stravolta fino a renderla irriconoscibile). Alla stregua di un saggio sul black metal, "BlackOne" (l'intento era esplicito fin dal titolo) slabbrava e dilaniava la furia originaria di questo genere, sfilandogli la spina dorsale (l'elemento ritmico) ed immergendolo nella pece nera della drone-music, vera prerogativa artistica del duo americano. E (questo va ammesso) con risultati tutt'altro che "morbidi": il black metal manteneva la sua essenza estrema annullando la velocità e sposando il processo di catarsi, elevato a "corridoio privilegiato" per raggiungere "luoghi altri" ove le coordinate spazio-temporali venivano ridefinite. E dove irrimediabilmente si perdeva l’incauto ascoltatore…

Agalloch: "Ashes Against the Grain" (2006)

Si è visto che una certa vocazione destrutturante ha animato il black praticamente dalle sue origini, ma non potevamo non citare gli Agalloch per quanto riguarda il compimento definitivo, da parte del black metal, di un percorso in direzione post-rock. Il terzo full-lenght della band dell'Oregon costituiva l'apice formale di questo cammino, benedetto da una produzione finalmente potente ed al tempo stesso curata, capace di valorizzare tutti i dettagli e le sfumature di brani lunghi ed in prevalenza strumentali. Intensi crescendo e linee melodiche di gran classe, così come insegnato prima dai Mogwai e poi dagli Isis, erano il medium ideale per modellare l'intensità emotiva espressa dal black metal scandinavo e trasferirla sotto l'ombra di querce e sequoie del Nord America: una celebrazione di Natura e Tradizione che avveniva anche tramite il recupero di certe prelibatezze del folk apocalittico (i SolInvictus, per esempio, erano stati in precedenza tributati con una cover). E senza disdegnare certe soluzioni di dark-wave e gothic metal evoluto. Tutto questo era bellissimo, troppo bello per durare, ed infatti gli Agalloch si sarebbero sciolti di lì a poco, dopo solo cinque album che avrebbero fatto la storia del "Nuovo Black".

Alcest: "Souvenirs d’un Autre Monde" (2007)

Dalle tenebre alla luce, dal post rock allo shoegaze. L'intuizione del giovane Neige (all'epoca poco più che ventenne) fu di mettere in contatto l’intensità del black metal e l’impeto malinconico promosso da band come My Bloody Valentine e Slowdive. In altre parole, con le sue composizioni eteree e sognanti, creava un ponte fra i suoni marci e stratificati del black metal e la rarefazione sonora dello shoegaze. Mondi lontanissimi uniti dalla fisiologia e dalle finalità di due generi musicali che mettono al centro di tutto l'espressione di mondi interiori: e così, per magia, i riff al tremolo divennero l’anima pulsante di un wall of sound che sapeva coniugare potenza e melodia, introspezione e poetica burzumiana. Neige, armato di una penna ispirata e di una voce versatile che sapeva farsi dolce e vellutata, diveniva così il padre di un nuovo sotto-genere, il blackgaze, destinato a proliferare nel panorama metal (ma non solo) degli anni zero.

Nachtmystium: "Assassins: Black Meddle, part I" (2008)

Il black metal del nuovo millennio è americano, non ci sono dubbi. Lo conferma questo gioiello che seppe mettere d’accordo ferale black metal ed umori seventies come nessuno aveva saputo fare prima. Si andò ben oltre il black'n'roll sdoganato da Darkthrone e Satyricon, insaporendo la pietanza con prelibate iniezioni di psichedelia pinkfloydiana. Cosa ancora più interessante, ciò avveniva senza strappi, in modo omogeneo, come se fosse la cosa più naturale del mondo mettere insieme velocità supersonica, epicità, ritornelli anthemici, assoli gilmouriani e persino le virate fascinose di un sax. Il tutto baciato da una ispirazione che non si ripeterà più ai medesimi livelli, nemmeno in occasione del secondo tomo di questa imperdibile operazione.

Ihsahn: "Eremita" (2012)

Se invece vogliamo trovare una bella commistione di black metal e rock progressivo dobbiamo appellarci ad un nume tutelare come Ihshan. Se con gli Emperor il Nostro aveva dimostrato una visione ampia del black metal (fra grandeur sinfonico e ardite capacità compositive), sarà nella sua brillante carriera solista che egli saprà dare adeguato sfogo alla sua verve sperimentale, affrancandosi ulteriormente da quei paletti che egli stesso aveva contribuito a piantare. In questo "Eremita" (ma tutti gli album dell'Ihsahn solista valgono un ascolto) troviamo chitarre abrasive e imponenti orchestrazioni, passaggi di batteria al cardiopalma e beat elettronici, voci pulite ed un acido screaming, dissonanze noise e persino le contorsioni di un sax in salsa free-jazz. In altre parole: metal, prog ed avanguardia in un prodotto di gran classe. La partecipazione ad un festival come il Be Prog! My Friend di Barcellona la dice lunga su questo "intellettuale del black" che oggi può tranquillamente sfilare accanto, senza sfigurare, a protagonisti del progressive odierno come Steven Wilson e Michael Akerfeldt, e ad act inclassificabili come Ulver e Anathema.

Altar of Plagues: "Teethed Glory and Injury" (2013)

La formazione irlandese si era già distinta con due ottimi lavori che proponevano un black metal ispiratissimo in perfetta sintonia con le tendenze del nuovo millennio, sospese fra tradizione (chi ha detto Emperor, Darkthrone e Burzum?) e contemporaneità (Wolves in the Throne Room un nome su tutti, se non altro per il messaggio ecologista promosso da entrambe le band). Con questo terzo (e, ahimè, ultimo) lavoro il trio di Cork seppe smarcarsi da ogni riferimento conosciuto grazie ad un processo creativo che, premendo il piede sul freno, decostruiva gli stilemi tipici del black metal per forgiare un sound fresco che vedeva convivere in modo pacifico post-rock, ossessioni swansiane e recrudescenze depressive black. Un esperimento ardito che forse costituì un salto più lungo della gamba, ma che seppe mettere d’accordo, come raramente accade, ragione e sentimento, materia cerebrale e carne viva. Fra passaggi cervellotici e squarci di dilaniata emotività, “Teethed Glory and Injury” rimane un caso isolato nel metal estremo ed ogni suo ascolto non può che farci esclamare: quanto ci mancano gli Altar of Plagues!

Schammasch: "Triangle" (2016)

Con questa opera mastodontica (tre tomi da trentatré minuti e trentatré secondi cada uno) si raggiunge, in un certo senso, un punto di arrivo nell'epopea pluridecennale del black metal. Dall'ambizione di doversi affrancare da tutto e perseguire un percorso di "purezza", all'ambizione di una visione onnicomprensiva che contemplasse il black in tutte le sue forme, da quelle più feroci alla sua dimensione più impalpabile. C'è tutto in questi cento minuti concepiti e realizzati da questi giovini svizzeri che nel 2016 davano alle stampe solamente il loro terzo lavoro. La musica di questo fantasmagorico triplo album si offre alle orecchie, alla mente e al cuore dell'ascoltatore come un vero viaggio iniziatico che conduce dalla carne allo spirito, dalla vita, mediante il trapasso, fino a luoghi al di fuori dell’esistenza terrena. In altre parole, dalle sonorità estreme del primo capitolo, alla mistica ambient del terzo (per lo più strumentale e pervaso da suggestioni esoteriche), passando dalle struggenti melodie del secondo, felice sintesi di sonorità progressive e gothic metal. Il tutto gestito con estrema perizia e personalità, sebbene ogni tanto tornino alla mente riferimenti come Behemoth, Deathspell Omega ed Enslaved. 

Zeal & Ardor: "Devil is Fine" (2017)

Che questo sia il capolinea delle possibilità evolutive del black metal? Certo bisogna ammettere che l'impresa dello svizzero Manuel Gagneux, ossia unire black metal e canti gospel dei neri d'America, non è stata affatto banale (curioso, no?, se si pensa a quando il black si definiva "arian" ai tempi di "Transilvanian Hunger"). Quella che sembrerebbe una provocazione fine a se stessa (si è trattato di raccogliere una sfida lanciata su internet), in realtà si è rivelata un inaspettato colpo vincente, dove, in soli venticinque minuti, vengono condensate intensità black metal, spunti di elettronica, cantautorato à la Tom Waits e la tradizione dei canti degli schiavi neri d'America, costretti a convertirsi al cristianesimo del dominatore bianco: aspetto che, in un certo senso, chiude un cerchio che si era aperto con le saghe sanguinarie dei vichinghi, anch'essi oppressi dal cristianesimo, narrate niente meno che dal grande Quorton. Che dire: "Devil is Fine"!

Sarà stato detto proprio tutto o il black metal saprà ancora riservarci ulteriori sorprese?

(vai alla prima parte)