"Parlare di Musica è come ballare di architettura" Frank Zappa

12 apr 2016

RESURREZIONI (quarta puntata): VENOM & CELTIC FROST



Se c’è un gruppo spregevole nell’heavy metal, quel gruppo sono i Venom: gente che non sapeva suonare un cazzo e che si è semplicemente trovata al posto giusto nel momento giusto.

In un’epoca il cui il metal era ancora una fucina in forte fermento, un laboratorio infernale dove ciascuno poteva dire la sua e consegnarsi alla Storia, i Venom sono passati per artisti seminali. Vorrei vederli oggi, con gli altissimi standard attualmente vigenti, molti gruppi degli anni ottanta. Ma i Venom non sono mai stati sopravvalutati, questo va detto: quello che erano è sempre stato chiaro, davanti agli occhi di tutti. I Venom sono semmai stati premiati da un tempismo che li ha visti affermarsi come un'icona, i pionieri indiscussi del metal estremo.

Poco ci importa che i Motorhead avevano già detto più o meno tutto quello che avrebbero poi sbraitato i Venom: fatto sta che furono loro la scintilla ed era a loro che guardavano i giovani musicisti che di lì a poco avrebbero dato vita al thrash, poi al death, infine al black. Black metal: no, non sono stati i Venom ad inventare il black metal, ma è un loro album a chiamarsi così. Correva l’anno 1982: la vigilia della rivoluzione thrash e di tutto quello che sarebbe venuto dopo.

Ma i Venom crearono tutto per sbaglio, forse loro stessi furono uno sbaglio, il più grande di tutto l’heavy metal: la mela che casca in testa a Newton che poi concepisce la legge sulla gravità. Ma cosa è giusto o cosa sbagliato non lo possiamo certo decidere noi: noi che abbiamo celebrato la loro “At War with Satan” in occasione della classifica dei migliori brani lunghi del metal. Ultimo colpo di genio, quel brano di venti minuti, di una carriera che può essere riassunta in tre album, peraltro molto simili fra loro: “Welcome to Hell” (1981), “Black Metal” (1982) e “At War with Satan” (1983). Logico che, data la pochezza, non solo tecnica ma anche artistica, il giochetto non sarebbe potuto durare in eterno.

Ma i Venom non erano solo dei cattivi musicisti, bensì anche delle grandi teste di cazzo come persone, buzzurri emergenti dai bassifondi del Regno Unito: come il barbone che trova per terra la banconota e la sperpera subito in ostriche ed un cartone di vino scadente, così i tre non seppero capitalizzare il successo e presto si sgretolarono. Mi viene in mente quel ragazzetto poco lungimirante che molti anni fa mi raccontò una sua vicenda scolastica: in occasione di un compito d’inglese il tipo, che non era proprio uno studente modello, pur studiando pochissimo riuscì a prendere 6+. Dunque il pensiero del genio fu: se studiando poco prendo un più che sufficiente, allora se non studio affatto, posso comunque ambire alla sufficienza. Non fa una grinza, e infetti il genio quell’anno bocciò. Più o meno la medesima sorte che spettò ai tre di NewCastle.

La storia è nota: dopo il quarto album gli equilibri interni si deteriorarono (immaginateveli insieme tre grandi teste di cazzo del genere). Prima esce Mantas, poi la band sforna una cagata glam dai testi fantasy come “Calm Before the Storm” ed infine lo scioglimento. A stretto giro ritornerà Mantas, ma senza Cronos, il quale verrà sostituito da Tony Dolan (alias Demolition Man) con cui i Venom registreranno tre album. Di seguito la band si scioglierà una seconda volta (siamo nel frattempo arrivati al 1992) e dopo un silenzio discografico di quattro anni per magia si riforma. Anno 1996: esce “Casted in Stone” con la formazione originaria al gran completo. Assetto che già non ritroveremo nel successivo “Resurrection” (viva la fantasia!), dove dietro alla batteria, al posto di Abaddon, sedeva niente meno che il figlio di Cronos. I nuovi Venom per l’occasione si dettero al groove metal e l’album è una schifezza, fotografando i nostri eroi nel patetico tentativo di scimmiottare le mode del momento. Tanto per aggiungere merda alla merda, il tour di supporto verrà bruscamente interrotto dopo solo due date per via di un infortunio di Cronos. La band si scioglierà dunque un’altra volta (oramai si è perso il conto), per poi (udite udite!) riformarsi, questa volta, intorno alla sola figura di Cronos, che rimarrà l’unico appiglio storico della band fino ai giorni nostri.

Un’operazione davvero ridicola questa resurrezione, o meglio, questa serie di resurrezioncine, anche se, parlare di resurrezione nel caso dei Venom è davvero fuori luogo: tale è stata la sequela delle scelte sbagliate, degli insuccessi, delle cadute (in tutti i sensi!) rispetto alle poche cose buone combinate ad inizio carriera, che la stima e la fiducia nutrite nei confronti della band si sono assottigliate fino ad azzerarsi. Certo, i Venom rimangono un nome di richiamo capace di attirare ancora oggi vaste schiere di accoliti. Dal vivo i Nostri (ancora imbretellati in pelle e borchie esattamente come cento anni fa) possono vantare la loro buona decina di classici intramontabili (peraltro tratti principalmente dai primi due album…), ma quanto ai nuovi dischi bisogna veramente stendere un velo pietoso: “Metal Black” (titolo creato ad arte nella speranza che qualche acquirente distratto lo compri confondendosi con il capolavoro del 1982), “Hell” (viva la fantasia parte seconda) e “Fallen Angels” (viva la fantasia parte terza) sono album aberranti che neppure il fan più sfegatato può giustificare.

Volendo fare un parallelo “evangelico”, potremmo immaginare la seguente scena: Lazzaro che esce dalla grotta dieci minuti dopo la sua morte (prima ancora che il Cristo lo venga a risvegliare) e che proclama, balbettando e sbagliando tutti i congiuntivi, la sua resurrezione nell'indifferenza generale; poi, sempre Lazzaro, uscendo prende una storta alla caviglia e se ne torna zoppicante dentro il sepolcro. Questo per diverse volte nell'arco del medesimo pomeriggio. 

Come si suol dire: dal Male al Peggio...

Rifacciamoci dunque le orecchie con un’altra gloria dei Metal del Male ritornata a respirare in anni recenti: i Celtic Frost. La carriera degli svizzeri vanta, come nel caso dei Venom, tre album iniziali da urlo: “Morbid Tales” (1984), “To Mega Therion” (1985) ed “Into the Pandemonium” (1987). Poi qualcosa evidentemente s’incrinò, perché l’esperimento glameggiante di “Cold Lake” e il goffo passo indietro con “Vanity/Nemesis” condussero i Nostri in un pantano da cui non uscirono vivi. Al termine del 1993 i Celtic Frost già non esistevano più.

Ma ecco che (sorpresona!) nel 2006, quasi venti anni dopo la pubblicazione dell’ultimo album, esce “Monotheist” che vede in formazione gli esponenti fondamentali della band, ossia il deus ex machina Thomas Gabriel Fischer e il compare visionario Martin Eric Ain. Personalmente parlando ho sempre diffidato delle reunion, ma in questo caso mi son dovuto ricredere. Ho resistito fino in fondo, ma poi, con qualche anno di ritardo (complice il formato scontato special price, che mi ha spinto all’acquisto), ho ceduto. Ed è stato un bene: “Monotheist”, tolti i paraocchi e pregiudizi, è un’opera che possiamo tranquillamente mettere accanto ai primi seminali tre album.

Da anni si vociferava a mezza bocca di “Under Apollyon Sun”, il mitico “album fantasma” dei Celtic Frost, per nostra disgrazia mai pubblicato, visto che la band ebbe l’insana idea di sciogliersi prima della sua uscita. Parte del materiale finì nella produzione artistica degli Apollyon Sun, successivo progetto di Fischer (che decise di sposare la causa industriale), mentre il rimanente è stato rielaborato in “Monotheist”, album mastodontico (quasi settanta minuti la sua durata), figlio di una lavorazione durata anni (le prime registrazioni risalgono infatti al 2002).

“Monotheist” guarda principalmente a “To Mega Therion”, recuperando un suono massiccio e possente ed espandendosi in direzione gothic/doom, non disdegnando però certe soluzioni esplorate in “Into the Pandemonium” (non mancheranno infatti delle fughe in zona dark-wave ed industrial). Il tutto ben incastonato in un concept filosofico che va ad analizzare le religioni monoteiste, Ebraismo, Cristianesimo ed Islam, in un'ottica (ehm) satanista: un satanismo libertario, carducciano, volto ad innalzare il potere della Ragione contro la ristrettezza dei dogmi religiosi e i loro effetti deleteri nei confronti della società e dell’individuo. Quale scusa migliore, dunque, per mettere insieme ancora una volta romanticismo europeo e suggestioni mediorientali, mix di atmosfere che da sempre caratterizza le creazioni artistiche degli elvetici?

I vecchiardi riescono dunque a compiere un’impresa impossibile, riuscendo, dopo così tanti anni di inattività, a forgiare un sound fresco, elegante, raffinato come mai in passato (ottima fra l’altro la produzione di Peter Tagtgren). La mano è pesante, ma efficace, come la Vecchia Scuola insegna. Le new entry Franco Sesa (alla batteria) ed Erol Uenala (alla chitarra, ereditato dall'esperienza Apollyon Sun) assicurano il giusto supporto all'estro dei due membri storici, ed in particolare del compositore maximo Fischer. Alla chitarra egli ci fornisce la consueta massiccia dose di riff deviati, mentre dietro al microfono si divide fra il suo classico vocione gutturale (UH!) e vocalità pulite che evocano in più di un frangente il lamento sfibrato di Rozz Williams dei Christian Death. Un’ambivalenza vocale che rispecchia l'eclettismo dell'album: ci imbatteremo così in brani potenti e thrash oriented come le sparatissime “Progeny” e “Ground”, e in tracce più orecchiabili che sanno strizzare l’occhio al goth-rock di marca ottantiana (“Drown in Ashes” ed “Obscured”, con tanto di ugola femminile a corredare il tutto). Con in mezzo la clamorosa “A Dying God Coming into Human Flesh”, capolavoro visionario di Ain (qui in veste di vocalist principale): a metà strada fra oscura ballad e rito sabbathiano (con finale assassino in salsa thrash e pronto ritorno di Fischer dietro al microfono), essa costituisce indubbiamente l’apice concettuale dell’album.

Finale in grande stile con le tre parti di “Triptych”, quasi venti minuti in tutto. Nella prima parte (“I: Totengott”) sale nuovamente in cattedra Ain, allestendo un rituale che si muove intelligentemente fra ambient e truculento black metal (da paura lo screaming agonizzante vomitato dal carismatico bassista: quando ascolto questo pezzo, sogghignante e gaudente, non posso che pensare in stretta successione: 1) Ma non si vergogna Ain ad una certa età a fare ‘sta roba? 2) Che brutali che rimangono i Celtic Frost nonostante il passare degli anni). Se la seconda parte del trittico (“II: Synagoga Satanae” - titolo sublime...) riporta in un quarto d’ora quanto di buono presentato durante il platter, il commiato finale è affidato alla strumentale (di soli archi) “III. Winter (Requiem, Chapter Three: Finale)”, che si ricollega direttamente a “Rex Irae” di “Into the Pandemonium”, chiudendo un cerchio lungo quasi vent’anni.

E il cerchio si chiuderà per davvero perché di lì a poco i Celtic Frost si scioglieranno di nuovo. E per sempre: un’esperienza che tuttavia valeva la pena vivere in quanto “Monotheist” è un’opera che, se non può possedere la carica innovativa dei primi lavori, ha la caratura per reggere il confronto con un passato scomodo per chiunque. I Celtic Frost vincono la scommessa con ispirazione, professionalità e voglia di osare, confezionando un lavoro titanico come è la loro statura nel metal estremo. E che i discepoli stiano seduti a prendere appunti, per piacere.

Prima di passare all’argomento successivo, ci tenevamo a rimanere ancora un momento in Svizzera e spendere due parole sui Coroner, che certo nei Celtic Frost hanno visto i maestri e gli ispiratori primi. Cinque capolavori all’attivo pubblicati fra il 1987 e il 1993, un'evoluzione costante verso il meglio, mai un colpo sbagliato e poi il silenzio, il nulla. Per molti anni, troppi, fin quando nel 2010 si è iniziato a vociferare di una loro reunion. Gli svizzeri intraprenderanno dunque negli anni successivi svariati tour, ma ad oggi, a questa attività, non è seguita la pubblicazione di materiale inedito. Meglio così, aggiungiamo noi: siamo convinti che quando i Nostri decideranno di tornare in studio ciò avverrà per un valido motivo, e noi saremo in prima linea a grattare la vetrina del negozio il giorno in cui un nuovo capolavoro dei Coroner verrà messo in vendita. Ma per adesso i Nostri (ahimè orfani del fondamentale Marquis Marky, formidabile batterista, paroliere e genio visionario della band, rimpiazzato nel 2014 da Diego Rapacchietti) è bene che riprendano confidenza con gli strumenti e raccolgano le idee. La fretta, si è visto, non è mai buona consigliera.

Con l’ammirevole onestà intellettuale dei Coroner, dunque, accediamo al prossimo capitolo della nostra rassegna sulle reunion: quello dedicato alle band thrash metal