Se c’è
un gruppo spregevole nell’heavy metal, quel gruppo sono i Venom:
gente che non sapeva suonare un cazzo e che si è semplicemente
trovata al posto giusto nel momento giusto.
In
un’epoca il cui il metal era ancora una fucina in forte fermento,
un laboratorio infernale dove ciascuno poteva dire la sua e
consegnarsi alla Storia, i Venom sono passati per artisti seminali.
Vorrei vederli oggi, con gli altissimi standard attualmente
vigenti, molti gruppi degli anni ottanta. Ma i Venom non sono mai
stati sopravvalutati, questo va detto: quello che erano è sempre
stato chiaro, davanti agli occhi di tutti. I Venom sono semmai stati
premiati da un tempismo che li ha visti affermarsi come un'icona, i
pionieri indiscussi del metal estremo.
Poco ci importa che i Motorhead avevano già detto più o meno tutto quello che avrebbero poi sbraitato i Venom: fatto sta che furono loro la scintilla ed era a loro che guardavano i giovani musicisti che di lì a poco avrebbero dato vita al thrash, poi al death, infine al black. Black metal: no, non sono stati i Venom ad inventare il black metal, ma è un loro album a chiamarsi così. Correva l’anno 1982: la vigilia della rivoluzione thrash e di tutto quello che sarebbe venuto dopo.
Ma i
Venom crearono tutto per sbaglio, forse loro stessi furono uno
sbaglio, il più grande di tutto l’heavy metal: la mela che casca
in testa a Newton che poi concepisce la legge sulla gravità.
Ma cosa è giusto o cosa sbagliato non lo possiamo certo
decidere noi: noi che abbiamo celebrato la loro “At War with
Satan” in occasione della classifica dei migliori brani
lunghi del metal. Ultimo colpo di genio, quel brano di venti
minuti, di una carriera che può essere riassunta in tre album,
peraltro molto simili fra loro: “Welcome to Hell” (1981),
“Black Metal” (1982) e “At War with Satan”
(1983). Logico che, data la pochezza, non solo tecnica ma anche
artistica, il giochetto non sarebbe potuto durare in eterno.
Ma i
Venom non erano solo dei cattivi musicisti, bensì anche delle grandi
teste di cazzo come persone, buzzurri emergenti dai bassifondi del
Regno Unito: come il barbone che trova per terra la banconota e la
sperpera subito in ostriche ed un cartone di vino scadente, così i
tre non seppero capitalizzare il successo e presto si sgretolarono.
Mi viene in mente quel ragazzetto poco lungimirante che molti anni fa
mi raccontò una sua vicenda scolastica: in occasione di un compito
d’inglese il tipo, che non era proprio uno studente modello, pur
studiando pochissimo riuscì a prendere 6+. Dunque il pensiero del
genio fu: se studiando poco prendo un più che sufficiente,
allora se non studio affatto, posso comunque ambire alla sufficienza.
Non fa una grinza, e infetti il genio quell’anno bocciò. Più o
meno la medesima sorte che spettò ai tre di NewCastle.
La
storia è nota: dopo il quarto album gli equilibri interni si
deteriorarono (immaginateveli insieme tre grandi teste di cazzo del
genere). Prima esce Mantas, poi la band sforna una cagata glam
dai testi fantasy come “Calm Before the Storm” ed infine
lo scioglimento. A stretto giro ritornerà Mantas, ma senza Cronos,
il quale verrà sostituito da Tony Dolan (alias Demolition
Man) con cui i Venom registreranno tre album. Di seguito la band
si scioglierà una seconda volta (siamo nel frattempo arrivati al
1992) e dopo un silenzio discografico di quattro anni per magia si
riforma. Anno 1996: esce “Casted in Stone” con la
formazione originaria al gran completo. Assetto che già non
ritroveremo nel successivo “Resurrection” (viva la
fantasia!), dove dietro alla batteria, al posto di Abaddon,
sedeva niente meno che il figlio di Cronos. I nuovi Venom per
l’occasione si dettero al groove metal e l’album è una
schifezza, fotografando i nostri eroi nel patetico tentativo di
scimmiottare le mode del momento. Tanto per aggiungere merda alla
merda, il tour di supporto verrà bruscamente interrotto dopo
solo due date per via di un infortunio di Cronos. La band si
scioglierà dunque un’altra volta (oramai si è perso il conto),
per poi (udite udite!) riformarsi, questa volta, intorno alla sola
figura di Cronos, che rimarrà l’unico appiglio storico della band
fino ai giorni nostri.
Un’operazione
davvero ridicola questa resurrezione, o meglio, questa serie di
resurrezioncine, anche se, parlare di resurrezione nel caso
dei Venom è davvero fuori luogo: tale è stata la sequela delle
scelte sbagliate, degli insuccessi, delle cadute (in tutti i sensi!)
rispetto alle poche cose buone combinate ad inizio carriera, che la
stima e la fiducia nutrite nei confronti della band si sono
assottigliate fino ad azzerarsi. Certo, i Venom rimangono un nome di
richiamo capace di attirare ancora oggi vaste schiere di accoliti.
Dal vivo i Nostri (ancora imbretellati in pelle e borchie
esattamente come cento anni fa) possono vantare la loro buona
decina di classici intramontabili (peraltro tratti principalmente dai
primi due album…), ma quanto ai nuovi dischi bisogna veramente
stendere un velo pietoso: “Metal Black” (titolo creato ad
arte nella speranza che qualche acquirente distratto lo compri
confondendosi con il capolavoro del 1982), “Hell” (viva la
fantasia parte seconda) e “Fallen Angels” (viva la
fantasia parte terza) sono album aberranti che neppure il fan più
sfegatato può giustificare.
Volendo
fare un parallelo “evangelico”, potremmo immaginare la seguente
scena: Lazzaro che esce dalla grotta dieci minuti dopo la sua
morte (prima ancora che il Cristo lo venga a risvegliare) e che
proclama, balbettando e sbagliando tutti i congiuntivi, la sua resurrezione nell'indifferenza
generale; poi, sempre Lazzaro, uscendo prende una storta alla
caviglia e se ne torna zoppicante dentro il sepolcro. Questo per
diverse volte nell'arco del medesimo pomeriggio.
Come si suol dire: dal Male al Peggio...
Rifacciamoci
dunque le orecchie con un’altra gloria dei Metal del Male
ritornata a respirare in anni recenti: i Celtic Frost. La
carriera degli svizzeri vanta, come nel caso dei Venom, tre album
iniziali da urlo: “Morbid Tales” (1984), “To Mega
Therion” (1985) ed “Into the Pandemonium” (1987).
Poi qualcosa evidentemente s’incrinò, perché l’esperimento
glameggiante di “Cold Lake” e il goffo passo
indietro con “Vanity/Nemesis” condussero i Nostri in un
pantano da cui non uscirono vivi. Al termine del 1993 i Celtic Frost
già non esistevano più.
Ma ecco
che (sorpresona!) nel 2006, quasi venti anni dopo la
pubblicazione dell’ultimo album, esce “Monotheist” che
vede in formazione gli esponenti fondamentali della band, ossia il
deus ex machina Thomas Gabriel Fischer e il compare visionario
Martin Eric Ain. Personalmente parlando ho sempre diffidato
delle reunion, ma in questo caso mi son dovuto ricredere. Ho
resistito fino in fondo, ma poi, con qualche anno di ritardo
(complice il formato scontato special price, che mi ha spinto
all’acquisto), ho ceduto. Ed è stato un bene: “Monotheist”,
tolti i paraocchi e pregiudizi, è un’opera che possiamo
tranquillamente mettere accanto ai primi seminali tre album.
Da anni
si vociferava a mezza bocca di “Under Apollyon Sun”, il
mitico “album fantasma” dei Celtic Frost, per nostra disgrazia
mai pubblicato, visto che la band ebbe l’insana idea di sciogliersi
prima della sua uscita. Parte del materiale finì nella produzione
artistica degli Apollyon Sun, successivo progetto di Fischer
(che decise di sposare la causa industriale), mentre il rimanente è
stato rielaborato in “Monotheist”, album mastodontico (quasi
settanta minuti la sua durata), figlio di una lavorazione durata
anni (le prime registrazioni risalgono infatti al 2002).
“Monotheist”
guarda principalmente a “To Mega Therion”, recuperando un suono
massiccio e possente ed espandendosi in direzione gothic/doom,
non disdegnando però certe soluzioni esplorate in “Into the
Pandemonium” (non mancheranno infatti delle fughe in zona dark-wave
ed industrial). Il tutto ben incastonato in un concept
filosofico che va ad analizzare le religioni monoteiste,
Ebraismo, Cristianesimo ed Islam, in un'ottica (ehm) satanista: un
satanismo libertario, carducciano, volto ad innalzare il
potere della Ragione contro la ristrettezza dei dogmi religiosi e i
loro effetti deleteri nei confronti della società e dell’individuo.
Quale scusa migliore, dunque, per mettere insieme ancora una volta
romanticismo europeo e suggestioni mediorientali, mix
di atmosfere che da sempre caratterizza le creazioni artistiche degli
elvetici?
I
vecchiardi riescono dunque a compiere un’impresa impossibile,
riuscendo, dopo così tanti anni di inattività, a forgiare un sound
fresco, elegante, raffinato come mai in passato (ottima fra l’altro
la produzione di Peter Tagtgren). La mano è pesante, ma
efficace, come la Vecchia Scuola insegna. Le new entry Franco
Sesa (alla batteria) ed Erol Uenala (alla chitarra,
ereditato dall'esperienza Apollyon Sun) assicurano il giusto supporto
all'estro dei due membri storici, ed in particolare del compositore
maximo Fischer. Alla chitarra egli ci fornisce la consueta massiccia
dose di riff deviati, mentre dietro al microfono si divide fra
il suo classico vocione gutturale (UH!) e vocalità pulite che
evocano in più di un frangente il lamento sfibrato di Rozz
Williams dei Christian Death. Un’ambivalenza vocale che
rispecchia l'eclettismo dell'album: ci imbatteremo così in brani
potenti e thrash oriented come le sparatissime “Progeny”
e “Ground”, e in tracce più orecchiabili che sanno
strizzare l’occhio al goth-rock di marca ottantiana (“Drown in
Ashes” ed “Obscured”, con tanto di ugola femminile a
corredare il tutto). Con in mezzo la clamorosa “A Dying God
Coming into Human Flesh”, capolavoro visionario di Ain (qui in
veste di vocalist principale): a metà strada fra oscura
ballad e rito sabbathiano (con finale assassino in
salsa thrash e pronto ritorno di Fischer dietro al microfono), essa
costituisce indubbiamente l’apice concettuale dell’album.
Finale
in grande stile con le tre parti di “Triptych”, quasi
venti minuti in tutto. Nella prima parte (“I: Totengott”)
sale nuovamente in cattedra Ain, allestendo un rituale che si muove
intelligentemente fra ambient e truculento black metal (da paura lo
screaming agonizzante vomitato dal carismatico bassista:
quando ascolto questo pezzo, sogghignante e gaudente, non posso che
pensare in stretta successione: 1) Ma non si vergogna Ain ad una
certa età a fare ‘sta roba? 2) Che brutali che rimangono i Celtic
Frost nonostante il passare degli anni). Se la seconda parte del
trittico (“II: Synagoga Satanae” - titolo sublime...)
riporta in un quarto d’ora quanto di buono presentato durante il
platter, il commiato finale è affidato alla strumentale (di
soli archi) “III. Winter (Requiem, Chapter Three: Finale)”,
che si ricollega direttamente a “Rex Irae” di “Into the
Pandemonium”, chiudendo un cerchio lungo quasi vent’anni.
E il
cerchio si chiuderà per davvero perché di lì a poco i Celtic Frost
si scioglieranno di nuovo. E per sempre: un’esperienza che tuttavia
valeva la pena vivere in quanto “Monotheist” è un’opera che,
se non può possedere la carica innovativa dei primi lavori, ha la
caratura per reggere il confronto con un passato scomodo per
chiunque. I Celtic Frost vincono la scommessa con ispirazione,
professionalità e voglia di osare, confezionando un lavoro
titanico come è la loro statura nel metal estremo. E che i
discepoli stiano seduti a prendere appunti, per piacere.
Prima
di passare all’argomento successivo, ci tenevamo a rimanere ancora
un momento in Svizzera e spendere due parole sui Coroner, che
certo nei Celtic Frost hanno visto i maestri e gli ispiratori primi.
Cinque capolavori all’attivo pubblicati fra il 1987 e il
1993, un'evoluzione costante verso il meglio, mai un colpo sbagliato
e poi il silenzio, il nulla. Per molti anni, troppi, fin quando nel
2010 si è iniziato a vociferare di una loro reunion.
Gli svizzeri intraprenderanno dunque negli anni successivi svariati
tour, ma ad oggi, a questa attività, non è seguita la pubblicazione
di materiale inedito. Meglio così, aggiungiamo noi: siamo convinti
che quando i Nostri decideranno di tornare in studio ciò avverrà
per un valido motivo, e noi saremo in prima linea a grattare la
vetrina del negozio il giorno in cui un nuovo capolavoro dei Coroner
verrà messo in vendita. Ma per adesso i Nostri (ahimè orfani del
fondamentale Marquis Marky, formidabile batterista, paroliere
e genio visionario della band, rimpiazzato nel 2014 da Diego
Rapacchietti) è bene che riprendano confidenza con gli strumenti
e raccolgano le idee. La fretta,
si è visto, non è mai buona consigliera.
Con
l’ammirevole onestà intellettuale dei Coroner, dunque, accediamo
al prossimo capitolo della nostra rassegna sulle reunion:
quello dedicato alle band thrash metal…