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11 gen 2017

MAI DIRE REUNION - V POSIZIONE - IL POLTERGEIST CHE HA RISCHIATO DI AFFONDARE GLI IRON MAIDEN



Non so perché, ma per me la Reunion degli Iron Maiden, tecnicamente iniziata con il rientro di Dickinson e “Brave new world”, in realtà la faccio coincidere con "Book of Souls".

Quando comprai "Book of Souls" (a scatola chiusa), fui incuriosito da due cose. Il concept e il doppio disco. Dico incuriosito, perché acquistare un disco a scatola chiusa è il risultato di una suggestione riuscita, qualcosa che ti fa credere che il prodotto sia interessante.
L’artista ti può dare una coordinata con il titolo, il logo, la scelta della copertina, oppure basarsi genericamente sul proprio credito presso il pubblico. Ecco perché mai prima d’ora la reunion di fatto l’avevo percepita come vera reunion. Mancava questo elemento di curiosità, curiosità per un gesto coraggioso e non necessario ad un gruppo che può vivere di rendita: un doppio disco e un concept. "Brave new world" lo presi, sì, ma usato. L’ultimo disco comprato originale, e rivenduto (ebbene sì) fu "Fear of the dark".

Questo forse era il famoso X- Factor, il fattore misterioso che rende un disco riuscito. Non quello che avrebbe dovuto esserci nell’album omonimo, a onorare il titolo. All’epoca infatti vidi quel titolo ("The X-Factor"), per niente solleticante, poi vidi la copertina, un Eddie graficamente non in salute, e infine la spiegazione di uno dei Maiden sul significato del titolo, che diceva in poche parole “eravamo in studio e non riuscivamo a trovare l’amalgama giusta per ottenere il giusto sound, e poi alla fine, prova che ti riprova ci arrivammo…ecco, dicemmo, quello era il fattore X che ci mancava!”. Mi caddero le braccia, non lo comprai e snobbai i Maiden per parecchio tempo, tutta l’era Blaze e anche dopo. Tra l’altro la spiegazione sa di cazzata, perché il senso più logico del titolo è quello del gioco di parole tra l’espressione “il fattore x” e “x” nel senso di decimo, poiché decimo album del gruppo. E poi, Harris, ma che modo di presentare un disco è dire che fino all’ultimo non si trovava l’elemento convincente?

Tanti, come me, temevano proprio questo, dopo "Fear of the dark", lo sbandamento. Questo discorso non ha a che vedere con Blaze, che ho conosciuto ormai postumo rispetto alla sua esperienza coi Maiden, ma lo scarso entusiasmo per la svolta impressa da Harris nei primi ’90, e che si mantiene riconoscibile anche dopo il ritorno di Dickinson. Comprensibilmente alla ricerca di nuove soluzioni dopo le vette toccate con i dischi degli anni ’80, i Maiden avevano perso per strada Smith e lo storico copertinista Riggs. Dopo un dischetto piacevole ma interlocutorio come “No prayer…” conquistano un successo di pubblico con un disco veramente poco ispirato, ossia “Fear of the dark”, il cui brano di punta ha l’unico pregio di essere piazzato in chiusura, ed è per il resto un “compendio” di stile Maiden. Il resto sono brani che vogliono accattivare, semplificati nella struttura, prevedibili, col baricentro sul ritornello. E’ a questo punto che il vecchio fan dei Maiden si rende conto che il nuovo corso è questo, e rimane interdetto nel constatare che invece nuove frotte di ammiratori ne sanciscono il successo. Anche l’ispirazione lirica non era al massimo, perché – a dir  la verità – la paura del buio cantata così genericamente non è proprio il massimo della fantasia di cui erano capaci i Maiden.

Il rientro di Dickinson e di Smith, e insieme a lui ritorna un amalgama sempre efficace, rinfrescato dalla lunga assenza e dal paragone difficile da risolvere con i Blaze-Maiden. Anche perché non si tratta di Blaze. I limiti di un brano come "Futureal", che parte con classico piglio Maiden per cagarsi presto sotto con il ritornello, sono gli stessi di "Be Quick or be dead", di "Montsegur" e diversi altri. C’è qualcuno che vuol tirar corto sulla composizione, anziché dare il respiro giusto alla voce di Dickinson. La componente vocale è stata sopravvalutata nel bene e nel male, e la teatralità e la versatilità di Bruce sono chiaramente castrate dentro brani che nascono e muoiono in mezzo minuto, arrivando subito al dunque. Anche chi giustamente ironizza sull’abuso del ritornello, come in “The angel and the gambler”, non ricorda forse che questa deviazione risale a ben prima dell’era Blaze, e per questo andatevi a risentire "Tailgunner" da “No prayer”.

Il dittico dei Blaze-Maiden è un argomento per me poco spinoso. Poco ispirati, tanto che se si chiede il titolo di un brano di quell’epoca, alzano tutti la mano a dire “Sign of the cross” dal primo e “The clansman” dal secondo, che comunque anche cantati da Dickinson rimangono zoppi. Avvallamenti di qualità toccati in più occasioni, vagabondaggio strutturale, tastiere pastose che risolvono tutto come la panna nei dolci. Quando si è così confusi capita anche, per esempio, di dare a un brano che vuol’esser commovente un titolo a-la Ramones ("Come estais amigos").
Non è che non si possa trovare qualche incongruenza tra lo stile vocale di Blaze, e la sua resa generale in quel periodo, e i Maiden. Il fatto è che non si potrà mai incolparlo di nulla, avesse anche sputato nel microfono. Si potrebbe perfino pontificare, in pieno delirio complottista, che qualcuno abbia appositamente scelto una figura potenzialmente inadatta ai Maiden per giustificare uno stallo creativo, e post-datarlo a X factor anziché a due album prima. Si potrebbe anche continuare a teorizzare che proprio la scelta di una voce anti-Dickinson (DiAnno non era in grado di rientrare) dovesse giustificare una ritirata strategica dietro la scusa di una virata stilistica.
Fuori da eccessi dietrologici, la morale della favola è che un progetto su una versione più dolce, elegante e popolare dei Maiden c’è stato. La prima spallata è stata data con “No prayer”, e ha fatto vacillare il colosso, provocando danni maggiori, ovvero la perdita di due colonne. La seconda spallata è stata data con il fattore Blaze, che ha reso i Maiden una band “ufficialmente in crisi” senza che questo risultasse colpa dei suoi fondatori. Una speculazione in cui si compra in tempi di crisi, per poi rivendere in tempi di ricrescita. Il rientro di Bruce e Smith è stato speso così, anche se la vena creativa si basava su residui di una linea canzonettistica non proprio esaltante, combinata però ad una vena “prog” che voleva riemergere. L’ibrido creò non poche perplessità nel pubblico, e rese alcuni dischi riusciti a metà proprio per questa proposta chiaramente schizofrenica. Ma anche chi guidava il golpe fu, ugualmente, spiazzato e convenne che forse era meglio rinunciare all’idea dei Maiden rock-star.

Quindi di chi era la colpa? Mah, Dentro c’erano McBrain, Harris e Murray, Gers era il nuovo arrivato, e pur contribuendo alla scrittura dei brani, ci sta che abbia invece tenuto in vita il Maiden-sound di cui era accanito fan. Il problema non era solo un elemento mancante, perché la ricomposizione della formazione non ha immediatamente corretto il tiro, anche se ha fatto sentire il suo peso.  Tanto non ce lo diranno mai, e resterebbe solo una sterile attribuzione di responsabilità che tutti si rimpallerebbero.

Sta di fatto che questa reunion, anche se dopo un periodo di rodaggio, è risultata vincente. Auspichiamo che sia così anche per altre reunion di gruppi storici, e che non si fermino alle prime avversità e alle prime contraddizioni. E’ finalmente un piacere sentire i Maiden che, come chi li ascolta, non sono sicuri di quello che accadrà, ma sono sicuri di quello che hanno da comunicare.

Il suono si snoda, cresce, gira, torna su se stesso, ma è nuovamente avventuroso.

A cura del Dottore