I
MIGLIORI DIECI BRANI “LUNGHI” DEL METAL CLASSICO
8° CLASSIFICATO: “VENI, VIDI, VICI” (VIRGIN STEELE)
Con David DeFeis ci si alza di livello…
…ma solo perché suona le tastiere…
…e le tastiere fanno sempre comodo in un brano lungo…
Continua così, con gli impavidi Virgin Steele, la
nostra maratona dedicata ai migliori brani lunghi del metal.
Se DeFeis un giorno facesse outing, non mi stupirei. Nella
sua musica si può scorgere una certa dolcezza, uno strato di miele spalmato
sulla scorza rugginosa del metallo (anche se l’acciaio non si ossida…nda).
E poi quell'indugiare sull'anatomia maschile, l'attrazione morbosa per i fustacchioni
dell'iconografia ellenica e poi romana. “Romanticismo barbarico”
lo chiamano gli stessi autori: quel modo di mescolare ruvidità metallica con
pacchianate neoclassiche allo zucchero filato. Senza contare quell’altezzosità
aulica da prof. in pensione che continua a tediare con la storia antica i
propri ex studenti che lo vanno a trovare a casa: non altro che un modo per
distanziarsi dallo schiacciante e becero successo dei burini “moto, topa e
spade” Manowar, con i quali, ad inizio anni ottanta, i Virgin Steele hanno
praticamente dato i natali all'epic metal (ma del resto si sa, fa più
clamore una scoreggia che decantar versi in latino). Uno sforzo di
differenziazione che ha portato i Virgin Steele ad essere, dei Manowar, non
solo la versione più sfigata, ma anche quella più raffinata, elaborata, dolce.
Dolcezza che si mescola, per quanto mi riguarda, alla tenerezza
che il personaggio mi ha sempre ispirato. Se chiudo gli occhi e penso a DeFeis,
mi immagino il cantante/tastierista intento a scollegare il microfono
dalle tastiere per porsi in prima linea sul palco, o, viceversa, correre
nuovamente dietro alle tastiere, rimettere il microfono nell’apposito supporto
e riprendere a suonare e cantare. Mi son sempre chiesto: ma perché non si
compra due microfoni? Con un microfono in più, posto per esempio sulla
classica asta, potrebbe evitare quell’andirivieni ogni volta che intende smarcarsi
dalle tastiere, che in effetti, dal vivo lo condannano ad una eccessiva
staticità.
Dolcezza, tenerezza, ma anche povertà di mezzi,
appunto: una povertà di mezzi che ha sempre ostacolato la piena realizzazione
della sua visione artistica altresì ambiziosa. La musica dei Virgin Steele, con
il tempo, si è appropriata di spunti orchestrali, sinfonici e progressivi, ma
mai arrivando a delle produzioni all'altezza della situazione (non dico
orchestre da ottanta elementi, ma almeno suoni di tastiera decenti, che non
sembrino fatti con il tastierino trovato nell’uovo di Pasqua!). Nel pacchetto
ci metto anche il buon Pursino: fido compagno di avventura da una vita (fece il
suo ingresso in formazione nel lontano 1985), Edward Pursino è un
chitarrista senz’altro dotato e versatile, eppure niente mi toglie dalla testa
che se lo rapassimo a zero, sul suo nudo cranio troveremmo marchiata a fuoco la
scritta “SERIE B”. Pursino ha scritto e suonato cose notevoli, ma non ha
una vera personalità: sa fare tutto e niente, non capendo ancora se è un
chitarrista hard-rock (ho sempre storto il naso innanzi alle sue improvvise virate
à-la Brian May) o un chitarrista metal (nemmeno Criss Oliva
l’aveva capito, ma con ben altri risultati – Dio lo benedica). Sostanzialmente
Pursino fa quel che può nel cercar di accompagnare al meglio l’estro istrionico
e voltagabbana di DeFeis, perennemente sospeso (musicalmente e localmente) fra
il ruggito del leone e il sibilo della voce bianca.
Tutti rispettano DeFeis, io stesso rispetto DeFeis, perché sono
innegabili il suo talento e la dedizione che mette nelle sue creazioni, ma alla
fine neanche DeFeis è impeccabile. C’è sempre qualche dettaglio che
rovina il quadro generale: un po’ come nell’aspetto di quell’agente commerciale,
un po’ tarchiato e dalla fronte sudata, che indossa una giacca di una taglia
superiore, una cravatta non intonata alla camicia, delle scarpe che mal si
accompagnano al completo.
Eppure ci sono dei momenti in cui un album dei Virgin Steele
è quell’insieme di cose che ti ci vuole, quando magari hai bisogno di tutto e
il minimale ti ripugna. Ed allora ben venga l’album dei Virgin Steele che ha
tutto dentro, dalle staffilate metal con ritornelli memorabili a momenti di
estremo pathos; un luogo, l’album dei Virgin Steele, dove il brano tirato e
semplice convive pacificamente con quello dagli sviluppi imprevedibili; dove qua
è là ti puoi imbattere in un intermezzo sinfonico non richiesto, dove la power-ballad
viene collocata sempre al posto giusto e dove magari c’è anche il pezzo lungo.
L’apoteosi di tutto questo è un trittico di album
posti a metà carriera dei Nostri. Quando la vecchia concezione del metal
classico stava tramontando, essi piazzarono sul mercato i capolavori della
maturità: quei due tomi, animati da un unico concept, che portano
l’altisonante nome di “The Marriage of Heaven and Hell”, part one
e part two, usciti nel 1994 e nel 1995. Non pago, DeFeis
decise successivamente di far uscire una terza parte, che originariamente si
sarebbe dovuta chiamare “A Season in Purgatory”, e che invece venne
edita con il titolo “Invictus”: un lavoro che godette, in termini di
successo e popolarità, degli influssi positivi del periodo (era il 1998 ed
il power viveva la sua stagione d’oro).
Una trilogia imponente (anche dal punto di vista
della durata, visto che i tre album durano rispettivamente settanta, sessantasei
e settantasei minuti) che culmina proprio con “Veni, Vidi, Vici”,
l’ultimo brano nella scaletta di “Invictus”. Questa lunga premessa si è resa dunque
necessaria per presentare questo brano: un brano a sua volta imponente (10:41
la sua durata) che porta in sé non solo il peso dell’epopea che lo precede, ma
anche e soprattutto l’intera carriera della band, con tutti i suoi pregi e
difetti. Tutto quello che abbiamo detto fino ad adesso, vale dunque per
descrivere questo brano.
Non mi chiedete però la trama: non mi sono mai preso
la briga di approfondirla, né sono riuscito a trovare in rete qualcuno che
l’abbia fatto per me, a dimostrazione del fatto che tutti rispettano DeFeis, ma
nessuno ha voglia di indagare su quello che scrive. Ma è comprensibile: sono
sicuramente storie noiose che parlano di eroi, cavalli, battaglie, duelli,
spade, divinità, e che hanno pure la presunzione di rivestire quegli stessi accadimenti
con pretenziose riflessioni metafisiche (pare che il fulcro tematico di tutta
la trilogia sia il sempiterno scontro fra Bene e Male, e il rapporto fra Uomo e
Divinità – viva la fantasia!). Dulcis in fundo: infarcendo il tutto con dotti
riferimenti alla mitologia classica, greca e romana. Del resto basta
guardare la copertina: Perseo che brandisce la testa di Medusa,
un’immagine che è difficilmente accostabile al Giulio Cesare che venne,
vide, vinse richiamato dal titolo del brano. Del resto, quello di creare
dei grandi pastrocchi è un antico vizio della band: si guardi, per esempio, l’evocazione
della distruzione di Roma in “The Burning of Rome”, evento richiamato giusto
per parlar d’amore, peraltro ficcandoci dentro, come se non bastasse, anche
Pompei.
Perché DeFeis è raffazzonato, non buca lo schermo, è come quel
tristo figuro che, ad un banchetto di matrimonio, ad un certo punto si alza in
piedi per fare il discorso in onore degli sposi, un bel discorso pieno di
citazioni e buoni sentimenti, ma che dopo quindici secondi inizia già ad
annoiare la platea: il brusio si trasforma presto in un vocio più spazientito e
i colpi di tosse si moltiplicano, fin quando, con il sollievo di tutti, succede
l’evento traumatico (il bambino di tre anni che casca dalla sedia fracassandosi
il cranio, il nonno che scoreggia, l’ubriaco che dal fondo della tavola grida
con voce impastata EVVIVA GLI SPOSI), il fatto che interrompe il
discorso sul nascere e riporta tutti a godersi liberamente la festa. Senza
rancore per DeFeis, a cui tutti vogliono bene e che tutti rispettano.
Questo per dire, insomma, che non ci siamo interessati
dell’aspetto lirico della questione, mentre musicalmente “Veni,Vidi,Vici”
è una bomba. Essa, nei suoi dieci minuti, conserva il formato canzone (con
ricche guarnizioni all’inizio, in mezzo ed alla fine), mantenendo l’adrenalina
e i toni da stadio di un brano anthemico di soli quattro. Apertura con
arpeggio e coretti di DeFeis (già, dobbiamo ricordare che la specialità del
DeFeis cantante è quella di alternare digrignanti tonalità basse a falsetti
sibilanti), e poi subito chitarre maidiane, ritmi martellanti ed
andamento cavalcante. Seguirà un baccanale di cambi di tempo e passaggi
barocchi, il tutto condotto da doppia-cassa sparata a tremila. Ed ancora: strofe
masticate a denti stretti, urla raschianti, ululati da lupo castrato, bridge,
contro-bridge e il ritornellone “WE CAME, WE SAW, WE CONQUERED
YOU ALL”, in quel tuttomusicale che è la musica dei Virgin
Steele.
Un tuttomusicale che sfoggia ruggente hard-rock,
fiero epic-metal, power-metal galoppante, progressive sinfonico, arie classiche.
In esso, dunque, troviamo Puccini, Verdi, Uriah Heep, Rainbow,
Genesis, Queen, Savatage, Iron Maiden, Manowar.
La macchina corre spedita e non si ferma un momento, supportata da una sezione
ritmica in forma smagliante (Rob DeMarino al basso e Frank Gilchriest
alla batteria) e in un attimo, il tempo di qualche assolo e diverse divagazioni
sinfoniche (fra cui un rallentamento strappalacrime nel quale viene ripreso il
tema portante dell’intera trilogia), siamo già all’ottavo minuto. Da qui in poi
i Nostri iniziano a pompare nuovamente il ritornellone con le mille
variazioni del caso, una fase in cui è lecito ributtare tutto dentro ancora una
volta: assolo trascinanti, stesse frasi ripetute all’infinito, urli,
schiamazzi, gridolini, nuovamente il tema del concept, fino al finale iper-trionfale,
con tanto di applausi di finto pubblico, trombette liofilizzate e falsetti
sciorinati manco se al posto di DeFeis ci fosse stata Whitney Houston!
Ma tornando alla metafora del matrimonio (che fra l’altro calza
a pennello con il concept, visto che proprio di matrimonio fra Paradiso
ed Inferno si parla), i Virgin Steele, e quindi i loro album, e dunque “Veni,
Vidi, Vici”, rispecchiano la ricchezza di emozioni, belle o meno belle, che
si possono provare durante la lunga giornata di un matrimonio a cui siamo
invitati: quantità spropositate di cibo, alcool di variabile qualità, gente
vestita bene, gente vestita male, fiche con tacchi a spillo vertiginosi, fresconi
con coccarda al taschino, nonni rincoglioniti, nipoti starnazzanti, ilarità,
noia, esaltazione, indignazione, corteggiamenti sfrenati se si è single,
ubriacature colossali se si è con gli amici.
E chissà se, fra un discorso prolisso e un flirt da
gentiluomo con la vecchia zia che non si fila nessuno, DeFeis non sia
proprio quell’invitato che ritroverete nel bagno “incastrato” dietro alla
sposa…o dietro allo sposo, fate voi…