I
MIGLIORI DIECI BRANI “LUNGHI” DEL METAL CLASSICO
6° CLASSIFICATO: “DANTE’S INFERNO” (ICED EARTH)
Iliade, Eneide: c'è da dire che al metal non
manca l'ambizione quando si vogliono fare le cose in grande. E non sono da meno
gli Iced Earth del buon Jon Schaffer, i quali puntano in alto,
altissimo, e per il loro brano più lungo tirano in ballo addirittura la Divina
Commedia.
Parliamo oggi di “Dante's Inferno”, che con i suoi 16
minuti e 26 secondi di durata, lungi dal rappresentare uno sproposito
messo in musica, ci dimostra come quantità e qualità possano pacificamente
convivere. Signore e signori, eccoci dunque all’attesissima sesta
posizione della nostra classifica dei migliori brani lunghi del metal.
Premetto
che mi sono avvicinato agli Iced Earth in tarda età. Questo perché non sono mai
stato un gran patito del power-metal. E poi perché ho sempre visto nella
loro musica dei grandi limiti. Solo in vecchiaia ho avuto la curiosità e
la pazienza per capire che proprio quei limiti erano i loro maggiori punti di
forza.
Cos’è
che non mi era mai piaciuto degli Iced Earth? La ripetitività, la
prevedibilità, l’assenza di pregevoli sezioni chitarristiche e di ritornelli anthemici,
o semplicemente ricordabili, nelle loro canzoni. Eppure, con la morte artistica
dei veri Metallica, trovo positivo che vi sia stato qualcuno che abbia provato
ad aggiornare il modus operandi dei Four Horsemen: mi mancavano, in
effetti, le ritmiche thrashettone à-la “Creeping Death” e “Battery”,
gli interludi acustici in stile “Master of Puppets”, l’imponenza di
brani come “The Call of the Ktulu” ed “Orion”
Più
in generale, è apprezzabile a mio parere il fatto di poter usufruire di una
variante del power metal che faccia a meno, una volta tanto, di voci-sirena
e dei soliti stilemi teutonici (doppia-cassa, riff melodici a go go
e cori da osteria in stile Helloween/Gamma Ray). Schaffer, a guardar
bene, ha le sue qualità, non solo come chitarrista ritmico (roccioso e potente
come pochi altri all’interno del genere), ma anche come autore. E Matthew
Barlow è innegabilmente un cantante dotato di una straordinaria
espressività, se vogliamo ovviamente considerare gli album in cui egli ha
cantato.
Uno di questi è stato proprio “Burnt Offerings”, terzo
album per la formazione americana e, appunto, primo con Barlow dietro al
microfono. Era il 1995: sembra una vita fa, ma era pur sempre quattro
anni dopo l’uscita del Black Album e il metal stava rifiorendo
nella sua “Seconda Repubblica” dopo gli scandali di “Merdopoli”.
Gli Iced Earth, dal canto loro, si erano già distinti per un paio di buone release,
che però non ricevettero l’accoglienza e la risonanza sperate. Dopo tre anni di
riflessioni e di rimaneggiamenti della line-up, il buon Schaffer ci
riprovò e finalmente fece centro, aiutato dal periodo (dopo lo scossone grunge,
il metal si stava ricompattando intorno al fenomeno power metal) e dall’ugola
della new entry Barlow: gli Iced Earth entrarono così in una stagione
d’oro, fatta di album indubbiamente riusciti come “The Dark Saga”
(1996), “Something Wicked This Way Comes” (1998) e “Horror Show”
(2001).
Ora
che mi sono cosparso la testa di cenere, andando a riconoscere i meriti di una
band che ho ignorato per troppi anni (perl’amordiddio, son pur sempre
sopravissuto…), posso iniziare a parlare finalmente di “Dante’s Inferno”,
che potremmo definire senza esagerazioni il momento più alto della carriera
degli Iced Earth.
Non
mi dilungherò troppo sul concept lirico, che, come intuibile dal titolo
del brano, ripercorre il viaggio di Dante e Virgilio attraverso i
nove gironi dell’Inferno. Il testo di
Schaffer è semplice ma efficace: esso affronta la faccenda con una fretta criminale,
ma del resto i minuti a disposizione sono solo sedici, e ad essere criminale è
più l’intento (quello di racchiudere tutta una cantica della Divina Commedia in
un solo brano) che il risultato finale. Sebbene le liriche procedano in modo crudelmente
didascalico (stendiamo un velo pietoso sulle omissioni, sulle semplificazioni
e, in generale, sulla banalizzazione dei versi del Sommo Poeta,
svuotati di tutte le loro valenze allegoriche, etiche, politiche, poetiche e
chi più ne ha più ne metta!), tali liriche, si diceva, hanno un potere
“contestualizzante” non da poco e finiscono per sortire un buon effetto a livello
di atmosfera complessiva.
Pene,
peccati e peccatori vengono spietatamente passati in rassegna senza parsimonia
di dettagli orripilanti: fiamme eterne, demoni inflessibili, torture terribili,
urla laceranti, sofferenze di ogni tipo. E poi ancora: vespe pungitrici, vermi
che si nutrono di lacrime e sangue, pioggia fredda e sporca, ammassi di cadaveri
infangati e persino una testa sepolta nella merda. Il tutto corredato da
celebri personaggi quali Cerbero, l’immancabile Caronte e tanti
altri fino all’apparizione di Lucifero in persona. Certo, l’impressione
è che Schaffer abbia scambiato la Divina Commedia per un romanzo horror/fantasy
(leggere 'sta roba in inglese fa veramente impressione), ma dobbiamo ricordarci
che si parla di metal, e si parla di americani, il quali si approcciano alla
Divina Commedia con lo stesso piglio con cui affronterebbero un concept
su Pinocchio. Perdoniamogli dunque anche la scontata riproposizione del
famigerato verso “Lasciate ogni speranza voi che entrate…” che oramai
ritroviamo scritto su ogni porta di ogni cesso di qualsiasi istituto scolastico
che si rispetti.
Se
il concept lirico regge, ammettiamolo, è grazie alla prestazione
maiuscola del grande Barlow: potente, feroce, minaccioso, ma anche dolce,
disperato, tormentato evocatore di indicibili afflizioni. In una parola: titanico.
Se la sua non è un’ampiezza vocale degna di un Dickinson, di un Kiske o di un
Tate, sono le sue capacità espressive, la sua forza, la sua “possanza” a
compensare le non eccelse doti tecniche. Senza scadere nel pacchiano o nel
teatrale (e in questi casi non è cosa da poco!), egli è in grado di incarnare
(fra sussurri, grida disperate, ruggiti al limite del growl, cori
satanici e interventi pregni di pathos) la complessa compagine di personaggi
evocati (vittime, carnefici, semplici testimoni) per dare voce al “dramma”
dantesco. E di passare in rassegna tutte quelle sensazioni che Schaffer intendeva
esprimere: in un contesto orrido, di dolore e sofferenze inenarrabili, ci si
imbatte dunque anche in pensieri o riflessioni di ordine morale, buttati
frettolosamente lì un po’ a caso, questo è vero, ma che male non ci stanno. Il
tutto si conclude con l’immagine di Giuda divorato da Lucifero e
la condanna di tutti i traditori, indicati come la categoria peggiore
(da non escludere che vi siano anche dei riferimenti all’universo metal ed alle
sue fratture interne vissute proprio in quegli anni).
Bravo
è comunque Schaffer a progettare un’avvincente successione di ambientazioni,
semplici ma efficaci, e senza dover scadere nell’orchestrale o nel riempitivo
fine a se stesso. Nel corso dei suoi sedici minuti, il brano è infatti scevro
da cali di tensione. Aiuta sicuramente la struttura a suite,
anche se per suite non bisogna intendere una serie di micro-sezioni
dal senso compiuto come era successo con Rush e Manowar: non vi
sono ritornelli né temi ricorrenti, ma Schaffer (per suoi limiti o perché
invece si trovasse in uno stato di grazia creativa) è comunque in grado di mettere in
fila una serie di frammenti che, fra pieni e vuoti, fra accelerazioni e tempi
cadenzanti, fra epicità e desolazione, ben si legano fra di loro, dando l’idea
di un vero e proprio percorso (“La saggezza infernale riempirà la mia anima”,
recita Barlow nelle prime strofe). Un viaggio avvincente, una discesa
negli Inferi che procede per “immagini musicali” che si stampano
nella mente dell’ascoltatore con rara efficacia, tanto che per davvero si avrà
l’impressione di passeggiare nelle spire caotiche dell’Inferno.
Musicalmente,
Schaffer non si schioda di un millimetro dalla sua visione artistica che va a
tributare principalmente Metallica ed Iron Maiden, ma la presenza
significativa di tastiere (suonate dall’ospite Howard Helm) è
sicuramente una piacevole variante, segnale che il Nostro, per l’occasione, ha
voluto per davvero fare le cose in grande. Troviamo così sinistri campanacci a
corredare robusti riff thrash metal, oscuri tappeti di synth ad
accompagnare inquietanti arpeggi, cori minacciosi tipo Carmina Burana, tromboni
infernali, gelidi organi ed addirittura un giro di tastiera horror in tipico stile
“Profondo Rosso”/”Halloween” spalmato su un bel finalone thrasheggiante
in dissolvenza.
Beninteso,
in tutto questo ci saranno al massimo un paio di assolo buttati nel mischione
come se niente fosse, probabilmente eseguiti dal chitarrista Randall Shawver
(ma l’avrà mai fatto un assolo Schaffer in vita sua?). Ma anche questo aspetto
non va visto necessariamente come una carenza, bensì come l’ennesimo punto di
forza di un ensemble che ha poche idee ma chiare: nella visione
artistica di Schaffer non è contemplato l’assolo, o almeno, non nel senso
classico, quello virtuoso del termine (un assolo come potrebbe farti, per
esempio, Andy LaRocque). Il Nostro, semmai, concepisce (o fa eseguire da
chi di volta in volta l’aiuta alle sei corde) tapping infuocati o
armonie dal forte sentore maideniano che sul suo power cavalcante ci
stanno come il cacio sui maccheroni. Semplicità ed efficacia:
queste in definitiva sono le due colonne portanti dell’Iced Earth-sound.
Quello
che Schaffer e Barlow raggiungono in questo brano, in definitiva, è uno di
quegli equilibri che sono molto rari nel metal: un equilibrio dove niente è
costruito o artificiale, dove tutto è buttato a caso, ma ogni cosa casca nel
posto giusto I Blind Guardian di “And Then There Was Silence”,
con l’orchestra, le lezioni di canto, con la loro innegabile perizia tecnica e
la loro debordante creatività, non ci sono riusciti. Laddove ballerini ed
equilibristi si sono schiantati al suolo per il troppo osare, Schaffer e Barlow,
come lo zoppo e il cieco che si sorreggono a vicenda, lentamente riescono
a superare le mille traversie. Ad attraversare l’Inferno e tornare,
potremmo dire…