I MIGLIORI DIECI "BRANI LUNGHI" DEL METAL
APPENDICE IV: “UNDERCURRENT” (IHSAHN)
Si sa: spesso il metallaro va “a
periodi”. Ripercorre discografie di uno stesso artista, o di più artisti dello
stesso genere, tutte assieme. A seconda dell’ispirazione o dello stato
dell’anima. O magari perché pungolato da uno stimolo esterno.
Quest’ultimo è il mio caso: sono da
settimane in una fase ihsahniana. Fulminato dal bellissimo post sull’ex-Emperor
del nostro Mementomori, mi sono infatti buttato a capofitto sulla discografia
del quarantenne compositore norvegese, ripercorrendone le gesta a partire dalla
seconda release della sua carriera solista, “angL” (2008).
A cura di Morningrise
E mai scelta fu più azzeccata. Sound poliedrico,
fresco, moderno, innovatore. Di album in album una crescita e una ricerca
costante, partendo da lidi post-black (ma in realtà si dovrebbe parlare genericamente di "musica estrema") fino a giungere, con l’enigmatico “Das Seelenbrechen” (non ho ancora tra le mani il recentissimo “Arktis”) a un qualcosa di difficilmente
etichettabile, tanti e tali sono gli elementi di diversa provenienza che si
fondono in un tutt’uno assolutamente coerente, sia a livello di scrittura sia a livello di percorso concettuale dell’artista-Ihsahn.
Un sound che giunge in questa
seconda decade del millennio ad essere progressivo e avanguardista in senso
lato, incorporando in sé addirittura elementi ambient e noise.
Ma qui mi fermo: lo scopo di questo post non è
tanto descrivere musicalmente il suo percorso solista. Per quello stra-consiglio
di leggersi il post di Metal Mirror succitato.
No, come ha fatto il nostro Lost
in Moments con i Fates Warning per la loro “Still remains”, mi
piacerebbe qui inserire un’ulteriore appendice alla splendida classifica sui
Migliori "brani lunghi" del Metal.
Ihsahn infatti merita di stare in questa
Rassegna.
Ovviamente, per le motivazioni su esposte, non potremmo inserire il
brano che abbiamo scelto né nella sezione del metal classico né in quella del
metal estremo (e poi non mi permetterei mai di modificare la sudatissima classifica
già stilata dal nostro mementomori!).
In realtà per questo scopo mi sarebbe piaciuto
estrapolare un brano da “Eremita”
(2012), il disco che mi è rimasto più nel cuore. Ma nessuno di essi presenta la
caratteristica minima stabilita per essere trattato: durare cioè almeno 10
minuti.
E’ comunque con grande
convinzione che viro allora su “Undercurrent”, incredibile brano tratto dal
precedente, e altrettanto splendido, “After”
(2010). La song, ironia del caso, dura esattamente dieci minuti tondi tondi…né
un secondo di più né uno di meno! E detiene l’altrettanto
importante caratteristica di rappresentare al meglio molti dei tratti
dell’ihsahnian sound versione “seconda decade del Terzo Millennio”. Un sound che è sì personale, frutto come dicevamo di ricerca e ingegno soggettivo, ma riesce anche a essere esempio per il futuro, ad indicare una rotta, una via evolutiva originale per tanto metal contemporaneo.
Ed è questa la motivazione, a mio avviso, che giustifica la presenza di "Undercurrent" all'interno della Classifica.
Gli iniziali accordi ripetuti e
dilatati in distorsione lasciano spazio, dopo appena mezzo minuto, a un arpeggio
in clean da brividi. Arpeggio che si ripete uguale a se stesso, circolare,
ipnotico, sul quale si avvitano le note calde del basso di Lars Norberg e la
voce pulita di Ihsahn. Questa prima parte molto melodica, calma, quasi
“sopita”, rispecchia le lyrics che descrivono una superficie liquida calma, uno
specchio del cielo che riflette sfocatamente il paesaggio intorno ad essa.
Ma sotto questa calma apparente
(“calm awake”) c’è qualcosa che ribolle, qualcosa di pericoloso ed ambiguo, in
cui un pacifico silenzio è giustapposto a un vuoto opprimente. Un’ambiguità
che viene ribadita dal chorus di questi primi, seducenti, tre minuti e mezzo,
che recita “Like glass until it breaks”…
E quando il vetro/lo specchio si
rompe, simboleggiato dal recupero della distorsione chitarristica e dalla
ritmica incalzante e tribale della batteria di Asgeir Mickelson, Ihsahn, trascinato dalla corrente
sottomarina erompe nel suo classico screaming raschiato (voce da "tacchino strozzato" lo definivamo giustamente).
Ed è qui che entra in gioco uno strumento che avrà tanta parte nel sound generale di Ihsahn: il sax
di Jorgen Munkeby, (già frontman dell’avantguard-jazz band norvegese Shining) e
che coadiuverà nuovamente Ihsahn per il successivo “Eremita”, dove le parti di
sax saranno ancora più marcate e protagonista del tutto. Quello di Munkeby è un
sax acido, acuto, assolutamente amalgamato al resto degli strumenti, che
continuerà per la strofa successiva a gorgogliare e ad impennarsi in sottofondo,
fino alla fine del quinto minuto in cui un controllato blast-beat a supporto di
un riffone ipermetallico erompe splendidamente. Fraseggi di chitarra
claustrofobici e incalzanti accompagnano la discesa sotto la superficie, dove
il nostro protagonista si ritrova davanti a una Atlantide in rovina (sculture
senza forma alla deriva / svettanti sopra torri affondate / di questo regno a
lungo perduto). Un regno interiore, probabilmente il regno del proprio Io. E’ una profondità immensa, che ha
inghiottito la luce del sole e sulla quale, a sua volta, si apre the mouth of
pandemonium…la musica, davanti a questo scenario di desolazione infernale,
raggiunge il suo climax con tutti gli strumenti in primo piano, in un insieme
quasi sinfonico/orchestrale; ma le ritmiche questa volta sono trattenute,
cadenzate: su di esse domina ancora lo scream di Ihsahn che risuona maestoso…gli
ultimi secondi sono invece lasciati al solo sax, che, con poche note sfibrate, dissonanti,
conclude la canzone…
Ovviamente “Undercurrent”, posto
simbolicamente a metà del disco, è un pezzo che va gustato nel suo contesto, a
maggior ragione se si pensa che esso fa parte di un concept album, terzo momento di una
trilogia che comprende “The Adversary”
(debut della carriera solista di Ihsahn) e il già citato “angL”.
Ma questi
dieci minuti valgono la pena di essere ascoltati anche a sé, per la loro
bellezza intrinseca e perché riescono anche a catapultare l’ascoltatore in una
dimensione prettamente interiore dove, come nelle intenzioni dell’autore, non
vi è traccia di vita animale, ma solo un paesaggio dell’anima (vedasi in tal
senso la suggestiva copertina). E non è un caso che l’incipit da brividi del
disco si apra con queste parole: Queste sono le terre sterili / fredde e
austere / notte desolata in un tempo congelato (“The Barren Lands”). Ed è proprio in questo scenario che l’uomo deve fare i conti con se stesso, ritrovando la sua essenza,
eliminando le diverse maschere che accompagnano i nostri comportamenti
quotidiani per ritrovare, appunto, quella “corrente”, quella forza interiore,
spesso latente e non espressa in tutte le sue potenzialità, unico elemento capace di realizzarlo compiutamente.
E’ una dimensione
questa nella quale non si può bluffare, non si può scendere a compromessi con
noi stessi, ma si deve fare i conti con le nostre peculiarità più intrinseche,
vere e profonde. Perché…this is the after / the ending events /
and this is the after / where nothing pretends!