"Parlare di Musica è come ballare di architettura" Frank Zappa

27 mag 2016

UN'OCCHIATA DA BRIVIDI ALL'"IO" DI IHSAHN


I MIGLIORI DIECI "BRANI LUNGHI" DEL METAL

APPENDICE IV: “UNDERCURRENT” (IHSAHN)

Si sa: spesso il metallaro va “a periodi”. Ripercorre discografie di uno stesso artista, o di più artisti dello stesso genere, tutte assieme. A seconda dell’ispirazione o dello stato dell’anima. O magari perché pungolato da uno stimolo esterno.

Quest’ultimo è il mio caso: sono da settimane in una fase ihsahniana. Fulminato dal bellissimo post sull’ex-Emperor del nostro Mementomori, mi sono infatti buttato a capofitto sulla discografia del quarantenne compositore norvegese, ripercorrendone le gesta a partire dalla seconda release della sua carriera solista, “angL” (2008). 

A cura di Morningrise

E mai scelta fu più azzeccata. Sound poliedrico, fresco, moderno, innovatore. Di album in album una crescita e una ricerca costante, partendo da lidi post-black (ma in realtà si dovrebbe parlare genericamente di "musica estrema") fino a giungere, con l’enigmatico “Das Seelenbrechen” (non ho ancora tra le mani il recentissimo “Arktis”) a un qualcosa di difficilmente etichettabile, tanti e tali sono gli elementi di diversa provenienza che si fondono in un tutt’uno assolutamente coerente, sia a livello di scrittura sia a livello di percorso concettuale dell’artista-Ihsahn
Un sound che giunge in questa seconda decade del millennio ad essere progressivo e avanguardista in senso lato, incorporando in sé addirittura elementi ambient e noise.

Ma qui mi fermo: lo scopo di questo post non è tanto descrivere musicalmente il suo percorso solista. Per quello stra-consiglio di leggersi il post di Metal Mirror succitato.

No, come ha fatto il nostro Lost in Moments con i Fates Warning per la loro “Still remains”, mi piacerebbe qui inserire un’ulteriore appendice alla splendida classifica sui Migliori "brani lunghi" del Metal.

Ihsahn infatti merita di stare in questa Rassegna. 

Ovviamente, per le motivazioni su esposte, non potremmo inserire il brano che abbiamo scelto né nella sezione del metal classico né in quella del metal estremo (e poi non mi permetterei mai di modificare la sudatissima classifica già stilata dal nostro mementomori!).

In realtà per questo scopo mi sarebbe piaciuto estrapolare un brano da “Eremita” (2012), il disco che mi è rimasto più nel cuore. Ma nessuno di essi presenta la caratteristica minima stabilita per essere trattato: durare cioè almeno 10 minuti.

E’ comunque con grande convinzione che viro allora su “Undercurrent”, incredibile brano tratto dal precedente, e altrettanto splendido, “After” (2010). La song, ironia del caso, dura esattamente dieci minuti tondi tondi…né un secondo di più né uno di meno! E detiene l’altrettanto importante caratteristica di rappresentare al meglio molti dei tratti dell’ihsahnian sound versione “seconda decade del Terzo Millennio”. Un sound che è sì personale,  frutto come dicevamo di ricerca e ingegno soggettivo, ma riesce anche a essere esempio per il futuro, ad indicare una rotta, una via evolutiva originale per tanto metal contemporaneo
Ed è questa la motivazione, a mio avviso, che giustifica la presenza di "Undercurrent" all'interno della Classifica.

Gli iniziali accordi ripetuti e dilatati in distorsione lasciano spazio, dopo appena mezzo minuto, a un arpeggio in clean da brividi. Arpeggio che si ripete uguale a se stesso, circolare, ipnotico, sul quale si avvitano le note calde del basso di Lars Norberg e la voce pulita di Ihsahn. Questa prima parte molto melodica, calma, quasi “sopita”, rispecchia le lyrics che descrivono una superficie liquida calma, uno specchio del cielo che riflette sfocatamente il paesaggio intorno ad essa. 
Ma sotto questa calma apparente (“calm awake”) c’è qualcosa che ribolle, qualcosa di pericoloso ed ambiguo, in cui un pacifico silenzio è giustapposto a un vuoto opprimente. Un’ambiguità che viene ribadita dal chorus di questi primi, seducenti, tre minuti e mezzo, che recita “Like glass until it breaks”…
E quando il vetro/lo specchio si rompe, simboleggiato dal recupero della distorsione chitarristica e dalla ritmica incalzante e tribale della batteria di Asgeir Mickelson, Ihsahn, trascinato dalla corrente sottomarina erompe nel suo classico screaming raschiato (voce da "tacchino strozzato" lo definivamo giustamente). 
Ed è qui che entra in gioco uno strumento che avrà tanta parte nel sound generale di Ihsahn: il sax di Jorgen Munkeby, (già frontman dell’avantguard-jazz band norvegese Shining) e che coadiuverà nuovamente Ihsahn per il successivo “Eremita”, dove le parti di sax saranno ancora più marcate e protagonista del tutto. Quello di Munkeby è un sax acido, acuto, assolutamente amalgamato al resto degli strumenti, che continuerà per la strofa successiva a gorgogliare e ad impennarsi in sottofondo, fino alla fine del quinto minuto in cui un controllato blast-beat a supporto di un riffone ipermetallico erompe splendidamente. Fraseggi di chitarra claustrofobici e incalzanti accompagnano la discesa sotto la superficie, dove il nostro protagonista si ritrova davanti a una Atlantide in rovina (sculture senza forma alla deriva / svettanti sopra torri affondate / di questo regno a lungo perduto). Un regno interiore, probabilmente il regno del proprio Io. E’ una profondità immensa, che ha inghiottito la luce del sole e sulla quale, a sua volta, si apre the mouth of pandemonium…la musica, davanti a questo scenario di desolazione infernale, raggiunge il suo climax con tutti gli strumenti in primo piano, in un insieme quasi sinfonico/orchestrale; ma le ritmiche questa volta sono trattenute, cadenzate: su di esse domina ancora lo scream di Ihsahn che risuona maestoso…gli ultimi secondi sono invece lasciati al solo sax, che, con poche note sfibrate, dissonanti, conclude la canzone…

Ovviamente “Undercurrent”, posto simbolicamente a metà del disco, è un pezzo che va gustato nel suo contesto, a maggior ragione se si pensa che esso fa parte di un concept album, terzo momento di una trilogia che comprende “The Adversary” (debut della carriera solista di Ihsahn) e il già citato “angL”. 
Ma questi dieci minuti valgono la pena di essere ascoltati anche a sé, per la loro bellezza intrinseca e perché riescono anche a catapultare l’ascoltatore in una dimensione prettamente interiore dove, come nelle intenzioni dell’autore, non vi è traccia di vita animale, ma solo un paesaggio dell’anima (vedasi in tal senso la suggestiva copertina). E non è un caso che l’incipit da brividi del disco si apra con queste parole: Queste sono le terre sterili / fredde e austere / notte desolata in un tempo congelato (“The Barren Lands”). Ed è proprio in questo scenario che l’uomo deve fare i conti con se stesso, ritrovando la sua essenza, eliminando le diverse maschere che accompagnano i nostri comportamenti quotidiani per ritrovare, appunto, quella “corrente”, quella forza interiore, spesso latente e non espressa in tutte le sue potenzialità, unico elemento capace di realizzarlo compiutamente. 
E’ una dimensione questa nella quale non si può bluffare, non si può scendere a compromessi con noi stessi, ma si deve fare i conti con le nostre peculiarità più intrinseche, vere e profonde. Perché…this is the after / the ending events / and this is the after / where nothing pretends!

Quindi immergetevi senza remore in questo Dopo ihsahniano, tappa fondamentale di un viaggio emozionante e coinvolgente di una delle menti più fulgide e innovative del metal contemporaneo.